Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

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Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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giovedì 31 dicembre 2020

Bilancio 2020 di accesso al Blog

 


Il presente blog in questo 2020 ha avuto dalla sua apertura n.    59485    accessi

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I Trimestre  pari a 711

II Trimestre pari a 121

III Trimestre pari a 4

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I Post totali dalla apertura del blog  è pari a

I Trimestre  pari a 6,67

II Trimestre pari a 6

III Trimestre pari a 3,11

IV Trimestre pari a 5,17

La media dei post per l’anno 2020 è di   5,17  ogni mese

 

 

martedì 22 dicembre 2020

sabato 19 dicembre 2020

1944. La guerra di Liberazione all'estero. La Grecia Continentale III parte

 


Un altro aspetto della Guerra di Liberazione in Grecia fu la vicenda di numerosi soldati italiani che scelsero di non salire in montagna a combattere con i partigiani greci, oppure lavorare presso i contadini o girovagare per le campagne tendendo a raggiungere un porto per cercare di ritornare il Italia. Molti scelsero di nascondersi e confondersi fra la popolazione delle principali città greche, soprattutto Atene. All’inizio del 1944, accanto alle formazioni resistenziali greche, in cui operavano molto soldati italiani, sorsero due organizzazioni che, oltre a mettere in atto atti di sabotaggio e raccogliere informazioni, avevano come scopo l’assistenza ed il sostegno dei soldati italiani non aderenti Erano la O.L.I, Organizzazione Liberale Italiana, vicina all’ELAS fondata dal cap. Sebastiano Costantini, dal ten. Dei carabinieri Demetrio Crupi e dal ten. Vittorio Vicari Tra le tante azioni meritorie è da ricordare che il ten. Crupi riportò in Italia cucita sotto la fodera del soprabito, la bandiera del 3° Reggimento fanteria “Piemonte”, avita in custodia dal col. Pozzuoli che transitava per Atene diretto verso un campo di concentramento in Germania. Con le stesse finalità operò la C.O.I. Centro Organizzazione Italiana fondata ad Atene dal col. Giuseppe De Angelis. Questa organizzazione il 14 ottobre 1944 in occasione dell’ingresso delle truppe alleate ad Atene, sfilò per le vie della capitale accanto a formazioni di “andartes”.

 

La vicenda del richiamo del gen Infante in Italia è l’anticipo del clima che si instaurerà in Grecia nell’ambito della guerra civile tra le formazioni di sinistra e le formazioni monarchiche. Entrambe alimentano l’odio verso l’italiano aggressore ed occupatore, e questo odio è una delle componenti della guerra civile dimostrando che i responsabili greci non sono in grado di superare le tragedie proponendo soluzioni conciliative che avrebbero evitato ulteriori contrasti. Il gen Infante, come tanti altri ufficiali italiani era perseguito come “criminali di guerra”, anche se si erano dimostrati decisi fautori della lotta al tedesco. Infante, anche per ammissione degli stessi esponenti della Missione Militare Alleata in Grecia. Accompagnato dal cap. Philip Infante intraprese un lungo viaggio di oltre 200 chilometri per raggiungerà piedi l’Albania e di lì, il 5 febbraio 1944 per mezzo di un peschereccio battente bandiera americana raggiunse Brindisi. Ben presto fu nominato sottocapo di Stato Maggiore del Comando Supremo e dopo la liberazione di Roma fu nominato Primo Aiutante di Campo del Luogotenente Generale poi Re Umberto I. Infante, di sentimenti monarchici convinti, non abbandonò mai i soldati rimasti in Grecia. E fu grazie a lui che giunsero nel corso del 1944 e 1945 aiuti consistenti tramite le missioni militari alleate.

 

 La situazione in Grecia divenne quanto mai difficile con la ritirata tedesca. Nel settembre 1944 iniziò la evacuazione degli ospedali e delle strutture logistiche e del personale amministrativo tedesco da Atene e dalle altre città greche. Non fu una ritirata decente; anzi sembrò più una fuga frettolosa, quasi ignominiosa che colpi sia le truppe combattenti tedesche che la popolazione greca. Segni di disgregazione erano sotto gli occhi di tutti, a cominciare dai soldati austriaci che facevano ogni sforzo per dimostrare che loro non erano tedeschi. Il 12 ottobre 1944 fu il giorno tanto sognato dai greci: i tedeschi sgombrarono Atene, il 13 i paracadutisti britannici occuparono l’aeroporto di Megara, il 14 occuparono Atene. Iniziarono tre giorni di grande festa. Al termine iniziarono i problemi. In breve giunsero dall’Egitto il Governo provvisorio ed il Re e tutti i funzionari che si erano rifugiati all’estero. La situazione era grave. Vi era apparsa di nuovo la fame, che non poteva essere contrastata dagli aiuti alleati. Iniziarono non solo ad Atene ma in tutto il paese le vedette, guidate dall’ELAS che si era messo alla caccia dei “quisling” greci; iniziavano i primi massacri, le epurazioni gli arresti arbitrari. Il porto di Velos divenne la meta di tantissimi italiani, che cercavano l’imbarco in Italia. In breve raggiunsero le migliaia; una relazione britannica riporta che dopo un mese dalle montagne della Tessaglia erano giunti a Velos circa 8500 italiani, che necessitavano di tutto ed erano alloggiati in quello che fu definito “il magazzino americano”. Gli imbarchi per l’Italia si susseguivano in base al naviglio disponibile, ma non sufficienti per trasportare tutti i presenti. Il 1944 si chiude in Grecia con una nuova ondata di paura e di disagi per i rimanenti italiani rimasti: i greci erano sprofondato in una paurosa guerra civile

 

 I precedenti articoli sono stati pubblicati in data 4 e 12 dicembre 2020

sabato 12 dicembre 2020

1944 La guerra di liberazione all'estero. Grecia. II Parte

 

 


Dei 170.000 soldati italiani in Grecia nel settembre 1943, circa 140.00o furono catturati dai tedeschi ed inviati in Germania. I 30.000 che riuscirono a sottrarsi alla cattura, una buona metà era composta dalla Divsione Pinerolo, l’altra metà aveva trovato nascondiglio nelle città, o presso i contadini nelle campagne, ed una aliquota girovagava per le campagne tentando di avvicinarsi alle coste dello Jonio per cercare un qualsiasi mezzo per raggiungere l’Italia

