Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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giovedì 31 dicembre 2009

Storia e geografia della libertà europea:
dai regimi dei LAGER –GULAG, all’Unione dei Quindici Paesi (1939-2000)

Nella storia europea il secolo ventesimo, ce lo ricorda il Presidente Ciampi, si divide nettamente in due Capitoli.
Il primo, 1900-1945, contrassegnato da guerre d’aggressione, imprese coloniali, da due conflitti mondiali. Il secondo, 1950-2000, dalla pace più lunga della storia e dall’integrazione tra quindici Paesi europei. Paesi vittoriosi con l’alleata America sui regimi nazista e sovietico, entrambi crollati, per sempre, a Berlino: l’uno nel 1945 con la morte di Hitler, l’altro nel 1989 con la caduta del Muro e il successivo sfacelo dell’URSS.
I due “gemelli totalitari”, li chiama uno storico francese. (Dei quali il secondo – l’URSS – contribuì grandemente a distruggere il primo). Tutti e due avevano assunto il termine tedesco “lager” come distintivo del loro liberticidio: Gulag in russo significa Direzione Statale dei Lager.
In un autorevole articolo di fondo nel “Corriere della Sera” (26 Sett. 2002) Alberto Ronchey scrive: “Nel nostro tempo rimane incancellabile il ricordo dei dodici anni del Terzo Reich e del genocidio nazista, paragonabile o no al ricordo del Gulag e del genocidio stalinista”. Secondo me quelle parole “o no” sono di troppo. La storia è anche “paragone” e paragonare fra loro due regimi liberticidi è perfettamente lecito. Soprattutto perché, sulle macerie del primo, è poi nata la libera unione europea dei 15 e sulle macerie del secondo Unione Europea e NATO si sono estese fino all’ex Unione Sovietica.
Hitler e Stalin. Vi è un famoso documento storico che comprova il loro pactum sceleris che durò due anni. E’ del 28 Settembre 1939, dopo la distruzione della Polonia da parte nazista e sovietica. Leggiamo: “Germania e URSS hanno creato una solida base per una pace durevole in Europa Orientale. I due Stati sono convinti che la cessazione dello stato di guerra tra Germania e Francia ed Inghilterra sarebbe nell’autentico interesse di tutti i popoli … Se gli sforzi di pace della Germania e dell’URSS non avranno successo, ne conseguirà che solo Francia e Gran Bretagna sono responsabili per la prosecuzione della guerra imperialista”.
Così si esprimono i due “gemelli totalitari”. Chiamano “imperialista” quella che sarà la guerra di liberazione europea dal liberticidio.
Il primo dei due regimi, quello nazista, è stato sconfitto dopo sei anni di guerra mondiale. Il secondo è caduto dopo quarant’anni di “guerra fredda”, per implosione e bancarotta; il suo esercito si è ritirato di duemila chilometri dal cuore della Germania, dove era schierato contro gli eserciti dell’Alleanza Atlantica. Due regimi scomparsi dalla storia. Vittoria epocale della libera Europa.

Abbiamo detto che dalla caduta del primo regime, colpevole dell’Olocausto e dell’asservimento di oltre dodici paesi europei, è nata, in occidente, l’Europa Unita. Con la caduta del secondo, quella libertà si è estesa all’Europa centro orientale. Oggi, queste due Europe cercano di fondersi nell’Unione. Un lontano profeta, Benedetto Croce, aveva previsto fin dal 1932 che “l’unione europea un giorno potrà liberare l’Europa dalle competizioni dei nazionalismi”. Ma Croce scriveva prima dei gulag e dei lager, prima dei regimi d’annientamento: dunque prima della “riduzione all’assurdo dei nazionalismi” dominati da quei regimi, oltre al nazionalismo fascista, legato da Mussolini col patto d’acciaio al regime hitleriano.

E’ una libertà molto imperfetta quella d’oggi in Europa perché la democrazia – che è l’organizzazione politica delle libertà, con le sue istituzioni parlamentari – non si è ancora consolidata nell’unione.

