Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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mercoledì 30 settembre 2020

la guerra breve dell'Italia Seconda parte

 lla prima parte è stata pubblicata con

ALESSIA BIASIOLO


L’Operazione Barbarossa e le manovre militari in Nord Africa

L’incontro con Hitler avvenuto in Russia, aveva chiarito al Duce che l’alleato si dimostrava infastidito dai francesi per i quali provava antipatia e diffidenza e, quindi, la partita si doveva chiudere quando le sorti per l’Asse fossero state definitivamente chiare e decisive sul piano delle acquisizioni territoriali e militari di forza. Hitler liquidava tutto con l’annientamento della Russia, quindi, come nei suoi piani da tempo. Solo, la Francia non doveva dare noia, anche se i suoi rappresentanti tornarono all’attacco con Vacca Maggiolini durante un funerale, per portarlo ancora sulle loro posizioni, assicurando che riconoscevano i propri errori ai danni del Regno italico e sarebbero stati pronti a rimediare. Si era alla metà di novembre 1941 e Pétain era disposto ad incontrare Mussolini. Pochi giorni dopo gli inglesi attaccarono, per la seconda volta, la Libia e, a quel punto, un accordo con i francesi diventava indispensabile ed impellente per avere le basi tunisine dalle quali inviare rinforzi alle proprie truppe in Africa e all’Asse in generale. Il momento non era di certo quello più indicato, dato che le sorti dell’Asse in Africa erano critiche e che l’Operazione Barbarossa non aveva dato i risultati rapidi e certi e sperati.  

                    La Francia si aspettava la rinuncia delle pretese coloniali e l’allentamento del regime sul territorio continentale. Così Ciano incontrò l’ammiraglio Darlan a Torino che, però, si limitò a tante parole poco concrete, se non chiedere un canale diretto di trattativa con l’Italia senza passare dalla Commissione d’armistizio. Sostanzialmente voleva un rappresentante a Vichy tanto quanto esistevano canali diretti di comunicazione con la Germania. In ogni caso, la Francia non avrebbe concesso l’uso delle basi tunisine, preoccupata di quanto avrebbe infastidito l’opinione pubblica francese tale decisione, a meno di una importante contropartita. Una sorta di sottile ricatto che, del resto, faceva parte delle trattative lecite di un Paese occupato, senza contare il timore che, dando in uso le basi francesi in Nord Africa all’Italia, la Gran Bretagna avrebbe potuto attaccare la Francia, soprattutto le basi coloniali, per rivendicazione. Da un lato Mussolini era propenso a seguire questa strada di trattativa e collaborazione, dall’altra si inserirono nel discorso gli incontri tedeschi, anche di Göring, che resero più tesa la situazione data la rigidità di posizione nazista. I tedeschi, infatti, erano meno propensi a cedere e, quindi, gli accordi vennero sospesi. Hitler alla fine di dicembre, si espresse in modo molto duro nei confronti della Francia con Mussolini stesso, in una lettera. Il Duce avrebbe tirato un sospiro di sollievo solo pochi mesi prima, dinanzi alla rabbia dell’alleato, convinto che, quindi, con la Francia non ci sarebbero stati accordi di collaborazione  con la Germania che avrebbero messo in ombra l’Italia, ma a questo punto, invece, la notizia non era felice. L’intervento tedesco aveva minato la possibilità di venire a patti in chiave di salvare la situazione bellica africana. Vero che i francesi mantennero l’accordo di fare transitare via Tunisi materiale non bellico destinato alla Libia, e altrettanto vero che Mussolini inviò all’alleato nazista una lettera (29 dicembre) in cui in modo fermo prospettava l’occupazione della Tunisia se non si fosse trovato un compromesso. Seguirono altri incontri diplomatici, al fine di avere una via di avvicinamento con i francesi, che portò al documento del 13 gennaio seguente, quando i francesi chiesero la restituzione di circa 700mila prigionieri di guerra, la fornitura mensile di parte del carbone estratto nel territorio francese occupato, la riduzione delle spese di occupazione, concessioni tecniche e territoriali e, soprattutto, la riduzione al solo controllo dell’azione preventiva tedesca sulle autorità politiche e amministrative della zona occupata. Duplat, ammiraglio a capo della Commissione d’armistizio, dichiarò, però, che il governo francese non poteva subito stare accanto all’Asse, come desiderava, per evitare ribellioni e di infuriare l’opinione pubblica che doveva essere ben preparata al cambiamento di fronte. Quindi, la vera e propria collaborazione sul piano strategico-militare in Nord Africa avrebbe dovuto aspettare la fine del 1942, o addirittura i primi mesi del 1943. Allo stesso tempo, si chiedeva a Mussolini di porsi come mediatore con Berlino, ma senza fare nel contempo cadere le rivendicazioni di Parigi di cancellare le richieste territoriali italiane. La situazione era paradossale, con la Francia occupata che dettava legge, in fondo, ma il Duce non se la prese. Era troppo necessario ottenere la Tunisia e, quindi, si doveva fare di necessità virtù, senza però chiudere le porte alla trattativa ulteriore. Ipotizzò anche un incontro a tre tra lui, Hitler e Pétain per siglare un qualche accordo. Tuttavia tutto si rivelò inutile: l’11 febbraio 1942 i francesi annunciarono che gli invii in Libia via Tunisi erano sospesi, perché l’atteggiamento duro dei tedeschi rendeva vani i buoni propositi, gli italiani (secondo loro) non agivano in modo sufficientemente pressante sugli alleati tedeschi e nel discorso erano intervenuti gli Stati Uniti, che chiedevano l’immediata cessazione dei trasporti tunisini. Mussolini, dal canto suo, aveva davvero allentato la pressione sulle trattative, perché in Libia le sorti italiane erano migliorate, i tedeschi non avevano intenzione di trattare con la Francia e c’erano stati troppi episodi anti-italiani, anche con militari francesi coinvolti, per fare pensare di volere davvero giungere ad accordi politico-diplomatici con loro.