 

Al soldato italiano in quanto tale non si perdonava l’aggressione del 1940 e la successiva occupazione. Nessun greco aveva dimenticato la campagna dell’inverno del 1940 e 1941 quando l’esercito greco tenne testa a quello italiano fino al maggio del 1941, il valore espresso, l’orgoglio di resistere, e crollare non per mano italiana ma tedesca. L’occupazione fu anche peggiore in quanto oltre al solito corollario di incendi, fucilazione di ostaggi, rappresaglie eccidi, imperversò il mercato nero per carenza endemica di viveri che prostò il popolo greco. Tutto questo nel 1944 non era stato dimenticato. Anche se adesso il soldato italiano combatteva il tedesco per il greco era sempre un nemico. Da una parte occorre dire che la popolazione in quanto tale all’indomani dell’armistizio mostrò sentimenti umani e cercò di superare la comune sventura nei limiti consentiti dalle ristrettezze generali; il partigiano combattente, che era inasprito per una serie di lotte, rischi, fughe, sofferenze non riusciva a dimenticare; l’odio si era cristallizzato. Questo fece si che in Grecia non si costituì una unita partigiana italiana combattente, ad eccezione del T.I.M.O, di cui diremo come in Albania il Battaglione “Gramsci” o in Jugoslavia le divisioni “Italia” e Garibaldi”. Il disarmo degli italiani da parte dell’ELAS è il portato di tutti questi sentimenti

Il 1944 in Grecia era per gli Italiani quanto mai gravido di incertezze e di incognite.

Il T.I.M.O (Truppe Italiane nella Macedonia Orientale), posto alle dipendenze della 1° Divsione dell’ELAS, inizialmente era composto da circa 4000 militari, per poi scendere a circa 3000 unità. Era comandato dal maggiore Giuseppe Ramondo ed era ordinato su quattro battaglioni, ed ognuno di essi aveva mantenuto la sua struttura organizza del regio Esercito.

 

Scrive Giraudi:

Alla luce delle chiare testimonianze che abbiamo riportato si comprende perchè l’ELAS della Macedonia occidentale si sia sempre opposta alla decisione di disperdere gli italiani presso i civili, motivando tale opposizione con inesistenti motivi di sicurezza. Gli italiani servivano indiscutibilmente sul piano militare sia come partecipazione diretta ai combattimenti sia come supporto per i diversi servizi, né potevano rappresentare un grosso pericolo, venendo armati solo nelle circostanze volute dai greci.”[1]

 

Il T.I.M.O. riuscì a sopravvivere in quanto era vettovagliato dalla Missione Militare Alleata, altrimenti la sua esistenza sarebbe stata messa quotidianamente in forse. Oltre alle condizioni di vettovagliamento che erano precarie, anche le condizioni igienico-sanitarie erano pessime nella Macedonia Occidentale.

Nella primavera 1944 scoppio una epidemia di tifo esantematico. Solo nel campo di Duccicò morirono quattrocento soldati italiani; l’epidemia infurio per tutta la primavere e l’estate; poi fu seguita da un’altra ancora più dolorosa, la avitaminosi che dava luogo a dolorose cancrene che spesso portavano ad amputazioni eseguite in modo doloroso e stravaganze per mancanza di attrezzature sanitarie e medicinali Nella tarda primavera del 1944 con l’inizio dell’estate queste epidemie sembravano attenuarsi  quando si palesò un’latra grave minaccia  che sfocio nell’ennesima tragedia. I tedeschi, per via dell’andamento della guerra, stavano seriamente pensando nel luglio 1944 di evacuare la Grecia. Quindi era necessario mantenere aperte le vie di ritirata. Questa esigenza diede avvio alla operazione “Sparviero”. Di fronte alla offensiva tedesca le possibilità erano poche per i soldati italiani: o consegnarsi ai tedeschi, e questa fu scelta da pochissimi elementi, oppure raggiungere le bande partigiane operanti anche fuori della Macedonia occidentale, infime, quella che fu la soluzione adottata dalla maggior parte dei soldati ritirarsi sulle cime del Monte Smolikas, o mimitizzarsi nel folto dei boschi nella speranza di non essere scoperti. I rastrellamenti tedeschi distrussero tutti gli insediamenti ove era traccia della presenza di soldati italiani; distrussero o requisirono i magazzini viveri e di vestiario che incontrarono in pratica fecero tabula rasa di ogni struttura che poteva dare ricovero. Ritirati i tedeschi, i soldati italiani che ritornarono, trovarono tutto distrutto tanto che si cominciò a disperare per il futuro. Un altro inverno in quelle condizioni era impossibile passarlo. Per fortuna, dopo notizie più o meno confermate, si ebbe la certezza della ritirata tedesca. Ai primi di novembre pochi giorni dopo la constatazione che i tedeschi si stavano ritirando, gli uomini del T.I.M.O., sia quelli armati che quelli disarmati iniziarono il cammino di ritorno in patria avviandosi verso la pianura tessala ed il porto di Velos. 

 

 Giraudi traccia un ampio quadro delle formazioni di livello plotone/compagnia o minori che operarono nelle fila della resistenza greca. Oltre alla banda dei 18, ed al Gruppo dei 16, meritano di essere ricordati altri gruppi che operarono con elementi partigiani come la batteria someggiata da 75/13 del cap. Riccardi e del ten. Gattola, che combattè aggregata alla 13a Divsione ELAS fino al disarmo., il gruppo del s.ten Giacomo Baduini che riuscì ad aggregare oltre 200 uomini armati ed ad aggregarsi ad una formazione dell’ELAS. [2]

 