Ma almeno questa svolta quasi federale ha provocato in Europa ovest la “retrocessione in serie B” dello stato nazionale anteguerra, a sovranità assoluta, con le sue alleanze militari, segrete le continue guerre di conquista (ce le ricorda Luigi Einaudi, gia presidente della Repubblica, insigne economista, nel suo libro “L’Europa e la guerra mondiale).


Ora in Europa occidentale, il totalitarismo non esiste più: è sparito come sparì, in occidente, nel secolo XIX, demolito dalla rivoluzione francese l’assolutismo feudale di “diritto divino”. Cinquant’anni di pace in Europa occidentale dopo cinquant’anni di guerra. Che lunga strada ha percorso l’Europa, da Yalta a Maastricht: da “oggetto” di diritto, in gran parte, a “soggetto” forse avviato alla sovranità sopranazionale.

Ma sono proprio due le Europe sorte dopo i lager – gulag? In realtà oggi ve ne sono quattro: la nostra unione dei quindici; poi i tredici paesi candidati all’unione; in seguito l’Europa delle tante etnie rivali, Bosnia Kossovo, Macedonia, Albania, Montenegro, infine la nuova federazione russa.

Sarà compito delle prime due Europe di “europeizzare” la terza nella libertà e di farla “guarire dalla sua storia cruenta”. Anzi, proprio questa sfida storica servirà ad accelerare – come tutte le sfide subite in passato (assedio di Berlino ovest da parte di Stalin, asservimento dei paesi dell’Est, invasione della Cecoslovacchia, crisi di Suez, ecc.) – la difficile fusione della prima e il lento collegamento con la seconda. Beninteso, nell’interdipendenza con gli Stati Uniti, garantita dal Patto atlantico e nella cooperazione con la nuova Russia, oggi presente con le sue sentinelle di pace nel Kossovo insieme a trenta nazioni ed alleata dell’America contro il terrorismo internazionale.


In conclusione: più di una creatura politica nuova è venuta al mondo subito dopo la guerra mondiale e dopo la caduta del genocidio. In Europa occidentale furono uomini di frontiera, come il renano Adenauer, l’alsaziano Shuman, il belga Spaak, il trentino De Gasperi, provenienti da terre invase cento volte dal nemico, a creare su ispirazione di Jean Iunnet e di Alterio Spinelli un protagonista nuovo sull’“area fabbricabile” sorta sulle macerie del nazismo, delegando e relegando Sei stati europei al ruolo di soci fondatori della prima Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio. Ma altrove, in Medio oriente, i congiunti dei sei milioni di vittime dell’olocausto hanno creato Israele.

Questi traumi e questi torbidi nonché le gravi congiunture economiche devono servirci a consolidare quel ruolo di equilibrio politico che spetta all’Europa insieme all’America e che spesso l’Europa esita a realizzare: tanto che è stata definita gigante economico e nano politico. La crescita, giorno dopo giorno, è affidata a ciascuno di noi: perché si creino finalmente quegli Stati Uniti d’Europa – ossia una grande democrazia federale – intravisti e sognati dai padri fondatori, profughi delle esperienze della guerra di liberazione.
Ciascuno di noi deve anche contribuire alla difesa contro ogni ricaduta liberticida.

In Europa, cadute tutte le ideologie – fascismo, nazismo – l’unica “idea – forza” realistica, nell’era della globalizzazione, è il federalismo Europeo che deve traghettare i Quindici verso una vera federazione politica.
In questo viaggio della memoria diamo uno sguardo agli anni decisivi: il crollo, uno dopo l’altro, dei due regimi dello sterminio, e gli albori dell’Europa Unita che faticosamente si unisce ogni giorno di più. Pochi episodi determinanti messi in luce per evidenziare la prima resistenza europea e poi la vittoria, sull’onda lunga della storia.