Sfuggiva al Duce che, in realtà, la situazione era stata incrinata da rivolgimenti politici interni alla Francia, in cui si voleva un governo più neutrale sia verso Berlino che verso gli Stati Uniti. Pétain, d’accordo con i tedeschi, voleva riportare al governo lo spregiudicato Laval, cosa che avvenne nell’aprile 1942 senza che a Roma se ne sapesse niente. Mussolini non apprezzava affatto Laval e, mentre le truppe italo-tedesche conducevano buoni risultati in Libia e l’offensiva in Russia era ripresa, calò il gelo sui rapporti con i vicini francesi. Tra i militari, c’erano coloro che avrebbero voluto continuare a trattare, ma si diffondeva anche lo scetticismo rispetto alla necessità di non dare troppo spazio di manovra militare ai francesi. Pertanto la situazione divenne tesa e complessa.

Dal 10 al 17 giugno 1942, si tenne a Friedrichshafen un convegno tra i responsabili delle Commissioni d’armistizio che a tratti divenne un vero e proprio scontro: gli italiani si dimostrarono intransigenti verso i francesi, tacciando in sostanza i tedeschi di essere dei creduloni, e questi diedero la responsabilità agli italiani di non aver voluto (o di non voler) cedere sulle richieste coloniali e territoriali. L’Italia ribadì che era entrata in guerra proprio per quelle e, quindi, erano irrinunciabili, ma che non si doveva dare troppo spazio di manovra militare ai francesi in Nord Africa.

Nell’incontro di Venezia del settembre successivo, le posizioni italiane non erano diverse e, se anche non si era giunti allo scontro, era chiaro che gli italiani erano ben consci di come i francesi non avessero affatto tagliato i ponti con la Gran Bretagna, né tanto meno con gli Stati Uniti, quindi non potevano essere interlocutori affidabili per trovare un punto di accordo. Anzi, era chiaro che Laval faceva il piacioso con i tedeschi proprio allo scopo di fare vedere all’opinione pubblica come fossero gli italiani a non voler cedere, allo scopo di ridurre le pretese territoriali. L’attrito italo-francese si andava acuendo, pertanto, anche davanti all’esaltazione, ad esempio, del gallo Vercingetorige rispetto a Giulio Cesare. Non dovevano essere concesse modifiche nel numero di difese francesi in Marocco né di forze armate francesi in Algeria, Tunisia e Francia.

Pochi giorni dopo, l’8 novembre 1942, gli anglo-americani sbarcarono in Marocco e in Algeria. Come Mussolini aveva previsto, la resistenza francese fu scarsa o nulla. Laval venne immediatamente convocato a Monaco da Hitler, furibondo, presente Ciano, Keitel e von Ribbentrop: il francese cercò di tergiversare, anche perché la posizione da tenere nel governo di Vichy non era ben chiara. Mentre Laval prendeva tempo, Hitler gli tolse la parola e gli chiese seccamente se la Francia intendeva consentire punti di sbarco alle truppe dell’Asse in Tunisia. Laval ancora prese tempo e Hitler tolse la seduta. Quindi diede disposizioni immediate per l’occupazione francese a partire dall’11 novembre, compresa la Corsica e la Tunisia. Così avvenne.

( La terza parte sarà pubblicata il 7 ottobre 2020)

 

Alessia Biasiolo

 

lunedì 21 settembre 2020

La Guerra Breve dell'Italia Prima Parte

 



ALESSIA BIASIOLO

Premessa

Nel 1940 l’Italia era entrata nella seconda guerra mondiale attaccando la Francia. La volontà era quella di partecipare alla guerra lampo iniziata dall’alleato tedesco, ottenendo territori e prestigio.