I soldati italiani in Grecia non aderenti, andavano incontro ad una sorte che in tanti casi era dettata dal caso o da circostanze fortuite, e meritano di essere ricordati. Come la vicenda delle due Medaglie d’Oro, il s.ten. della Guardia di finanza Attilio Corrubia ed al tenente medico col. della Marina Militare. Il s.ten. Corrubia era comandante del 1° plotone della 1a compagnia finanzieri di stanza nel Peloponneso; all’indomani della proclamazione dell’armistizio riuscì a raggiungere col suo plotone  una unità della resistenza greca, il battaglione “Elias” nei pressi di Kalavrita con il quale combattè fino al dicembre 1943, quando per la forte pressione tedesca, il battaglione fu sciolto  ed i militari italiani vennero inviati sulle montagne e suddivisi in diversi paesi oppure sparsi nella campagna presso i contadini. Corrubia fu indirizzato dove era in essere l’infermeria partigiana del battaglione “Elias” dislocato presso Arfarà Abele. Qui incontrò il tenente medico Giuli Venticinque, anche lui datosi alla macchia nei giorni dell’armistizio, sbancando dalla nave su cui era imbarcato per non aderire. Il 19 gennaio 1944 durante un rastrellamento, i tedeschi, probabilmente informati da una spia del luogo, circondarono in forze la casa ove era posta l’infermeria e catturarono i due ufficiali italiani e quattro greci. Portati a Aghion i due ufficiali italiani furono sottoposti a torture nella speranza di avere dati e notizie sulle formazioni partigiane. Il 23 gennaio, dopo il risoluto atteggiamento dei due italiani che non rilevarono nessun dato, li impiccarono nella piazza del paese. Il comportamento tenuto dai due Martiri suscitò l’ammirazione sia della popolazione che dei tedeschi.

 Un altro aspetto della Guerra di Liberazione combattuta fuori dal territorio italiano merita di essere sottolineato. In Grecia le forze partigiane erano composte sia da formazioni comuniste che da formazioni monarchiche, queste sostenute dagli alleati. Verso la meta del 1944 si delineava con crescenze intensità la possibilità che all’indomani della ritirata tedesca il fronte della resistenza, prima antitaliani, poi antitaliano e tedesco, poi solo antitedesco no mantenesse la propria unità e sfociasse in una vera e propria guerra fra greci. Le diverso formazioni spesso arrivarono anche nella tarda primavera del 1944 a scontrarsi. In queste formazioni contrapposte vi militavano dolati italiani che erano saliti in montagna. Quindi vi era la concreta possibilità che gli italiani combattessero tra loro per una causa a cui erano estranei. Onde evitare questa situazione la soluzione più adotta era quella di trasferire o far raggiungere altre formazioni greche in aree ove ancora non era iniziata la guerra civile greca, oppure vi erano solo formazioni di una determinata parte ed assenti quella dell’altra. Un ulteriore aggravio per i soldati italiani questo collasso del fronte della resistenza greca; in Italia, per inciso, il fronte della resistenza rimase unito e, tranne l’episodio di Porzus dovuto ad iniziative individuali, no in vi furono scontri fra formazioni di diverso colore politico in seno alla resistenza italiana. Parlare di guerra civile in Italia, se si tiene presente la situazione greca appare quanto mai azzardato.

( la prima parte è stata pubblica in data 5 dicembre, la terza parte sarà pubblicata in data 19 dicembre 2020)

[1] Giraudi G., La resistenza dei Militari Italiani all’estero. Grecia continentale e Isole dello Jonio, cit., pag224

[2] Giraudi G., La resistenza dei Militari Italiani all’estero. Grecia continentale e Isole dello Jonio, cit., pag. 248

 

sabato 5 dicembre 2020

1944 La guerra di liberazione all'estero Grecia Continentale I parte

 


4.5 Grecia continentale.

Nella Grecia continentale la sorte dei soldati italiani non è benigna. Dopo la triste vicenda della volontà greca di procedere al disarmo della Divisione Pinerolo, in cui superstiti furono raccolti nei campi di concentramento di Grevernà, Neraida e Karpenision.  Questi campi non avevano nulla da invidiare ai lager tedeschi, in quanto mancavano di tutto, sia in termini di viveri, di medicinali di vestiario, ove la mortalità raggiunse cifre considerevoli Dopo aver passato un inverno fra stenti e fame in condizioni allucinanti, i soldati italiani nella primavera del 1944 erano ridotti a larve umane. Per poter dare un certo aiuto a questi soldati, che nella sostanza erano, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania del 13 ottobre 1943, degli cobelligeranti se non alleati, la Missione militare alleata incaricò un ufficiale inglese, il maggiore Philipp Warrel della direzione e gestione dei campi stessi. Warell si rilevò un benemerito in quanto riuscì con la sua opera a salvare migliaia di prigionieri italiani. Riuscì’ ad avere denaro tanto che potè corrispondere al mese ad ogni soldato una sterlina e mezzo per poter acquistare per lo meno il necessario per sopravvivere. Ottenne anche di dislocare molti soldati presso le famiglie contadine che, in cambio di lavoro, corrispondessero vitto ed alloggio. La situazione era veramente grave, anche per l’azione tedesca che si sviluppava sia attraverso rastrellamenti violenti, dove non venivano risparmiati né feriti né moribondi, sia attraverso lusinghe ed promesse affinchè i soldati italiani scendessero dia monti dai loro nascondigli e si consegnassero ai presidi tedeschi.

 Il dramma dei soldati italiani nella Grecia continentale nasce dal fatto che i greci erano profondamente divisi ed il movimento partigiano era visceralmente frazionato e frammentato e le fazioni si facevano tra loro una guerra atroce e crudele, spesso senza senso. Ai greci interessava inizialmente non che il soldato italiano li aiutassero a sconfiggere i tedeschi occupatori, come accadeva in Albania ed in Jugoslavia, ma le armi, le munizioni, l’equipaggiamento e ogni bene utile; una volta disarmato e spogliato di tutto il soldato italiano diventava un peso inutile, oggetto solo di rancore per l’aggressione del 1940 e la relativa occupazione. Una situazione triste per questo paese le cui divisioni portarono ancora più lutti della guerra perduta e della occupazione italotedesca.

