L’inizio
del 1944 in Albania fu veramente tragico. Le cinque offensive lanciate dai
tedeschi contro tutti quelli che si opponevano avevano disperso sulle montagne
inospitali le forze ribelli. I soldati italiani che erano sfuggiti ai
rastrellamenti tedeschi ed alla deportazione in Germania, erano divisi in due
masse. Una piccolissima parte in armi inquadrata nelle fila dell’Esercito di
Liberazione Nazionale Albanese, sull’ordine dei 4-5000 uomini, una massa molto
superiore di circa 40.000 uomini dispersa nelle campagne e sulle montagne,
nascosta, che sopravviveva di espedienti, senza possibilità alcuna di ricevere
aiuto. Contro costoro si accaniva la crudeltà del Balli Komintar,
l’organizzazione collaborazionista albanese, animata da un odio “antitaliano”
di rivalsa e di rancore inusitato verso i fascisti italiani che avevano
promesso tanto, ma che poi non solo non avevano mantenuto le promesse, ma si
erano rilevati il cavallo perdente nella coalizione hitleriana. I veri potenti
erano i tedeschi e loro questo lo avevano capito in ritardo. Contro la massa
dei soldati italiani inermi si scagliarono le formazioni dei collaborazionisti
albanesi, sostenuti dai tedeschi. Da ricordare il grande rastrellamento nelle
maggiori città albanesi, soprattutto Tirana e Dibra, in cui soprusi, violenze
ed uccisioni perpetrati a danno degli italiani furono innumerevoli. La
condizione di vita dei soldati italiani erano veramente tragiche. Per
sopravvivere avevano dovuto scambiare alloggio e viveri con quello che avevano,
prima le armi, poi l’equipaggiamento, poi i beni personali e quindi il
vestiario. Di fronte avevano una popolazione ostile, contadina rude a cui si
aggiungevano veri e propri banditi, spesso mascherati da partigiani, che
vedevano nell’italiano un momento di attuazione dell’orgoglio nazionale e
personale di albanesi che finalmente si potevano sentire superiori di fronte a
rappresentanti di una nazione come l’Italia.
Dal
punto di vista militare, il Comando Italiano truppe alla Montagna era stato
praticamente distrutto; nel gennaio 1944 una ulteriore offensiva tedesca portò
alla cattura del Ten. Col. Mario Barbi Cinti, mentre il resto del comando si
disperse. Le unità dipendenti anche loro disperse, senza collegamenti ed
operanti in alta montagna, unico posto sicuro. La situazione dell’Esercito di
Liberazione Nazionale Albanese non era migliore. Le formazioni ribelli albanesi
erano anche loro disperse, e la loro capacità operativa era ridottissima. In
pratica nei primi mesi del 1944 i tedeschi poterono annunciare che in Albania
le forze ribelli erano state annientate. Con l’arrivo della primavera, e con
l’avanzarsi della buona stagione, le fila ribellistiche iniziarono a riunirsi.
Per volere di Enver Hocha, fu data la massima attenzione alla ricostruzione del
Battaglione “Antonio Gramsci” distrutto nella battaglia del 1 novembre 1943 a
Berat, mentre non si vedeva di buon occhio da parte dei capi partigiani
albanesi la ricostruzione di un Comando italiano autonomo. Lo scopo era
chiaramente politico. L’Albania doveva essere liberata dagli albanesi, e
soprattutto dai comunisti albanesi per creare nel dopoguerra uno stato
proletario e sovietico. In questo quadro la ricostruzione del Battaglione
“Gramsci” non trovò ostacoli. A fine marzo, il battaglione, al comando di
Tersilio Cardinali, e come commissario politico Bruno Brunetti, accoglieva
tutti gli italiani che ancora erano armata, e via via si completavano i ranghi.
Il battaglione divenne un modello di guerriglia italiani, costituita da
“irriducibili” fortemente ideologicamente schierati. Oltre a coloro che già
avevano aderito al Partito comunista o erano antifascisti, si unirono anche i
delusi dal fascismo, a coloro che erano partiti per conquistare il mondo e si
erano trovati in disastri difficilmente immaginabili. La violenta e sorda
reazione negativa nei confronti del proprio giovane passato fece sì che il
Battaglione “Gramsci” accogliesse elementi fortemente motivati. Inoltre molti
preferivano ritornare a fare i soldati che vivere nascosti alla mercé del caso.
Innumerevoli sono le testimonianze di soldati italiani che per sopravvivere si
ridussero a fare cose degradanti. Spesso per avere dello scarso cibo, si
sostituivano all’asino per far girare la ruota del mulino, oppure agli animali
per tirare l’aratro. La vita presso i contadini albanesi per tantissimi soldati
italiani si può paragonare agli inferni dei campi di concentramento in Germania
Continua ilporssimo post sarà pubblicato il 20 novembre 2020)
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