Guerra ’39 - 45
La battaglia d’Inghilterra
Un cenno di Edgardo Sogno, medaglia d’oro
Il tributo di Winston Churchill ai pochi piloti che salveranno l’Inghilterra dall’invasione nazista, contribuendo così a salvare anche la libertà dell’Europa invasa da Hitler, trova un’eco chiara e netta anche in Italia. Un eroe della nostra Resistenza, Edgardo Sogno, Medaglia d’Oro al valor militare così ne scrive “La pietra e la polvere”. “… I nostri inglesi, i nostri. I “piemontesi” d’Europa…. Sono loro, soltanto loro hanno salvato tutto. Resistendo sotto le bombe, conservando il dominio del cielo … La vera svolta della guerra era lì: 1940. Nel reggere al primo urto tra la democrazia disarmata e la valanga di ferro … Perché è la guerra: contro i campi di sterminio di Hitler. Per la libertà d’Europa”.
Ecco qualcuno che aveva percepito il significato profonda del conflitto ’39-45: la guerra contro i campi di sterminio, quintessenza del regime nazista. Confesso che rileggendo le pagine di Sogno scritte trent’anni fa ho provato un momento d’autofiducia, di soddisfazione personale. Sì perché in decine d’incontri con i giovani, quale Vice Presidente dei Combattenti della nostra guerra di Liberazione, 43-45, ho sempre cercato di definirla come contributo alla guerra europea di liberazione dal genocidio. Ed ho aggiunto che un tema storicamente contiguo era il crollo del regime sovietico, crollo che ha liberato l’intera Europa dell’Est. Due Europe sottoposte nel tempo a due egemonie totalitarie: due liberazioni, e poi, unione delle due Europe liberate. Non è forse il tema centrale del secolo 20°? Che vede sorgere, decollare e morire tre ideologie e tre regimi liberticidi ed al loro posto riemergere l’idea della libera Europa, unificante 30 paesi europei nonostante le immense difficoltà che sorgono sulla sua rotta: libertà ossia disponibilità di sperimentare e perseguire, senza oppressione, ogni verità innovativa e aggregante.
Sentite ancora Edgardo Sogno: “.. La ragione vera di questa guerra è la nostra rivolta umana contro il nazismo, schiacciare il serpe, schiacciare Hitler. Riconquistare un regime di libertà solo formale? Sì formale, ma finché si vuole vivere come in Inghilterra e negli Stati Uniti è già risolvere due terzi del problema”.