 

Anche per  tutto il 1944 al soldato italiano, in queste circostanze, si presentava che all’inizio era abbastanza favorevole: se armati potevano costituire una propria banda ribelle, sempre però integrata o in collegamento con una formazione greca dell’ELAS (Esercito popolare di liberazione greco) di ispirazione comunista, oppure dell’EDES, (Unione Nazionale greca democratica) di ispirazione monarchica, oppure singolarmente o in piccolissimi gruppi immessi nelle formazioni ribelli; se disarmati potevano aggregarsi alle formazioni partigiane come ausiliari svolgendo numerosi incarichi, oppure raggiungere la campagna e vivere come braccianti presso famiglie contadine in cambio di vitto ed alloggio. Nel 1944 le possibilità di scelta si erano alquanto ridotte e tutto dipendeva dalle circostanze, che, per via della frammentazione politica greca divenivano sempre più difficili. Via via che la lotta tra i greci si inaspriva, era sempre più difficile per gli italiani trovare la possibilità di combattere i tedeschi. Era prassi in tutte le unità greche sia comuniste che monarchiche di non costituire bande o reparti di soli italiani al comando di ufficiali italiani; si preferiva sempre suddividerli fra le proprie bande allo scopo di utilizzare meglio le loro professionalità militari. Un particolare aspetto poi è da considerare per i carabinieri, i finanzieri e le camicie nere. Era costante da parte dei greci cercarli in quanto erano fortemente animati dai rancori accumulati durante l’occupazione ed erano alla ricerca di vendette che spesso avevano motivazioni più presunte che reali. I nostri militari ebbero l’accortezza di lasciare quasi immediatamente le zone dove potevano essere riconosciuti; quei pochi malcapitati che incapparono nella furia della popolazione greca andarono incontro ad una atroce fine.


Massimo coltrinari


( seconda parte il 12 dicembre 2020)


domenica 29 novembre 2020

1944. La guerra di liberazione all'estero. Albania Il Battaglione Gramsci partecipa alla liberazione di Tirana 29 novembre 1944

 

La bandiera del Battaglione Gramsci sfila alla testa del battaglione
durante la parata della Vitoria a Tirana il 29 novembre 1944

Il Battaglione non ebbe anche nella primavera del 1944 ufficiali in posizione di comando ma scelse liberamente i suoi capi e nel febbraio-marzo si ricostituì come unità combattente. Al suo fianco si ricostruirono anche la 6a batteria Vito Menegazzi e la 9a batteria Filippo Cotta, entrambe della Divisione “Firenze”. Queste unità furono le sole unità di artiglieria dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese. Erano al comando di due ufficiali certamente non di sentimenti comunisti, ma che furono accettate in virtù del fatto che rappresentavano un elemento di forza di notevole spessore. Ancora una volta si dimostra che anche nella guerriglia l’elemento ideologico deve cedere il passo all’elemento tecnico non ideologizzato se si vuole raggiungere un superiore capacità operativa. La ricostruzione del Battaglione “Gramsci” è parallela a quella delle formazioni ribellistiche albanesi che iniziano con la buona stagione una crescente azione prima di disturbo poi di vere e proprie azioni di guerriglia contro le formazioni del Bali Komintar e contro i reparti tedeschi. In queste azioni si distinguono i soldati italiani perfettamente integrati nelle formazioni albanesi. In una azione di queste azioni cade, l’8 luglio 1944, Terzilio Cardinali, decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare. [1]

Il Comando Italiano truppe alla Montagna, che non aveva avuto la possibilità di prendere contatto con le autorità italiane in Patria, all’inizio della primavera constata che le sue possibilità operative sono scarse. Tutte le armi e le munizioni, molto scarse, affluiscono all’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese e le formazioni dipendenti, in gran parte distrutte o disperse, via via nei loro elementi superstiti confluiscono nelle fila albanesi, ovvero nel Battaglione “Gramsci” e quindi si dissolvono. Nel mese di marzo ed aprile si constata che le uniche richieste che arrivano sono quelle di sostentamento in termini di viveri e vestiario; la situazione si accentua nel mese di maggio e giugno. Il gen Azzi ed il gen Piccini non possono far altro che constatare che ormai il Comando Italiano truppe alla Montagna ha esaurito la sua funzione. Anche per volontà dei responsabili albanesi questo comando non può continuare ad operare rappresentando, agli occhi degli stessi albanesi, una anomalia nel quadro della guerra di liberazione albanese. Il mito che poi si creerà del soldato italiano, da oppressore a combattente per la libertà, sarà solo creato per il Battaglione “Gramsci”. I soldati italiani fuori da questa formazioni non trovano spazio. La conseguenza immediata è che nel mese di giugno su un mezzo da sbarco per carri armati, il gen. Azzi e tutti i componenti del Comando Italiano Truppe alla Montagna rientrano in Italia, precisamente a Brindisi. Sono in uniforme italiana ed armati, testimonianza del fatto che l’8 settembre al momento dell’armistizio non sono scesi a patti con nessuno. Rimane in Albania, sempre in uniforme ed armato, il gen. Gino Piccini, già comandante della Divisione “Firenze” l’unica autorità italiana in Albania riconosciuta dai responsabili albanesi.

Chi sostituirà il Comando Italiano truppe alla Montagna nella sua funzione anche di tutela ed assistenza ai soldati ed ai cittadini italiani in Albania sarà il Circolo “Giuseppe Garibaldi” che si costituirà a Tirana e poi avrà sedi nelle principali città albanesi e che sarà veramente operativo all’indomani della liberazione.

La situazione generale sul finire dell’estate del 1944 nei Balcani per i tedeschi non è particolarmente rosea. È iniziato, per via della avanzata dell’Armata Rossa da oriente, il lento ripiegamento dalla Grecia. Infatti nell’agosto 1944 i Sovietici erano sulla Vistola, e la Romania era caduta. Se non si voleva rimanere tagliati fuori dalla madrepatria per i tedeschi era necessario iniziare a ritirarsi verso nord per poter mantenere aperti tutti i collegamenti. Le operazioni in Albania erano fortemente condizionate dall’andamento delle operazioni sul fronte orientale.