Le richieste territoriali

Decisa l’entrata nella seconda guerra mondiale il 10 giugno 1940, a metà del luglio successivo, Mussolini prospettava per il Paese l’annessione di Nizza e Corsica, Malta, Tunisi e una parte dell’Algeria orientale fino al lago Ciad, comprese le miniere di ferro dell’Ouenza; la Somalia francese e una buona area d’influenza sui Paesi circostanti, ma anche su Grecia e Jugoslavia. Era impossibile, secondo il Duce, porre condizioni troppo severe alla Gran Bretagna, ma di certo la Francia avrebbe dovuto sacrificarsi in favore dell’Italia, anche senza accontentare le mire di molti ai Ministeri italiani, che guardavano ben oltre le aspettative di Mussolini stesso. In sostanza, però, la volontà era di imporre alla Francia una pace punitiva, in modo da ribadire i confini e i rapporti di forza. Così preparò il suo promemoria andando in treno a Monaco per incontrare i tedeschi che lo fecero ragionare più a fondo. Per gli alleati, infatti, era impensabile una pace punitiva, e questo impensierì non poco Mussolini, messo dinanzi all’evidenza che sarebbe stato impossibile pensare ad una piena occupazione della Francia metropolitana. Questo gli fece dubitare che i tedeschi volessero una pace in favore della potenza militare e politica italiana nel Mediterraneo, e i dubbi del Duce si sommarono ai timori. L’ingresso in guerra non gli avrebbe consegnato i territori auspicati, perché gli alleati concordavano con lui, ma era chiaro che non gradivano affatto che i presupposti si avverassero.

Il 21 giugno i tedeschi presenteranno, infatti, ai francesi delle condizioni d’armistizio che fecero comprendere a Mussolini che l’Italia avrebbe fatto le spese di un’inattesa volontà di riconciliazione tra Francia e Germania per soddisfare le richieste della Spagna di territori francesi che, quindi, non solo non sarebbero stati dati all’Italia, o mantenuti sotto l’influenza italiana, ma che avrebbero pagato un Paese nemmeno intenzionato ad entrare nel conflitto, dati i problemi interni a seguito della guerra civile. Hitler non era interessato all’intervento armato della Spagna, fedele nella politica alle esigenze nazionaliste, ma era pronto a soddisfarla territorialmente più di quanto non volesse incrementare la supremazia dell’alleato italiano. Il Duce si deve essere reso conto che entrare in guerra era stato un inutile passo falso. Era chiaro che lo strapotere europeo sarebbe stato solo tedesco, dato che gli intenti, probabilmente, erano quelli di creare un fronte unito contro la Gran Bretagna, prossima all’invasione. È probabile che Hitler volesse la resa o la trattativa della Gran Bretagna, con la quale era gradito il riavvicinamento in vista dell’avanzata antisovietica. Infatti, il Führer era propenso a diventare il bilanciere continentale contro i sovietici e la loro politica, ponendosi come partner solido e da ammirare sul piano politico e militare. Questo gli avrebbe agevolato l’Operazione Barbarossa futura.

Era naturale pertanto l’apprensione di Mussolini dinanzi al rendersi sempre più conto che l’alleato tedesco non voleva affatto un’Italia forte e autonoma sul piano internazionale, con i territori ex italiani riannessi e numerose colonie in Nord Africa. La stessa tempistica della richiesta d’armistizio presentata da Pétain prima ai tedeschi, attraverso la Spagna, e poi agli italiani, attraverso il Vaticano, aveva lasciato il tempo per i nazisti di organizzarsi, mentre il Duce aveva intuito che sarebbe stata consigliabile una posizione più accondiscendente nei confronti della Francia, per non restare isolato dietro le decisione hitleriane. Affermerà nel 1944, tuttavia, di avere insistito con l’alleato tedesco sulla necessità di piegare subito la Francia occupando il Nord Africa e tutte le posizioni francesi, per fare in modo che non ci fossero possibilità di ripresa per i cugini d’Oltralpe, fatto che si rivelerà corretto tempo dopo. In realtà, com’ebbe ad affermare Mussolini stesso, Hitler pensava soltanto alla necessità di marciare contro l’Unione Sovietica comunista e piena di ebrei, tanto da sottovalutare gli affari in occidente.

