Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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giovedì 7 maggio 2009

L’ITALIA: SITUAZIONE GENERALE STORICO-MILITARE

Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Quando, nel pieno dell’estate del 1914, le Potenze europee si lasciarono trascinare verso l’ignoto percorso della guerra, l’Italia stava ancora digerendo gli effetti della guerra con la Turchia. Mentre la Marina, trionfatrice in tutti gli scacchieri, si apprestava a ricevere le navi nuove, che un previdente programma di costruzioni le aveva assicurato, l’Esercito era ancora impegnato a lottare contro i cosiddetti “ribelli” libici.
Si trattava, in realtà, di alcune fra le migliori truppe ottomane, dirette da generali di prim’ordine, che avevano sostituito Enver Bey e Kemal Pascia – che poi prese il nome di Atatürk - ma erano del loro stesso calibro, e le frequenti incursioni di sorpresa, nei punti più deboli del dispositivo italiano, lo dimostravano.
Sul piano più generale, poi, vi era la necessità di trarre le conseguenze del nostro cauto, ma costante, allontanamento dagli Imperi Centrali, in termini di configurazione dello strumento militare. Fino ad allora, infatti, tutta la pianificazione delle forze si era basata sul fronte occidentale, che si estendeva dalle Alpi alla costa dell’Alto Tirreno, continuando con la Sardegna e quella parte della Sicilia prospiciente Biserta.
Questo fronte era integrato da due riserve strategiche, la prima terrestre, ubicata nella Pianura padana, e la seconda costituita dalla flotta, basata a La Spezia, ambedue pronte ad intervenire rapidamente per sventare il pericolo di uno sbarco francese in Toscana, evento che – qualora coronato da successo - avrebbe tagliato in due la nostra penisola, impedendo qualsiasi resistenza organizzata, capace di combattere per un tempo consistente.
Nel caso di un’Italia fuori della Triplice, invece, la situazione cambiava radicalmente, con la Marina che avrebbe dovuto operare nell’ “amarissimo Adriatico” teatro insidioso e composito, dove chi controlava la Dalmazia godeva di un enorme vantaggio strategico, potendo attaccare di sorpresa, quando voleva, le nostre coste, lunghe e sabbiose, quindi incapaci di fornire le basi per le nostre forze di contrasto ad una tale minaccia.
Oltretutto, una linea ferroviaria principale, indispensabile per rifornire “la fronte”, come si diceva allora, correva lungo le nostre spiaggie, ed era quindi completamente esposta all’interdizione nemica.
Il fronte terrestre, poi, non finiva mai, iniziando in Lombardia, proseguendo sul Lago di Garda, con il cuneo del Trentino-Alto Adige piantato nel bel mezzo del nostro schieramento, per finire in pianura, ed arrivare al mare sul bordo orientale della Laguna veneta, all’altezza di Grado. Solo per presidiarlo, ai fini difensivi, sarebbero state necessarie forze terrestri che, in tempo di pace, l’Italia non aveva.
È ben vero che, qualora si fosse arrivati alla guerra aperta, a fianco delle Potenze dell’Intesa, un moderno Esercito, capace di manovrare in quel tratto, fra le Prealpi e l’Adriatico, avrebbe potuto conseguire successi decisivi, qualora fosse stato in grado di agganciare l’avversario su quel terreno. Nel caso, però, di ordinato ritiro del nemico, nella tradiziona dell’Arciduca Carlo, le nostre forze si sarebbero trovate di fronte le Alpi orientali, attraverso le quali esse avrebbero incontrato quelle stesse difficoltà che Napoleone dovette affrontare nel 1797, e sulle quali scrisse al Direttorio, a proposito della sua campagna in Carinzia:
“se il nemico avesse commesso l’errore di attendermi, io lo avrei battuto, ma se avesse continuato a ritirarsi, si fosse ricongiunto con le sue forze del Reno, e mi avesse sopraffatto, allora la ritirata sarebbe stata difficile, e la perdita dell’Armata d’Italia avrebe potuto comportare quella della Repubblica”[1].
Come si può notare, il rischio di essere battuti, nel difficile teatro delle Alpi orientali, e le possibili conseguenze di un tale rovescio erano note fin da oltre un secolo prima, e Caporetto non fu qualcosa di assolutamente imprevedibile.
Purtroppo, la politica non consentiva di predisporre quanto necessario, per fronteggiare la nuova situazione strategica, predisponendo programmi che avrebbero dato nell’occhio, ed avrebbero giustificato le proposte di Conrad, messe sul tappeto fin dal 1911, miranti ad un attacco preventivo contro di noi.