 Alla fine di ottobre i tedeschi diedero attuazione al piano di ripiegamento verso nord. Tirana diventava un obiettivo sempre più possibile alle forze portigiane. Ai primi di novembre 1944 a Tirana non vi erano più forze operative tedesche, ma solo addetti ai rifornimenti, alla logistica e circa 500 feriti nei vari ospedali. Nella prima decade di novembre tutti i tedeschi si ritirano nel quartiere “Nuova Tirana” (Tirana Ere) lasciando il resto della città nelle mani delle forze partigiane. Pr circa tre settimane si combattè per le strade di Tirana e forze operative tedesche organizzarono colonne mobili da Elbassan e da Durazzo per liberare i Tedeschi di Tirana. Nella terza settimana di novembre una colonna tedesca lasciò, protetta dalle forze operative, Tirana e si mise in marcia verso nord. La città subì per questi combattimenti notevoli danni. La battaglia per Tirana fu veramente violentissima e durante il suo svolgimento entrò in azione anche il Comitato Clandestino Italiano che fu protagonista della fase finale, svoltasi dal 14 al 17 novembre 1944, durante la quale elementi italiani organizzarono la popolazione a erigere barricare, ad organizzare posti di blocco, ad orientare i vari gruppi partigiani verso le posizioni di resistenza tedesche. Il 16 novembre 1944 i tedeschi, ormai sulla via della ritirata, compirono un ennesimo eccidio a danno degli italiani. Furono fucilati 45 ex militari italiani trattenuti inizialemnte come ostaggi. I nominativi dei Martiri furono pubblicati sul giornale “L’Unione” del Circolo Giuseppe Garibaldi di Tirana il 25 marzo 1945 e ricordati durante una solenne cerimonia. Fu l’ultimo eccidio tedesco in terra albanese in danno degli italiani. Alla battaglia finale per Tirana partecipò il Battaglione “Gramsci” con tutti i suoi effettivi e partecipò a tutti i combattimenti sia quelli iniziali che quelli finali dal 31 ottobre al 17 novembre ed ebbe la grossa soddisfazione di incontrarsi verso le cinque del pomeriggio del 17 novembre con quasi tutti gli effettivi a Piazza Skanderberg con le altre formazioni dell’Esercito Nazionale di Liberazione Albanese. Tirana è avvolta dagli incendi e le mine a scoppio ritardato poste dai tedeschi iniziano a brillare, ma ormai Tirana è conquistata anche con la partecipazione dei soldati italiani.

 Il 29 novembre si tiene a Tirana una parata, che fu definita della vittoria, in cui il Battaglione Gramsci al completo, comprese le batterie Cotta e Menegazzi, sfilano tra il consenso e gli applausi generali.

 

Il giorno successivo tutto il Battaglione e le artiglierie si incamminano verso nord ad incalzare i tedeschi, che sono in piena ritirata. Il gen Piccini con i suoi uomini si trasferisce a Tirana, ove il Comando Partigiano Albanese si trasforma in Governo provvisorio. Inizia in Albania il dopoguerra, in cui la situazione degli italiani era alquanto confusa, se non torbida. Coloro che avevano interesse a mantenere le proprie posizioni di privilegio presso la nascente dirigenza albanese erano gli stessi italiani che ben poco avevano fatto per aiutare i soldati italiani in difficoltà e senza appoggio alcuno. La necessità più urgente in quell’ultimo mese del 1944 è avere un quadro generale della situazione dei soldati italiani in Albania, le loro condizioni ed iniziare ad avviare le iniziative per un rimpatrio, che era desiderato da tutti, anche se in Italia la guerra era ancora in corso.[2]

 

(massimo Coltrinari)

[1] Una ampia descrizione delle operazioni in Albania a cui parteciparono i soldati italiani è stata ricostruita nei dettagli in Coltrinari M.,, La Resistenza dei Militari Italiani all’Estero, Albania., Roma, Ministero della Difesa, Commissione per lo studio della Resistenza dei Militari Italiani all’estero, Rivista Militare, 1999 pag.679-917. Anche in questa occasione si ribadisce l’approccio da noi adottato della Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti, evidenziando che le gesta e l’azione di Terzilio Cardinali e di tutti i soldati italiani combattenti in Albania contro i tedeschi difficilmente si potrebbero inquadrare nel riduttivo concetto che la guerra di liberazione intesa come lo scontro tra ribelli e repubblichini nel nord d’Italia

[2] Una ricostruzione in dettaglio delle operazioni finali e per la Battaglia di Tirana si trova in Coltrinari M.,, La Resistenza dei Militari Italiani all’Estero, Albania., cit, pag. 920-930

mercoledì 25 novembre 2020

1944. La guerra di liberazione all'estero. Il Comando Italiano Truppe alla Montagna rientra in Italia

 


L’inizio del 1944 in Albania fu veramente tragico. Le cinque offensive lanciate dai tedeschi contro tutti quelli che si opponevano avevano disperso sulle montagne inospitali le forze ribelli. I soldati italiani che erano sfuggiti ai rastrellamenti tedeschi ed alla deportazione in Germania, erano divisi in due masse. Una piccolissima parte in armi inquadrata nelle fila dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese, sull’ordine dei 4-5000 uomini, una massa molto superiore di circa 40.000 uomini dispersa nelle campagne e sulle montagne, nascosta, che sopravviveva di espedienti, senza possibilità alcuna di ricevere aiuto. Contro costoro si accaniva la crudeltà del Balli Komintar, l’organizzazione collaborazionista albanese, animata da un odio “antitaliano” di rivalsa e di rancore inusitato verso i fascisti italiani che avevano promesso tanto, ma che poi non solo non avevano mantenuto le promesse, ma si erano rilevati il cavallo perdente nella coalizione hitleriana. I veri potenti erano i tedeschi e loro questo lo avevano capito in ritardo. Contro la massa dei soldati italiani inermi si scagliarono le formazioni dei collaborazionisti albanesi, sostenuti dai tedeschi. Da ricordare il grande rastrellamento nelle maggiori città albanesi, soprattutto Tirana e Dibra, in cui soprusi, violenze ed uccisioni perpetrati a danno degli italiani furono innumerevoli. La condizione di vita dei soldati italiani erano veramente tragiche. Per sopravvivere avevano dovuto scambiare alloggio e viveri con quello che avevano, prima le armi, poi l’equipaggiamento, poi i beni personali e quindi il vestiario. Di fronte avevano una popolazione ostile, contadina rude a cui si aggiungevano veri e propri banditi, spesso mascherati da partigiani, che vedevano nell’italiano un momento di attuazione dell’orgoglio nazionale e personale di albanesi che finalmente si potevano sentire superiori di fronte a rappresentanti di una nazione come l’Italia.