Firmato l’armistizio con la Gran Bretagna, questa si affrettava ad attaccare la flotta francese, il 3 luglio, tanto che fu grande l’indignazione in Francia per quell’atto vile, del quale tuttavia sembra si siano perse le tracce a favore dell’atto vile soltanto dell’Italia. L’episodio deponeva a favore di un avvicinamento della Gran Bretagna alla Germania di Hitler in chiave dei disegni di quest’ultimo. Inoltre, il clima francese era sempre più antibritannico e, quindi, era inevitabile che la sfera di intenti fosse sempre più verso il nazionalismo hitleriano anche di questa. Mussolini si rendeva ben conto del pericolo: avere la Francia vicina a Hitler e la Gran Bretagna sua nemica, deponeva assolutamente a sfavore del Regno d’Italia. Al 6 di luglio il Duce era convinto che i francesi si fossero abilmente arresi con soltanto le industrie bloccate e pochi morti, in modo da mantenere attive le proprie installazioni in vista di piani futuri: era quanto mai convinto che si dovessero punire aspramente con i trattati di pace per fermarli, tanto quanto non si dovevano lasciare imbarcare gli inglesi verso la patria o i soldati francesi verso l’isola, dove si sarebbero potuti ben riorganizzare. A questo punto Mussolini era stato più preveggente rispetto all’alleato, dimostrando di avere osservato bene i filmini di guerra e di avere notato che le sofferenze francesi non erano state tante da avere una nazione agonizzante. Stava in guardia, al punto che da un lato suggeriva di occupare subito i territori francesi, dall’altra aveva incaricato Ciano di proporre a Hitler una pace separata con i francesi stessi. Questi la considerò inaccettabile perché, a quel punto, gli inglesi avrebbero voluto i territori francesi delle colonie e, quindi, avrebbero sfavorito i tedeschi e gli italiani stessi. Insomma, una situazione affatto ben dettagliata e organizzata come si potrebbe pensare vedendo marciare le truppe sotto l’Arco di Trionfo di Parigi. Anche con la discussione delle clausole dell’armistizio era chiaro che i tedeschi non avessero ben nitide né le proprie istanze verso la Francia, né il piano d’azione politico-militare verso il Mediterraneo. Mussolini era convinto che i francesi tentassero di aggirare la fase sfavorevole sul piano militare non considerandosi vinti, com’ebbe a scrivere a Hitler il 24 agosto 1940, e, cercando di non dare nell’occhio mentre si organizzavano per fare qualcosa, tentavano di “prendere la tessera” nazifascista sotto l’ala di Pétain. Il 19 ottobre 1940, Mussolini scriveva a Hitler, stando agli informatori, “[…] che i francesi odino l’Asse più di prima, che Vichy e Da Gaulle si sono divise le parti e che i Francesi non si ritengono battuti, perché […] non hanno voluto combattere. Vichy è in contatto con Londra via Lisbona. Essi, nella loro grandissima maggioranza, sperano negli Stati Uniti che assicureranno la vittoria della Gran Bretagna […] non si può pensare a una loro collaborazione. Né bisogna cercarla […]. Scartata, quindi, l’idea di una adesione francese a un blocco continentale anti-inglese, credo tuttavia venuto il momento per stabilire la fisionomia metropolitana e continentale della Francia di domani, ridotta come Voi giustamente volete a proporzioni che le impediscano di ricominciare a sognare espansioni ed egemonie”. A questo punto, Mussolini ribadì il problema del numero, per la sua politica importante, come Hitler stesso aveva proprio da lui imparato. Gli italiani dovevano rimpatriare dalla Francia e i territori francesi dovevano essere ridotti anche per limitare il numero dei francesi stessi. Solo con proporzioni numeriche non sfavorevoli, si sarebbero garantite le sorti future del continente europeo, limitando le mire d’Oltralpe. Il 24 ottobre seguente, Hitler incontrò Pétain, all’indomani di un suo appuntamento dall’esito negativo con Francisco Franco; quindi il 28 Hitler incontrò Mussolini a Firenze. Sembrava che nulla fosse cambiato, ma in realtà gli interventi di France libre, di De Gaulle con gli inglesi nelle colonie, la disastrosa prova militare degli italiani in Grecia, avevano ridato fiato ai francesi di Vichy che cercavano l’appoggio tedesco contro le richieste italiane, soprattutto di mantenere la Corsica che nessun francese avrebbe mai voluto tornasse italiana. Sembrava quindi evidente che la Francia tenesse volutamente la situazione instabile, con a capo Pétain, mentre tendeva la mano a Hitler da una parte e agli inglesi dall’altra, ancora non volendo ammettere la sconfitta, come appunto sembrava chiaro anche ai primi del 1941. Un ammorbidimento verso la Francia fu richiesto alla Commissione d’armistizio, quando uno dei suoi membri, Giuseppe Vitaliano Confalonieri, era stato avvicinato da un collaboratore di Pétain per cercare di sondare la posizione italiana nei confronti francesi. Il 13 maggio, Anfuso, il capo di Gabinetto di Galeazzo Ciano, aveva inviato proprio a Confalonieri un promemoria in cui ancora una volta si ribadivano le richieste italiane. Non la Savoia, ma il Nizzardo, la Corsica, Gibuti e la Tunisia. Le basi di Tunisi si erano rivelate indispensabili per cercare di puntare su Alessandria e Suez in chiave antibritannica, come Mussolini aveva sempre pensato e come gli eventi bellici avevano dimostrato in quel frangente. La piega presa era quindi di agevolare gli accordi con la Francia. Il generale Vacca Maggiolini, capo della Commissione d’armistizio, redasse il verbale d’incontro con il Duce del 15 agosto, nel quale sembra di leggere che Mussolini volesse, di nuovo, scindere il problema della Francia metropolitana da quella coloniale, dimostrando di avere ben chiara la situazione anche rispetto alle popolazioni vallone, fiamminghe, olandesi, eccetera. Non passarono che venti giorni prima che Mussolini desse a Vacca Maggiolini l’incarico di non trattare con i francesi nei termini morbidi previsti poc’anzi. Si trattava, ormai, di aspettare la primavera o l’estate 1942, quando i tempi sarebbero stati più idonei a fare capire che non si trattava di Vichy o di ammorbidimenti: la Germania avrebbe chiuso la partita con l’Unione Sovietica e quindi tutto sarebbe stato più definito.