Ha parlato un combattente della Resistenza europea. Diamo ora la parola a tre Premi Nobel. Essi si chiedono:
Si può comprendere l’arrendevolezza dell’Europa, negli anni trenta verso il nazismo? Forse, perché era incapace di intendere e di volere, il che è almeno un’attenuante. Incapace di intendere perché non sapeva e di volere perché, non sapendo, non reagiva. Ma per avere un’idea dell’assoluto negativo di quella tragedia ascoltiamo Francois Mauriac che intervista un altro più giovane Premio Nobel, Elie Wiesel. Il terzo, Alexander Solgenitsin, non so se abbia incontrato i primi due: ma prenderà la parola sul Gulag (o se preferite lo “stragismo”) sovietico. La storia, lo sappiamo, né perdona né condanna. Registra. Ma a noi basta; per dirci d’accordo con Mauriac sull’ “iniquità assoluta di quei regimi e che descrive il loro crollo e la nascita lenta faticosa travagliata delle tre creature nuove nel 1945: un’Europa unita, uno Stato sovrano d’Israele – prodotto dall’olocausto -, una Russia, avviata finalmente dopo più di 80 anni alla malcerta democrazia”.
Dice Mauriac a proposito del suo incontro con Wiesel: “Credo che quel giorno ho toccato per la prima volta il mistero dell’iniquità, la cui rivelazione doveva segnare la fine di un’era e l’inizio di un’altra. Il sogno che l’uomo occidentale concepì nel 18° secolo, la cui alba credé di scorgere nel 1789 … era diventato più forte con il progresso dell’illuminismo e le scoperte della scienza: questo sogno svanì finalmente per me (nel 1942) davanti ai treni carichi di bambini (Wiesel era stato uno di quei bambini ebrei rapiti e deportati dalle SS, N.d.A.). E tuttavia io ero ancora a migliaia di miglia dal sapere che sarebbero diventati carburante per le camere a gas e il crematorio” (E. Diesel: “Notte”, Parigi, 1958).
Dunque, nemmeno il Premio Nobel Mauriac sapeva.
Quest’ignoranza di milioni d’europei potrebbe, da sola, dare le proporzioni del delitto contro l’umanità. Wiesel descrive Auschwitz, Solgenitsin i campi di morte che durano ancora decenni dopo la scoperta d’Auschwitz.
L’Europa non sapeva. Un solo esempio. Quando l’Inghilterra reagì contro il nazismo invasore della Polonia il 3 settembre 1939 il Re Giorgio VI rivolse un discorso alla nazione quasi identico a quelli del 1914 per la guerra contro la Germania Guglielmina: parlò di sopruso contro il diritto internazionale, di trattati infranti, di libertà in pericolo, di volontà di dominio. La parola genocidio non era stata ancora inventata. Doveva essere, solo sei anni dopo, uno studioso polacco a capire che “strage”, “massacro”, ecatombe erano inadatte a descrivere la disumanizzazione nazista.
Il Premio Nobel Mauriac aprì gli occhi anche lui in ritardo dinanzi all’iniquità epocale che aveva mutato il corso della storia.
Era lo stesso smarrimento che attanagliò i soldati americani che liberarono Buchenwald. Lo stesso Eisenhower, che corse a visitare l’immenso campo di sterminio finì col ritirarsi dietro una baracca per vomitare. Stessa reazione dei fanti inglesi dell’Armata di Montgomery. Solo allora le armate capirono chi era veramente il nemico. Capirono che i fanti tedeschi che morivano per difendere il “sacro suolo della patria” erano i serventi inconsapevoli del regime del genocidio, del razzismo della morte, che esigeva lo spazio vitale dei “sottouomini” imponendo la supremazia degli Herrenvolk germanici. “Non licet esse vos”.


Italia 1945. Mi sia permesso un ricordo molto personale Io stesso che scrivo, non sapevo tutto questo pur combattendo con un battaglione sul fronte italiano, né sapevano i miei camerati di cento etnie diverse nell’8° Armata britannica. La guerra mondiale, da noi, finì il due Maggio. In quei giorni eravamo a riposo vicino a Rovigo con la mia 8° Divisione Indiana accanto al Gruppo “Cremona”. “Andiamo a vedere un film al NAAFI Club (Navy Air Army Forces Institution). Era un posto di ristoro per le truppe. Il film era preceduto da un documentario fatto dall’ufficio informazioni dell’esercito americano in Germania sulla liberazione del Campo Dachau. Il campo rigurgitava di cataste di cadaveri nudi, scheletrici, quasi ombre dantesche. I soldati inglesi usavano il bulldozer per spingerli nelle fosse comuni. Parlamentari britannici ed americani erano volati in Germania su pressante richiesta del Generale Eisenhauer per assistere allo spettacolo dei campi appena liberati. Quel giorno io percepii netta la sensazione di perdere un po’ della mia vita. Si può morire solo un poco? L’orrore ci paralizzava. Anche noi “non sapevamo”. Avevamo visto, nell’ultima battaglia sul Senio, due alte colonne di fiamme, sugli argini, dove i lanciafiamme dei carri Sherman iniettavano i loro getti sugli argini del fiume Senio, difesi da un reggimento di Grenadien tedeschi. Ripensavo a quei getti di fiamme, vedendo il fumo dei forni crematori. Lest we forget. Per non dimenticare. Diceva la scritta sul cartello eretto dai soldati inglesi sulla porta del campo.