Dal punto di vista militare, il Comando Italiano truppe alla Montagna era stato praticamente distrutto; nel gennaio 1944 una ulteriore offensiva tedesca portò alla cattura del Ten. Col. Mario Barbi Cinti, mentre il resto del comando si disperse. Le unità dipendenti anche loro disperse, senza collegamenti ed operanti in alta montagna, unico posto sicuro. La situazione dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese non era migliore. Le formazioni ribelli albanesi erano anche loro disperse, e la loro capacità operativa era ridottissima. In pratica nei primi mesi del 1944 i tedeschi poterono annunciare che in Albania le forze ribelli erano state annientate. Con l’arrivo della primavera, e con l’avanzarsi della buona stagione, le fila ribellistiche iniziarono a riunirsi. Per volere di Enver Hocha, fu data la massima attenzione alla ricostruzione del Battaglione “Antonio Gramsci” distrutto nella battaglia del 1 novembre 1943 a Berat, mentre non si vedeva di buon occhio da parte dei capi partigiani albanesi la ricostruzione di un Comando italiano autonomo. Lo scopo era chiaramente politico. L’Albania doveva essere liberata dagli albanesi, e soprattutto dai comunisti albanesi per creare nel dopoguerra uno stato proletario e sovietico. In questo quadro la ricostruzione del Battaglione “Gramsci” non trovò ostacoli. A fine marzo, il battaglione, al comando di Tersilio Cardinali, e come commissario politico Bruno Brunetti, accoglieva tutti gli italiani che ancora erano armata, e via via si completavano i ranghi. Il battaglione divenne un modello di guerriglia italiani, costituita da “irriducibili” fortemente ideologicamente schierati. Oltre a coloro che già avevano aderito al Partito comunista o erano antifascisti, si unirono anche i delusi dal fascismo, a coloro che erano partiti per conquistare il mondo e si erano trovati in disastri difficilmente immaginabili. La violenta e sorda reazione negativa nei confronti del proprio giovane passato fece sì che il Battaglione “Gramsci” accogliesse elementi fortemente motivati. Inoltre molti preferivano ritornare a fare i soldati che vivere nascosti alla mercé del caso. Innumerevoli sono le testimonianze di soldati italiani che per sopravvivere si ridussero a fare cose degradanti. Spesso per avere dello scarso cibo, si sostituivano all’asino per far girare la ruota del mulino, oppure agli animali per tirare l’aratro. La vita presso i contadini albanesi per tantissimi soldati italiani si può paragonare agli inferni dei campi di concentramento in Germania


 Continua  ilporssimo post sarà pubblicato il 20 novembre 2020)

sabato 21 novembre 2020

1944. I Militari Italiani all'Estero. Jugoslavia

 



La divisione “Garibaldi, come visto, era nata il 2 dicembre 1943 dalla fusione dei reparti della Divisione “Venezia” e della Divisione Alpina “Taurinense”, del Regio Esercito operanti nel Montenegro fino alla crisi armistiziale. La Divisione “Garibaldi” aveva assunto organici conformi a quelli già in atto presso l'unità dell'esercito di liberazione jugoslavo e operava nella città di Pljevlja, e comprendeva la 1a, (composta dalla Divsione “Aosta” ed alpini della “Taurinense”) la 2a e la 3a Brigata “Garibaldi”;  era stata passata in rivista, al momento della sua costituzione dal comandante del II Corpo d'assalto jugoslavo generale Peko Dapcevic, alle cui dipendenze operative era stata posta la “Garibaldi” con il consenso dallo Stato Maggiore Italiano a Brindisi. Le operazioni del dicembre fino a febbraio del 44 riguardano l'ordine alla Divisione “Garibaldi” di marciare dalla zona di Durmitor in Montenegro alla Serbia. In pratica nella andata e ritorno fu compiuto questo viaggio di 52 giorni dalla ultima decade del ‘43 al 2 febbraio del 44 e non si va molto lontano dal dire che furono compiuti circa 1500 km in media 30 km al giorno. Le operazioni del 2° Corpo d’Assalto Jugoslavo in Serbia furono un insuccesso totale e forse, dopo l’azione tedesca su Pljevlja che aveva procurato tante perdite, doveva far riflettere i comandanti di Tito prima di iniziare una azione di penetrazione in Serbia. In pratica gli uomini della “Garibaldi” in tre mesi erano sempre in cammino tra ghiacci o tra la neve, con ripetute azioni contro il nemico, tra disagi e fame.

Con un ordine inaspettato del comando del 2° Corpo d’Assalto del EPLJ al Comando della divisione italiana Partigiana “Garibaldi” veniva disposto che la 2a e la 3a Brigata “Garibaldi” avrebbero dovuto raggiungere la Bosnia e passare alle dipendenze operative del 3° Corpo d’Assalto. Questo ordine aveva due motivi giustificazioni, il primo in quanto le riserve di viveri in Montenegro e nel Sangiaccato erano completamente esaurite, il secondo che le due Brigate italiane avrebbero dovuto sostituire altrettante Brigate jugoslave in procinto di trasferirsi in Serbia. Tale ordine provocò le proteste da parte del comandante della divisione “Garibaldi” che, tra l'altro, vedeva smembrata la sua divisione, ma non si ottenne la sua revoca perché in tal senso era stato disposto dal Comando Supremo di Tito per esigenze strategiche. Nel Montenegro il Comando della “Garibaldi” notevolmente ristrutturato dal Secondo Corpo d’Armata slavo in uomini e mezzi avrebbe potuto disporre sul campo della I Brigata “Garibaldi” la cui forza organica delle due divisioni italiane sia la Taurinense che la “Venezia” alla data del 8 settembre era di 19089 uomini e 18000 soldati


(massimo Coltrinari)

sabato 14 novembre 2020

C.I.S.R. La conquista del bacino del Donetz. I Risvolti logistci

 


Nella Relazione finale sulle operazioni del C.I.S R. Il Maresciallo Messe, in merito alla conquista del bacino del Donetz, nei suoi risvolti logstici

Il periodo delle operazioni per la conquista del bacino del Donetz rappresentò effettivamente la maggior punta di crisi logistica di tutta la campagna, il limite massimo tra l’osare ed il potere, il trionfo delle forze dello spirito.