(La II Parte sarà pubblicata il 30 settembre 2020)

lunedì 14 settembre 2020

L'alleanza in frantumi


Gli ex alleati tedeschi
di
Osvaldo Biribicchi


All’indomani del 25 luglio, iniziò tra tedeschi e italiani un gioco ambiguo che avrebbe portato sia la popolazione che le forze armate italiane verso una delle peggiori tragedie della loro storia. I primi cominciarono a far affluire nella penisola numerose unità per concorrere, apparentemente, a difenderla dagli angloamericani sbarcati in Sicilia il 10 luglio (in realtà per premunirsi dall’imminente cambio di schieramento del governo Badoglio); i secondi iniziarono in segreto febbrili trattative con gli Alleati per uscire dalla guerra continuando però, apparentemente, a mostrarsi amici della Germania. Mentre i tedeschi portavano a termine il posizionamento dei propri reparti, il generale Castellano, a Cassibile in Sicilia, il 3 settembre 1943 firmava il cosiddetto armistizio corto che, nelle intenzioni degli italiani, avrebbe dovuto essere reso di pubblico dominio il 12 settembre.                 In realtà, il Generale Eisenhower decise unilateralmente di annunciare l’armistizio, da radio Algeri, l’8 settembre alle ore diciotto e trenta ed il Maresciallo Badoglio, colto di sorpresa, fu costretto ad annunciarlo subito dopo, alle diciannove e quarantacinque. Nell’annuncio radiofonico, Badoglio disse: «ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».        Se i reparti italiani, in patria ed all’estero, la sera dell’8 settembre furono colti di sorpresa non lo furono quelli germanici i quali sapevano già cosa fare, come muoversi e dove attaccare avendo ricevuto ordini esecutivi chiari.                                                                                                            Per gli ex alleati degli italiani iniziò la campagna del fronte meridionale, che aveva l’obiettivo strategico di tenere il più possibile a sud, lontano dal confine meridionale del Reich, il nemico angloamericano, nella convinzione che la guerra si sarebbe decisa contro l’Unione Sovietica sul fronte orientale e soprattutto impedendo uno sbarco in Europa di forze angloamericane provenienti dalle isole britanniche. Le forze armate italiane, lasciate senza ordini o con ordini del tutto generici e demoralizzate, si sbandarono. Decine di migliaia di soldati, completamente ignari dell’avvenuto armistizio, all’alba del 9 settembre 1943 furono sistematicamente attaccati e fatti prigionieri dalle truppe tedesche. La sorpresa per i soldati italiani fu dunque totale, in un attimo si ritrovarono, sotto la minaccia delle armi dei vecchi alleati, a dover decidere se continuare a combattere con loro oppure essere internati in Germania. Coloro che lasciarono le proprie unità per tornare a casa od unirsi alle formazioni partigiane, quando scoperti, furono fucilati senza processo in quanto considerati volgari banditi. Fuori dai confini nazionali, in Corsica, in Albania, nell’Egeo, in Grecia, in Francia in Jugoslavia alcuni reparti riuscirono ad unirsi alle forze partigiane locali che combattevano contro i tedeschi, altri opposero a questi una strenua resistenza. Alla data dell’armistizio, i cittadini in armi erano circa 4 600 000. Una massa enorme che nel giro di poche ore avrebbe perso la già ridotta capacità di combattimento. Nei vari teatri operativi fuori dai confini nazionali stazionavano circa 900 mila uomini: 260 mila in Grecia e nelle isole dell’Egeo, 300 mila in Croazia, Slovenia, Dalmazia, Montenegro e Bocche di Cattaro, 230 mila uomini in Francia e Corsica, più di 100 mila in Albania. Una forza apparentemente formidabile, in realtà terribilmente debole, senza direttive da parte del capo del governo Badoglio, del generale Ambrosio, capo di stato maggiore generale e del generale Mario Roatta capo di stato maggiore dell’esercito. Quel che rimaneva della marina e dell’aeronautica si consegnò agli angloamericani in applicazione delle clausole armistiziali, mentre il Re, il maresciallo Badoglio e le più alte autorità civili e militari abbandonarono immediatamente Roma e si rifugiarono a Brindisi lasciata dalle truppe tedesche e subito occupata dalle forze alleate. Nel momento in cui il Re e Badoglio sbarcarono a Brindisi nacque il cosiddetto Regno del Sud allo scopo di garantire formalmente la continuità, la sovranità dello Stato italiano. In realtà con la firma, il 29 settembre 1943, dell’armistizio lungo, l’atto nel quale vennero precisate le condizioni della resa senza condizioni già contenute genericamente nell’armistizio di Cassibile (armistizio corto), l’Italia fu costretta a fornire ai liberatori angloamericani tutto ciò che rimaneva delle proprie risorse finanziarie ed infrastrutturali. L’attività amministrativa del governo Badoglio fu sottoposta al diretto controllo degli Alleati.                                                                                                                                                Ma torniamo alle ore che seguirono la proclamazione dell’armistizio, quelle più delicate in cui le truppe sul terreno avrebbero dovuto ricevere ordini operativi chiari e comprensibili, che sono ben altra cosa degli annunci radiofonici, dai rispettivi comandi superiori per poi agire di conseguenza.  Eloquente al riguardo quanto riportato dal generale di corpo d’armata Carlo Cigliana nel suo scritto Le cinque settimane più controverse della guerra d’Italia: «Alle 2,30 del 9 settembre, il Comando Supremo, dopo aver constatato (con rammarico) che il “Promemoria n. 2” non era giunto al Comano Gruppo Armate Est né al Comando dell’Egeo (per un complesso di 14 Divisioni), inviò ai Comandi dipendenti un lungo telegramma cifrato nel quale, dopo aver riportato gli ordini principali del “Promemoria n. 2”, confermava il comunicato Badoglio. Ma anche questo ordine, in realtà un pò sibillino perché si poteva ormai uscire dall’equivoco, arrivò troppo tardi, quando cioè molte unità, all’alba del giorno 9, attaccate dai reparti motorizzati tedeschi, abbondantemente appoggiati dagli Stukas, erano già state travolte di sorpresa o stavano difendendosi disperatamente. In Italia, nonostante la “Memoria 45”, giunta a destinazione il 7 settembre, i vari Comandi, per mancanza di successivi ordini esecutivi, si trovarono all’ultimo momento nella necessità di agire di iniziativa; peraltro il contenuto del proclama Badoglio, che prescriveva solo di reagire ad “eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”, creò indecisioni che ebbero tragiche conseguenze […] Erano così cominciate a giungere a Roma richieste urgenti di chiarimenti, che si erano poi intrecciate con l’annuncio ufficiale del proclama Badoglio, tanto che Roatta, nella notte, fece trasmettere a tutti i Comandi dipendenti l’ordine di reagire con la forza ad ogni violenza tedesca.                                  