Ascoltiamo ora il terzo Premio Nobel:
il massimo testimone vivente della Russia di Stalin: l’autore di “Arcipelago Gulag”, il Capitano d’artiglieria Alessandro Solgenitsin.
“E come definire la distesa sconsiderata, impietosa ed incalcolabile di cadaveri dei soldati dell’Armata rossa sulla strada delle vittorie di Stalin nella guerra russo tedesca se non sterminio fisico del proprio popolo? Lo sminamento dei campi minati mediante il passaggio della fanteria che veniva mandata avanti su quei campi non è neppure l’esempio più clamoroso. Dopo i “sette milioni”di perdite riconosciute da Stalin ed i “venti milioni” di Krusciov finalmente oggi la stampa russa pubblica la cifra reale: 31 milioni”.
Una cifra che lascia senza parole – un quinto della popolazione.
E’ lo stesso Solgenitsin che ha descritto nel Gulag il rimpatrio dei milioni di prigionieri sovietici dalla Germania. Ma “rimpatrio” è inesatto: essi furono trasferiti dai lager nazisti al lager sovietici. Perché non si doveva sapere che tre milioni di soldati si erano arresi ai tedeschi nella sola estate 1941. Egli commenta: “La falla nei reali sentimenti del popolo russo verso il potere si poté manifestare – e con quale evidenza si manifestò – soltanto nella guerra con la Germania”. E conclude “Durante i primi mesi di guerra il potere sovietico sarebbe potuto ancora facilmente crollare, liberarci dalla sua presenza, se la stupidità razzista e l’arroganza degli hitleriani non avessero dimostrato alla nostra gente, distrutta dalle sofferenze patite, che non bisognava attendersi nulla di buono da un’invasione tedesca: è unicamente grazie a questo che Stalin rimase al potere”.
La conclusione del Capitano Solgenitsin – imprigionato in uno dei campi del Gulag perché aveva visto e detto il vero – è una sentenza senza appello: “Tutte le perdite subite dal nostro popolo nel corso dei trecento anni, a partire dai Torbidi del secolo XVII, non reggono il confronto con le perdite e la decadenza causate da 70 anni di comunismo. In primo luogo qui parliamo di distruzione fisica degli individui. Secondo calcoli indiretti di vari esperti di statistica la guerra intestina permanente (notiamo questa definizione ineccepibile N.d.A.) che il governo sovietico condusse contro la propria gente costò alla popolazione dell’URSS non meno di 45 o 50 milioni di vittime.


E infine. Due conclusioni.
Berlino. Aprile 1945. Gli uomini del Secondo Reggimento Guardie dell’Armata sovietica di Zukov sono a due passi dal Bunker di Hitler. Guardate sulla carta. Marciano da un anno e mezzo: quanti chilometri da Stalingrado a Berlino? L’ultimo muro del Bunker crolla sotto i colpi dei lanciarazzi. Due compagnie di fanti entrano nel Bunker. Fra i cadaveri ce n’è uno, bruciato. Adolf Hitler.
Il regime nazista del genocidio (1933-1945) è crollato. Non esiste più.


Muro di Berlino Aprile 1989. 300 milioni d’europei guardano il telegiornale. Che succede? Il muro di Berlino sta crollando. Fiumane di berlinesi dell’Est corrono verso
Belino Ovest. La Germania si sta liberando dal secondo dei due regimi di un liberticidio che durava dal 1933. Nell’Aprile 1945 la Germania Est ha ottenuto la liberazione, ma senza la libertà. Dalla tirannia nazista è passata alla tirannia sovietica. Ora i due gemelli totalitari sono crollati: tutti e due, vistosamente, a Berlino. Dopo qualche anno le armate russe d’occupazione in Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Estonia, Lituania, Lettonia si ritirano. Sul fiume Elba, nel cuore della Germania, due eserciti si fronteggiano dal 1945: quello dei Paesi del Patto atlantico e quello russo. Un giorno, l’esercito russo si ritira, di 2.000 chilometri. Si ritira nella federazione russa. Di fronte all’esercito dell’Alleanza Atlantica non c’è più nessun avversario: ci sono invece tre nuovi alleati, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca. Berlino 1945. Berlino 1989. La geografia della libertà che si era ridotta nel 1949 alle isole britanniche si estende di migliaia di chilometri fino alla Polonia ed oltre. Arriva anche nella terra di Tolstoi e Dostoieski?
La guerra fredda l’ha dunque vinta l’occidente.
Ma per comprendere questo sviluppo di una storia d’Europa ricordiamo che l’Europa unita non nasce come unione doganale od economica. Nasce (e oggi cresce) come unica soluzione post bellica dopo la debellatio dei regimi totalitari in seguito alla riduzione all’assurdo dei nazionalismi con la guerra mondiale. Se questa chiave di lettura fosse poi criticata dai lettori del Secondo Risorgimento ne saremmo lieti.