Gli elementi essenziali per incidere su questo stato di fatto furono i seguenti:

- la situazione preesistente, precedentemente accennata;

- la nostra ormai nota insufficienza quantitativa e qualitativa di mezzi di trasporto;

- le inadempienze tedesche in fatto di rifornimenti e di convogli ferroviari;

- il peggioramento delle condizioni atmosferiche.

Circa i rifornimenti da parte germanica si può dire che essi si effettuarono regolarmente fino al Bug, divennero incompleti da Bug al Dnjepr, furono assolutamente insufficienti ed oltremodo intricati dal Dnjepr al bacino del Donetz. Questa schematizzazione acquista particolare valore ove si pensi che il periodo di massima crisi logistica, tra Dnjepr e Donetz, doveva coincidere con una fase di intensissima attività operativa e di irreparabile stasi dei trasporti per via ordinaria.

Mentre infatti le truppe, superando sforzi durissimi e marciando quasi sempre a piedi, riuscivano a procedere verso gli obbiettivi, le autocolonne di rifornimento restavano inesorabilmente bloccate dalla impraticabilità delle piste: di giorno per il mare di mota che le sommergeva, di notte per l’inimmaginabile sconvolgimento del terreno solidificato dal gelo, arato profondamente in ogni senso dai solchi delle ruote, tale da rendere inefficiente ogni nostro automezzo dopo appena qualche chilometro di percorso.

Unico mezzo di trasporto in grado di funzionare era quello aereo ed a questo si ricorse per i rifornimenti più urgenti di viveri e di munizioni e per lo sgombero dei feriti gravi dalla zona di Stalino a quella di Dnjepropetrovsk. Ma gli apparecchi disponibili erano pochissimi e il loro contributo non rappresentava che un palliativo.

Nonostante tutto, la truppe non si arrestarono e conquistarono in breve tempo tutti gli obiettivi fissati. Ma giunsero stanchi dalle marce e dai combattimenti, abbisognevoli di tutto, scarpe, uniformi, viveri, munizioni, carburante. E l’inverno era alle porte.

Per sopperire alle esigenze delle unità non bastava più spostare in avanti le basi, ma occorreva alimentare abbondantemente le basi stesse, per evitarne il rapido esaurimento. Era questo un problema essenzialmente ferroviario e le ferrovia erano ipotecate dai tedeschi, come al solito larghi di promesse e di convenzioni, ma terribilmente egoisti nel concedere e instabili nel mantenere.

L’Intendenza del C.S.I.R. aveva elaborato progetti sommari di rifornimenti ferroviari, richiedendo alle autorità germaniche un determinato contingente di convogli mensili ma, a causa della insufficiente potenzialità delle linee in rapporto alle numerose esigenze, il programma dovette essere notevolmente ridotto.

 

sabato 7 novembre 2020

C.I.S.R. Rapporti con i Tedeschi. Trasporti ferroviari. Agosto 1941

Considierazioni sulla campagna di Russia



Il Maresciallo Messe nella sua Relazione finale così evidenzia i rapporti italo-tedeschi in tema di trasporti

Lettera diretta il 15 novembre 1941 dall’Intendenza del C.S.I.R. allo Stato Maggiore dell’Esercito, nel quale risulta chiaramente lumeggiata la contrastata questione:

 

“…Non conosco le cause che hanno indotto il comando tedesco a ridurre da 25 a 15 i treni che mensilmente potranno essere inviati al C.S.I.R., come pure non conosco i motivi che hanno indotto codesto S.M. all’accettazione pura e semplice di tale fatto. Il problema dei trasporti ferroviari, affrontato da mesi, non ha ancora trovato una soluzione ed anzi oggi è ricondotto all’origine, senza che i successivi insistenti interventi abbiano dato un frutto qualsiasi. Infatti l’Intendenza il 13 settembre chiese l’inoltro di un treno al giorno oltre il Dnjepr; glie ne fu garantito prima uno ogni due giorni da Q.U.2 del comando sud, poi 25 al mese dal comando Supremo tedesco, peraltro ridotti subito a 20 dal Q.U.2, infine ridotti ancora a 15 dal comando Supremo tedesco. Ad onta delle riduzioni le promesse non furono mantenute. Infatti nel periodo 15 settembre - 15 novembre sono giunti 25 treni, mentre secondo gli impegni di Uman del Q.U.2 (13 settembre) e quelli successivi del Comando Supremo tedesco, nelle stesso periodo di due mesi ne avrebbero dovuto giungere 40. Oggi, coi 15 treni al mese, si è tornati esattamente al punto di partenza di due mesi fa.

Ovvio che queste continue variazioni impediscono l’attuazione di qualsiasi piano organico di preparazione e di trasporto e tutte le previsioni sono annullate.

Il ritardo nell’arrivo dei treni ha portato poi alla conseguenza che materiali che occorreva distribuire alle truppe fin dall’ottobre, si sono accumulati a Dnjepropetrovsk e non è possibile farli proseguire causa l’arresto dei trasporti automobilistici, dovuto al mal tempo. Ed altri materiali necessari al C.S.I.R. per lo svernamento sono ancora in Italia e giungeranno, quando non ce ne sarà più bisogno....-

…In conclusione chiedo allo S.M. Esercito che interessi d’urgenza il comando supremo perché ottenga da quello tedesco l’impegno definitivo a far affluire al C.S.I.R. 25 treni al mese, con attuazione immediata, ad eccezione dei treni ospedale, trasporto truppe e di quelli previsti per lo sgombero delle basi logistiche arretrate.

…Contemporaneamente insisto presso la parte germanica in loco perché assegni al C.S.I.R., non appena riattata la ferrovia Dnjepropetrovsk-Stalino, una media di 20 vagoni al giorno, per lo spostamento in avanti dei magazzini”.