Ma non si usciva ancora dall’equivoco perché questi ordini erano sempre una conferma del proclama Badoglio ed erano comunque tardivi perché molti reparti più staccati non fecero neppure in tempo a ricevere disposizioni prima di essere attaccati dalle truppe tedesche che avevano anch’esse udito il proclama Badoglio ed avevano già ricevuto l’ordine esecutivo di attacco, da tempo predisposto»[1].   Leandro Giaccone in Considerazioni sull’armistizio fa una osservazione che ci aiuta ulteriormente ad inquadrare quell’evento nel contesto del tempo: «L’otto settembre 1943 gli angloamericani proclamarono improvvisamente al mondo la resa incondizionata che l’Italia cinque giorni prima aveva segretamente firmato a Cassibile. Prima di noi, nel corso della seconda guerra mondiale, si erano già arrese una dozzina di nazioni: Finlandia Estonia Lituania Polonia, Norvegia Danimarca Olanda Belgio, Francia Jugoslavia e Grecia; infine si arrenderà anche la Germania. Sono tutti eguali i macroscopici fenomeni militari e gli infiniti drammi umani che si verificarono, come da noi, così in tutte le altre nazioni all’atto dell’armistizio imposto dal vincitore. Una differenza fondamentale distingue però l’otto settembre italiano, il settembre nero, dalla disfatta di tutti gli altri Stati europei. Tutti gli altri non scelsero il momento della loro resa; la subirono quando vi furono materialmente obbligati dalla invasione armata del proprio territorio. Solo l’Italia scelse liberamente il momento della sua resa, rompendo un’alleanza che la Germania nazista aveva trasformato in sudditanza, per riprendere la sua antica collocazione tra le democrazie occidentali europee. La dissoluzione dell’esercito e l’invasione dell’intero territorio nazionale furono il prezzo pagato dai responsabili per questa fondamentale scelta politica […] Badoglio aveva impiegato l’esercito come copertura delle trattative armistiziali, dopo aver constatato l’impossibilità di impiegarlo unitariamente contro la Germania; e l’otto settembre egli sapeva anche che all’atto della comunicazione dell’armistizio l’ordine di “difendersi se attaccati” votava i reparti all’olocausto tattico. Il Maresciallo capo del Governo ha la responsabilità di aver gettato sulle spalle di tutti gli ignari comandanti, dalle Armate ai Plotoni, la tragica scelta di sua esclusiva competenza: la resa anche ai tedeschi, o una lotta disarticolata e senza speranze contro l’alleato, nel momento stesso in cui lo Stato si era arreso al nemico. All’alba del 9 settembre infine, il Re, il Governo ed il capo di S.M. generale assunsero congiuntamente la responsabilità storica di NON DIFENDERE ROMA, per non coinvolgerla in azioni di guerra. A seguito di questa decisione il capo di S.M.  dell’esercito ordinò al generale Carboni di ritirare su Tivoli tutte le truppe dislocate nella zona di Roma. Carboni fu dunque l’unico comandante di Grande Unità che all’atto dell’armistizio ricevette un ordine scritto dal suo superiore diretto. Ordine generico, incompleto ma tecnicamente eseguibile e chiarissimo nelle sue implicazioni politiche e operative. Accadde però che proprio questo Generale fin dall’alba del giorno 9 si rese irreperibile per incapacità di comando e personale viltà, lasciando tutta la pesante responsabilità operativa al suo modesto capo di S.M. Ricomparso a Tivoli nel pomeriggio, accettò di trattare una resa proposta dal nemico, che prometteva di non condurre prigioniere in Germania le truppe da lui dipendenti. Al mattino successivo infine Carboni ordinava al suo corpo d’armata ancora in via di ripiegamento su Tivoli, di rigirarsi e muovere all’attacco delle colonne tedesche intorno a Roma. Mentre i reparti erano impegnati in questi caotici movimenti, nel pomeriggio del 10 settembre Carboni si arrendeva al nemico, accettandone l’ultimatum, senza aver impiegato in combattimento i reparti efficienti ai suoi ordini»[2].                                                                                                       La difesa della Capitale, nella confusione generale, fu un’altra pagina opaca. Ma quali erano le forze tedesche ed italiane dispiegate a nord ed a sud di Roma? «La 3a divisione di fanteria, Panzergrenadier (generale Graeser), dotata di semoventi e con circa 200 veicoli blindati e un totale di 15 mila uomini, oltre a un rinforzo di carri armati, attestata dapprima tra Monte Amiata e il versante nord del lago di Bolsena, si sposta da un lato verso Chiusi e la valle del Tevere, dall’altro sul versante sud del lago, in modo da controllare l’area di Viterbo sino alla via Aurelia […] A Sud e Sud-ovest della capitale opera la 2a divisione paracadutisti  (generale Barenthin) trasferita a fine luglio dalla Francia, collocata tra Fiumicino, Pratica di Mare, Ardea, Colli Albani, gravitante sull’Ostiense, con 12 mila uomini […] Sui luoghi di combattimento due divisioni tedesche  (rinforzate quanto a uomini e mezzi ma con non più di 30 mila uomini) contrastano sette divisioni italiane con un numero di uomini mai del tutto precisato ma, di fatto, nettamente superiore, non meno di 60 mila, con dotazione di artiglierie e relativo munizionamento»[3].                                                                                                             