Quest’Europa, vittoriosa con l’America contro i due regimi storici dell’annientamento, saprà vincere la riluttanza dei quindici Stati a creare una vera federazione? Due Capi di Stato, i Presidenti italiano e tedesco, due soli in tutta Europa, hanno auspicato un’unione più forte: ossia lo “zoccolo duro” che i pochi palesi “federalisti” siano autorizzati, dai molti ad istruire, con un vero governo, un vero Parlamento, un Seggio al Consiglio di Sicurezza, una sola politica estera e di difesa. Rimangono inascoltate. Il prossimo anno la Convenzione europea sfornerà la Costituzione. Anche il termine è improprio: la Costituzione in Diritto pubblico è la legge suprema di uno Stato, e l’Unione non lo è e non lo sarà. Sappiamo già che la sovranità continuerà a spettare ai singoli Stati. I 15 detentori del potere non intendono privarsene. Come grande passo avanti vi saranno votazioni a “maggioranza ponderata” nel Consiglio dei Ministri su argomenti di “interesse comune”. Vi sarà il coinvolgimento di Consiglio di Commissione. E sarà certo confermata a Bruxelles l’istituzione di un rappresentante dei 15 sempre pronto a partire per Washington o Mosca in caso di crisi. “ad audiendum et referendum” ma privo di qualsiasi potere decisionale.
Tutto qui? Invece della Federazione Europea saranno la Federazione americana e la Federazione russa come sempre a condurre il gioco. Il sogno di Monnet, Spack, Adenauer, Shuman, De Gasperi è svanito da tempo. Ma nessun politico oggi ha il coraggio di ammetterlo. Anche perché la maggior parte di loro oggi ignora chi fossero. Erano tutti uomini della Resistenza che prefiguravano l’unica Europa veramente capace di affrontare le sfide dell’avvenire.
Alessandro Cortese de Bosis