 

E’ da tener conto che sui rifornimenti ferroviari incidevano anche la necessità di trasbordo (di cui i tedeschi profittavano per realizzare furti in grande stile, facendo sparire talvolta interi vagoni) ed i continui rimaneggiamenti dei treni che per strada dovevano alterare più volte la loro composizione originaria. Cito, ad esempio, un treno munizioni, giunto a Krivoirog incompleto ed inutilizzabile perché erano stati avviati altrove i vagoni che portavano gli elementi del colpo.

 

 

venerdì 30 ottobre 2020

Il C.I.S.R. Il Rimpianto. La situazione logistica di sostegno. Luglio 1941

 Considerazioni sulla Campagna di Russia.

Il Maresciallo Messe non fa mistero che l'aver deciso di andare avanti fu un azzardo che mise a dura prova la capaicta  del C.I.S.R. Così ebbe modo di scirvere nella sua relazione finale:

Bisogna aver combattuto fianco a fianco con eserciti stranieri per comprendere tutto ciò. L’onore della Bandiera della Patria, la tutela del nostro prestigio, la fiducia che riponevo nelle mie truppe ispirarono la mia linea di condotta e la mia decisione fu quella di “osare per affermarsi”.

Riporto alcuni brani di una lettera che l’attivissimo e bravo Intendente del C.S.I.R., generale Biglino, mi diresse in occasione del passaggio dell’Intendenza alle dipendenze del1’8° Armata nel luglio 1942:

“..... Ricordo, a mezzo ottobre, l’arresto oltre il Dnjepr a causa del cattivo tempo. Tutti i trasporti erano fermi e le truppe invece marciavano. Pensavo al distacco inesorabile delle truppe dai servizi, alla assoluta impossibilità dei rifornimenti, al sopraggiungere di nuove piogge e all’inverno, che i primi freddi preannunciavano.

Se richiesto di un parere, la mia prudenza logistica avrebbe consigliato l’arresto. Ma Voi interrogaste qualche cosa di diverso e di più alto della logistica. Sono questi, io penso, i momenti supremi del comando, quando il comandante decide sulla base di elementi che egli solo vede, sente e giudica.

Giunsero giorni angosciosi: il distacco completo dell'Intendenza dalle divisioni, i rifornimenti per via aerea, goccia nel mare.

Per colmare in qualche modo quel senso di doloroso isolamento che mi ossessionava mi recavo ad interrogare, presso gli ospedali, i feriti sgomberati per via aerea ed avevo attraverso ad essi un tenue contatto con le truppe che a 300 km. di distanza combattevano in condizioni estremamente difficili. Voi, in quei gravi momenti, raccoglievate quanto avevate seminato...”.

mercoledì 21 ottobre 2020

Il C.I.S.R. Il Dilemma di Messe: arrestarsi o avanzare Luglio 1941

 Considerazioni sulla Campagna di Russia 



La carenza logsitica era tae che il Maresciallo d'Italia Giovanni Messe , comandante del C.I.S.R.  aveva non qualche dubbio se continuare oppure arrestarsi nell'estate del 1941. Il porblema era serio Così lo espne nella sua relazione sugli avvenimenti del C.I.S.R. in quei primi mesi di campagna:

. Ma in realtà se le divisioni si erano attestate al fiume con la parte combattente in tempo per partecipare attivamente alla battaglia di sfondamento, la maggior parte delle truppe di corpo d’armata e soprattutto gli organi dei servizi erano ancora disseminati su una profondità di circa 800 km. Ospedali, forni, depositi di munizioni, materiali del genio, magazzini vestiario ed equipaggiamento, delegazioni d'Intendenza, parchi, officine sostavano lungo la interminabile linea di comunicazione, privi di ogni possibilità di spostamento per insufficienza di mezzi.

La stazione di testa ferroviaria era Belzy, a 378 km. dalla delegazione d'Intendenza più prossima alle truppe operanti e soltanto per i primi di settembre si prevedeva di rimettere in esercizio qualche tronco ferroviario più avanzato.

Gli automezzi incominciavano ad accusare lo sforzo eccessivo cui necessariamente dovevano essere sottoposti; il servizio delle riparazioni procedeva con ritmo inadeguato per insufficiente numero di autofficine e, soprattutto, per mancanza di parti di ricambio (deficienza, quest’ultima che ha fortemente inciso dovunque sul rendimento della nostra motorizzazione, già tanto scarsa quantitativamente e qualitativamente tanto inadeguata). La conseguenza era la progressiva diminuzione di portata dei nostri autotrasporti, materialmente espressa dal sorgere dei primi “campi autoguasti”, veri cimiteri di macchine, destinati a moltiplicarsi col procedere dell’avanzata.

Situazione nel suo complesso preoccupante, suscettibile di miglioramento soltanto attraverso un periodo di raccoglimento che, consentendo al corpo d’armata di riunire le sue sparse membra, avrebbe potuto conferire alle unità maggior vitalità operativa. Viceversa occorreva riprendere senza indugio il movimento verso oriente, per affermarsi nel bacino industriale del Donetz e nella zona di Rostov: un nuovo sbalzo di 300 km. alle cui incognite operative venivano pertanto a sovrapporsi quelle, già tragiche, dei rifornimenti.

Avrebbe potuto il Corpo di Spedizione superare la prova? o non si sarebbe corso il pericolo di vedere le nostre truppe disperse su fronti e profondità smisurate, senza viveri, senza munizioni, senza carburante, paralizzate ed inerti alla mercè della reazione nemica?

Prudenza avrebbe voluto che noi avessimo denunciato, fino da quel momento, la necessità di una sosta, prima di riprendere a seguire gli alleati, tanto meglio attrezzati per quel genere di operazioni e, soprattutto, assai meglio alimentati dai loro organi di rifornimento. Ma ciò avrebbe significato la fine del C.S.I.R. come unità combattente e la sua definitiva condanna alle retrovie per servizi territoriali.

Suprema responsabilità di comando di cui ricordo ancora oggi l’angoscia del travaglio! Nel tormento delle decisione io “sentii” che il soldato era pronto ad affrontare qualunque sacrificio pur di difendere la sua dignità e il suo buon nome d’italiano.