Sulle operazioni militari tedesche da settembre a dicembre 1943, è stata fatta un’interessante analisi da Filippo Stefani. «La campagna dei tedeschi in Italia, benché conclusasi con la capitolazione - da mettere peraltro in relazione con i contemporanei avvenimenti sui fronti occidentale ed orientale - fu sotto il profilo tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Favorita inizialmente dagli errori dei comandi italiani ed alleati e successivamente dalle manovre alleate di corto respiro, essa non solo perseguì lo scopo strategico che Hitler e l’OKW si erano ripromessi - tenere lontane dal territorio nazionale tedesco le forze alleate sbarcate in Italia e proteggere il fianco meridionale dello schieramento germanico - ma andò oltre le aspettative. Impegnò, è vero, per 20 mesi oltre mezzo milione di uomini, che avrebbero potuto trovare impiego sul fronte orientale e su quello occidentale, ma essa si pose come esigenza strategico-militare irrinunciabile per la Germania dopo la resa dell’Italia. Colta di sorpresa, non già dal distacco italiano dal quale si era cautelata, ma dall'annuncio dell'armistizio, la Germania si era trovata a dover fronteggiare simultaneamente l'avanzata dell'8ª armata britannica in Calabria, gli sbarchi della stessa armata nei porti della Puglia, lo sbarco della 5ª armata a Salerno, la debole e breve reazione italiana. Le forze del maresciallo Kesselring riuscirono: a ritardare l’avanzata dell’8ª armata britannica fino a quando necessario per portare in salvo la 15ª divisione granatieri corazzati e la 16ª divisione corazzata che l’8 settembre si trovavano in Calabria; a impadronirsi quasi senza colpo ferire di Roma ed ad assicurarsene il possesso per circa 8 mesi; a contenere la testa di sbarco alleata di Salerno per il tempo necessario a costituire una posizione difensiva continua dall'Adriatico al Tirreno - la linea Reinhardt - che nel settore occidentale s'imperniava sulla stretta di Mignano; a disarmare, congiuntamente con le forze del maresciallo Rommel, la grandissima parte delle unità italiane dislocate nell'Italia centro-settentrionale. Ancora maggiori sarebbero stati i risultati positivi qualora Hitler e l'OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due divisioni richieste fin dal mese di agosto e non avessero scisso il comando delle forze tedesche in Italia tra la giurisdizione del maresciallo Kesselring (Italia centro­ meridionale) e quella del maresciallo Rommel (Italia settentrionale), comandante del gruppo di armate “C”. Hitler e l’OKW avevano considerato persa in partenza l'Italia centro-meridionale e con essa le forze del maresciallo Kesselring, tanto che fin dall'agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla 10ª armata del generale Vietinghoff. Se il maresciallo Kesselring avesse potuto disporre di altre 2 divisioni, quasi certamente avrebbe evitato la perdita  dell'importante base di Foggia,  avrebbe potuto  ributtare  a mare le forze sbarcate a Salerno, le quali, indipendentemente dal mancato rinforzo delle unità tedesche, furono egualmente sul punto di doversi reimbarcare, ed avrebbe potuto aver ragione delle unità inglesi a Termoli, dove il fallimento del contrattacco della 16ª divisione corazzata fu dovuto al fatto che questa giunse in ritardo e venne impiegata forzosamente alla spicciolata, come pure avrebbe potuto rimediare subito al cedimento della 15ª divisione panzergrenadier in corrispondenza di Mignano, senza essere costretto ad abbandonare prematuramente la linea Reinhardt. La caduta del passo di Mignano e della quota 1170 che lo comanda avrebbe potuto essere fatale ai tedeschi qualora il maresciallo Kesselring, nonostante la penuria delle forze, non si fosse premunito mediante l'allestimento della retrostante linea Gustav. Finalmente, di fronte all'evidenza dei fatti, Hitler si decise a creare in Italia un unico comando che affidò al maresciallo Kesselring nominato comandante supremo del settore sud-occidentale-gruppo armate C. Delle forze già alle dipendenze del maresciallo Rommel, ben 4 divisioni (delle quali 3 corazzate) però vennero inviate sulla fronte orientale e solo 3 (la 44ª, la 334ª di fanteria e la 5ª alpina) poterono sul momento affluire nell'Italia meridionale, oltre alla 90ª granatieri corazzati appena recuperata dalla Corsica»[4].                                                                                                               Tale analisi è estremamente interessante in quanto sottolinea come le potenzialità tedesche in Italia nel settembre 1943 fossero davvero notevoli. Kesselring chiese due divisioni che se gli fossero state assegnate sicuramente gli avrebbero consentito di ottenere successi maggiori. Non dobbiamo però minimizzare neppure le potenzialità italiane all’indomani dell’8 settembre, specialmente intorno alla capitale, abbandonata precipitosamente dalle massime autorità politiche e militari senza aver prima emanato tempestivi e chiari ordini operativi alle dipendenti unità.                                                      In merito all’azione del comandante in capo tedesco in Italia in quelle convulse giornate a cavallo dell’8 settembre, scrive Stefani: «Non ebbe torto il maresciallo Kesselring di lamentarsi di non essere stato ascoltato a suo tempo circa la costituzione del comando Rommel: l’esistenza di questo duplice comando in Italia e la strana soggezione di Hitler verso Rommel ebbero per conseguenza il continuo rifiuto delle mie ripetute richieste di un paio di divisioni di rinforzo con le quali la portata dei successi iniziali avrebbe potuto assumere la dimensione strategica del reimbarco delle unità della 5ª armata statunitense a Salerno»[5].                                                                                                           Kesselring probabilmente aveva ragione, ma si devono considerare altri due elementi non presi in esame né da lui né da Stefani: la resistenza ed il contrasto che le forze armate italiane posero in essere nei giorni immediatamente successivi alla proclamazione dell’armistizio. Ci si riferisce, ad esempio, ai combattimenti che si ebbero a Roma, alla Montagnola, alla Magliana, a Porta San Paolo, che impegnarono per oltre tre giorni la 3a Divisione Paracadutisti tedesca, che giunse con i suoi primi elementi nella zona della testa di ponte di Salerno solo cinque giorni dopo l’inizio dello sbarco stesso, anziché, nel primo o nel secondo giorno. In questa ultima ipotesi il suo peso sarebbe stato veramente determinante. Il secondo elemento da prendere in considerazione è che la maggior parte dei reparti tedeschi si attardò a disarmare le truppe italiane, a raccoglierle e a radunarle; un più accorto impiego di questi reparti, sollecitati a marciare verso sud, avrebbe dato a Kesselring sicuramente risultati maggiori. Anche in questo caso è di tutta evidenza che, seppur indirettamente, le forze italiane abbiano aiutato gli Alleati nello sbarco a Salerno.                                                                             Per i tedeschi la campagna del fronte meridionale, campagna d’Italia per gli Alleati, sarebbe stata molto dura e terminò il 2 maggio 1945 quando fu annunciata la resa, firmata il 29 aprile a Caserta, di tutte le forze tedesche in Italia. Sei giorni dopo fu proclamata la resa generale tedesca in Europa.