martedì 29 dicembre 2009

L’ITALIA:
SITUAZIONE GENERALE STORICO-MILITARE
Amm. Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Quando, nel pieno dell’estate del 1914, le Potenze europee si lasciarono trascinare verso l’ignoto percorso della guerra, l’Italia stava ancora digerendo gli effetti della guerra con la Turchia. Mentre la Marina, trionfatrice in tutti gli scacchieri, si apprestava a ricevere le navi nuove, che un previdente programma di costruzioni le aveva assicurato, l’Esercito era ancora impegnato a lottare contro i cosiddetti “ribelli” libici.
Si trattava, in realtà, di alcune fra le migliori truppe ottomane, dirette da generali di prim’ordine, che avevano sostituito Enver Bey e Kemal Pascia – che poi prese il nome di Atatürk - ma erano del loro stesso calibro, e le frequenti incursioni di sorpresa, nei punti più deboli del dispositivo italiano, lo dimostravano.
Sul piano più generale, poi, vi era la necessità di trarre le conseguenze del nostro cauto, ma costante, allontanamento dagli Imperi Centrali, in termini di configurazione dello strumento militare. Fino ad allora, infatti, tutta la pianificazione delle forze si era basata sul fronte occidentale, che si estendeva dalle Alpi alla costa dell’Alto Tirreno, continuando con la Sardegna e quella parte della Sicilia prospiciente Biserta.
Questo fronte era integrato da due riserve strategiche, la prima terrestre, ubicata nella Pianura padana, e la seconda costituita dalla flotta, basata a La Spezia, ambedue pronte ad intervenire rapidamente per sventare il pericolo di uno sbarco francese in Toscana, evento che – qualora coronato da successo - avrebbe tagliato in due la nostra penisola, impedendo qualsiasi resistenza organizzata, capace di combattere per un tempo consistente.
Nel caso di un’Italia fuori della Triplice, invece, la situazione cambiava radicalmente, con la Marina che avrebbe dovuto operare nell’ “amarissimo Adriatico” teatro insidioso e composito, dove chi controlava la Dalmazia godeva di un enorme vantaggio strategico, potendo attaccare di sorpresa, quando voleva, le nostre coste, lunghe e sabbiose, quindi incapaci di fornire le basi per le nostre forze di contrasto ad una tale minaccia.
Oltretutto, una linea ferroviaria principale, indispensabile per rifornire “la fronte”, come si diceva allora, correva lungo le nostre spiaggie, ed era quindi completamente esposta all’interdizione nemica.
Il fronte terrestre, poi, non finiva mai, iniziando in Lombardia, proseguendo sul Lago di Garda, con il cuneo del Trentino-Alto Adige piantato nel bel mezzo del nostro schieramento, per finire in pianura, ed arrivare al mare sul bordo orientale della Laguna veneta, all’altezza di Grado. Solo per presidiarlo, ai fini difensivi, sarebbero state necessarie forze terrestri che, in tempo di pace, l’Italia non aveva.
È ben vero che, qualora si fosse arrivati alla guerra aperta, a fianco delle Potenze dell’Intesa, un moderno Esercito, capace di manovrare in quel tratto, fra le Prealpi e l’Adriatico, avrebbe potuto conseguire successi decisivi, qualora fosse stato in grado di agganciare l’avversario su quel terreno. Nel caso, però, di ordinato ritiro del nemico, nella tradiziona dell’Arciduca Carlo, le nostre forze si sarebbero trovate di fronte le Alpi orientali, attraverso le quali esse avrebbero incontrato quelle stesse difficoltà che Napoleone dovette affrontare nel 1797, e sulle quali scrisse al Direttorio, a proposito della sua campagna in Carinzia:
“se il nemico avesse commesso l’errore di attendermi, io lo avrei battuto, ma se avesse continuato a ritirarsi, si fosse ricongiunto con le sue forze del Reno, e mi avesse sopraffatto, allora la ritirata sarebbe stata difficile, e la perdita dell’Armata d’Italia avrebe potuto comportare quella della Repubblica”[1].
Come si può notare, il rischio di essere battuti, nel difficile teatro delle Alpi orientali, e le possibili conseguenze di un tale rovescio erano note fin da oltre un secolo prima, e Caporetto non fu qualcosa di assolutamente imprevedibile.
Purtroppo, la politica non consentiva di predisporre quanto necessario, per fronteggiare la nuova situazione strategica, predisponendo programmi che avrebbero dato nell’occhio, ed avrebbero giustificato le proposte di Conrad, messe sul tappeto fin dal 1911, miranti ad un attacco preventivo contro di noi.
La conclusione fu che il nostro Esercito, nel periodo della nostra neutralità, rimase nel limbo dell’incertezza, cercando di predisporre qualcosa per una mobilitazione generale, e poco di più, mentre le sue risorse venivano continuamente erose dalle esigenze del teatro libico.
Neanche la Marina sviluppò appieno le forze necessarie per operare in Adriatico, limitandosi allla confortante certezza che la sua flotta, che presto si sarebbe basata sulle 5 dreadnought classe Cavour, oltre alla Dante Alighieri, era decisamente superiore a quella Austro-Ungarica.
La nostra neutralità, quindi, oltre ad pienamente giustificata da validissime argomentazioni giuridiche, era, nel 1914, l’unica vera alternativa all’entrata in guerra a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria, essendo il nostro fronte terrestre sguarnito, di fronte ad un rischio di attacco da Nord e da Est.
Non solo, ma i neutralisti che erano al seguito di Giolitti avevano molte frecce al loro arco, per dimostrare la nostra convenienza a rimanere alla finestra, in una lotta fra titani che, non essendosi decisa in un mese, come inutilmente sperato dallo Stato Maggiore tedesco, presentava già tutti gli elementi di una guerra di attrito, lunga e sanguinosa.
Va detto, però, che il passare del tempo rassicurava il fronte politico interventista, visto lo scacco austriaco, nei confronti della Serbia, le durezze del fronte galiziano, e l’impossibilità della Germania di soccorrere l’alleato, essendo già impegnata su due fronti e mezzo, e precisamente ad occidente, ad oriente, oltre che per puntellare l’esercito ottomano, nella sua lotta contro i Britannici.
Purtroppo, mentre il dibattito politico si faceva sempre più intenso, e talora aspro, in Parlamento nessuno si muoveva per finanziare i preparativi per predisporre i mezzi, come l’artiglieria per l’Esercito ed i treni armati per difendere la ferrovia adriatica, che avrebbero consentito, alle nostre forze, di conseguire i successi auspicabili, una volta entrate in campo al fianco dell’Intesa.
Siamo arrivati, si badi bene, ad una costante storica del nostro Paese: la diplomazia italiana negozia, con la consueta abilità, la classe politica discute animatamente, coinvolgendo appieno, ed interpretando fedelmente, gli orientamenti della nostra opinione pubblica, ma nessuno, nel Parlamento o nel governo, si preoccupa di creare un minimo di quelle condizioni che renderebbero attuabile quanto viene auspicato.
Il 24 maggio, quindi, l’Italia fu in grado di opporre, all’Esercito Regio ed Imperiale, essenzialmente una muraglia umana, anche se la manovra di avanzata dei nostri uomini colse di sorpresa il nemico, tanto che alcuni Reparti dovettero ripiegare, dopo aver trovato delle falle nel suo schieramento, cosa che, evidentemente, non si era in grado di sfruttare. Venne quindi la guerra di trincea, il continuo succedersi di punture di spillo, fra forze navali, impegnate in una reciproca interdizione, e solo allora iniziò quella serie di programmi di potenziamento delle capacità, che ci consentirono di reggere per due anni e mezzo, avanzando lentamente verso quella trappola, Caporetto, che Napoleone giustamente paventava, e che, fortunatamente, non causò il nostro crollo totale.
Va detto, ad onor del vero, che, oltre alla voglia di rivincita, dopo l’insuccesso di Gallipoli, il salvataggio dell’Esercito serbo, cosa di cui dovremmo essere più fieri, fu l’occasione, per l’Intesa, di stabilire quel fronte sul Vardar che, alla fine risultò decisivo per l’esito della guerra.
Sul mare, poi, le principali difficoltà si ebbero fuori dell’Adriatico, da quando la campagna dei sommergibili fu lanciata, da parte degli Imperi Centrali. L’unico vero rischio di sconfitta, per l’Intesa, venne da questa campagna, che ci coinvolse direttamente, avendo noi la responsabilità di bloccare l’accesso all’alto mare per i sommergibili nemici.
In tutto quel periodo, va ricordato, prima di concludere, l’Italia funzionò in modo inusuale, con il re Vittorio Emanuele III al Quartier Generale di Udine, ed un Ammiraglio, Tomaso di Savoia-Genova, che svolse, fino al 1919, il ruolo di Luogotenente del Regno. Un simile assetto era stato fatale per la Russia, mentre per noi, bene o male, funzionò, grazie alla qualità del Luogotenente, i cui meriti non saranno mai riconosciuti abbastanza.
In definitiva, la prima guerra mondiale mostrò al mondo che l’Italia aveva quella coesione indispensabile per affrontare sfide difficili. Purtroppo, le ambizioni spropositate dei nostri governi, in materia di guadagni territoriali, a conflitto ultimato, diminuirono grandemente il rispetto che il valore del nostro popolo, in prima linea e sul mare, ci aveva meritato.
Anche questa è una nostra costante, nel volere quello che, spesso, non siamo poi in grado di conservare, con le nostre forze.

Amm. Sanfelice di Monteforte

[1] A.T. MAHAN. The Influence of Sea Power upon the French Revolution and Empire. Samson, Low, 1894, Vol. I pg.234.