BIBLIOGRAFIA

Cigliana C., Le cinque settimane più controverse della Guerra d’Italia in La Guerra di Liberazione-Scritti del Trentennale, Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio Storico, 1976.
Giaccone L., Considerazioni sull’armistizio, in Otto settembre 1943 – L’armistizio italiano 40 anni dopo, Atti del Convegno Internazionale (Milano 7-8 settembre 1983), Ministero della Difesa-Comitato Storico «Forze Armate e Guerra di Liberazione», Roma, 1985.
Prinzi G., Coltrinari M., Salvare il Salvabile – La crisi armistiziale dell’8 settembre 1943: per gli Italiani, il momento delle scelte, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2008.
Stefani F., Storia della dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano, Roma, Ministero della Difesa Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio Storico, 1984-1987, vol. IV.
Vallauri C., Soldati-Le forze armate italiane dall’armistizio alla Liberazione, UTET Libreria, Torino, 2003.


[1] Carlo Cigliana, Le cinque settimane più controverse della Guerra d’Italia, in La Guerra di Liberazione-Scritti del Trentennale, Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio Storico, 1976, pp. 61-62.
[2] Leandro Giaccone, Considerazioni sull’armistizio, in Otto settembre 1943 – L’armistizio italiano 40 anni dopo, Atti del Convegno Internazionale (Milano 7-8 settembre 1983), Ministero della Difesa-Comitato Storico «Forze Armate e Guerra di Liberazione», Roma, 1985, pp. 421-428.
[3] Carlo Vallauri, Soldati-Le forze armate italiane dall’armistizio alla Liberazione, UTET Libreria, Torino, 2003, p. 64.
[4] Filippo Stefani, Storia della dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano, Roma, Ministero della Difesa Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio Storico, 1984-1987, vol. IV, p.
[5] Ivi, p.