La conclusione fu che il nostro Esercito, nel periodo della nostra neutralità, rimase nel limbo dell’incertezza, cercando di predisporre qualcosa per una mobilitazione generale, e poco di più, mentre le sue risorse venivano continuamente erose dalle esigenze del teatro libico.
Neanche la Marina sviluppò appieno le forze necessarie per operare in Adriatico, limitandosi allla confortante certezza che la sua flotta, che presto si sarebbe basata sulle 5 dreadnought classe Cavour, oltre alla Dante Alighieri, era decisamente superiore a quella Austro-Ungarica.
La nostra neutralità, quindi, oltre ad pienamente giustificata da validissime argomentazioni giuridiche, era, nel 1914, l’unica vera alternativa all’entrata in guerra a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria, essendo il nostro fronte terrestre sguarnito, di fronte ad un rischio di attacco da Nord e da Est.
Non solo, ma i neutralisti che erano al seguito di Giolitti avevano molte frecce al loro arco, per dimostrare la nostra convenienza a rimanere alla finestra, in una lotta fra titani che, non essendosi decisa in un mese, come inutilmente sperato dallo Stato Maggiore tedesco, presentava già tutti gli elementi di una guerra di attrito, lunga e sanguinosa.
Va detto, però, che il passare del tempo rassicurava il fronte politico interventista, visto lo scacco austriaco, nei confronti della Serbia, le durezze del fronte galiziano, e l’impossibilità della Germania di soccorrere l’alleato, essendo già impegnata su due fronti e mezzo, e precisamente ad occidente, ad oriente, oltre che per puntellare l’esercito ottomano, nella sua lotta contro i Britannici.
Purtroppo, mentre il dibattito politico si faceva sempre più intenso, e talora aspro, in Parlamento nessuno si muoveva per finanziare i preparativi per predisporre i mezzi, come l’artiglieria per l’Esercito ed i treni armati per difendere la ferrovia adriatica, che avrebbero consentito, alle nostre forze, di conseguire i successi auspicabili, una volta entrate in campo al fianco dell’Intesa.
Siamo arrivati, si badi bene, ad una costante storica del nostro Paese: la diplomazia italiana negozia, con la consueta abilità, la classe politica discute animatamente, coinvolgendo appieno, ed interpretando fedelmente, gli orientamenti della nostra opinione pubblica, ma nessuno, nel Parlamento o nel governo, si preoccupa di creare un minimo di quelle condizioni che renderebbero attuabile quanto viene auspicato.
Il 24 maggio, quindi, l’Italia fu in grado di opporre, all’Esercito Regio ed Imperiale, essenzialmente una muraglia umana, anche se la manovra di avanzata dei nostri uomini colse di sorpresa il nemico, tanto che alcuni Reparti dovettero ripiegare, dopo aver trovato delle falle nel suo schieramento, cosa che, evidentemente, non si era in grado di sfruttare. Venne quindi la guerra di trincea, il continuo succedersi di punture di spillo, fra forze navali, impegnate in una reciproca interdizione, e solo allora iniziò quella serie di programmi di potenziamento delle capacità, che ci consentirono di reggere per due anni e mezzo, avanzando lentamente verso quella trappola, Caporetto, che Napoleone giustamente paventava, e che, fortunatamente, non causò il nostro crollo totale.
Va detto, ad onor del vero, che, oltre alla voglia di rivincita, dopo l’insuccesso di Gallipoli, il salvataggio dell’Esercito serbo, cosa di cui dovremmo essere più fieri, fu l’occasione, per l’Intesa, di stabilire quel fronte sul Vardar che, alla fine risultò decisivo per l’esito della guerra.
Sul mare, poi, le principali difficoltà si ebbero fuori dell’Adriatico, da quando la campagna dei sommergibili fu lanciata, da parte degli Imperi Centrali. L’unico vero rischio di sconfitta, per l’Intesa, venne da questa campagna, che ci coinvolse direttamente, avendo noi la responsabilità di bloccare l’accesso all’alto mare per i sommergibili nemici.
In tutto quel periodo, va ricordato, prima di concludere, l’Italia funzionò in modo inusuale, con il re Vittorio Emanuele III al Quartier Generale di Udine, ed un Ammiraglio, Tomaso di Savoia-Genova, che svolse, fino al 1919, il ruolo di Luogotenente del Regno. Un simile assetto era stato fatale per la Russia, mentre per noi, bene o male, funzionò, grazie alla qualità del Luogotenente, i cui meriti non saranno mai riconosciuti abbastanza.
In definitiva, la prima guerra mondiale mostrò al mondo che l’Italia aveva quella coesione indispensabile per affrontare sfide difficili. Purtroppo, le ambizioni spropositate dei nostri governi, in materia di guadagni territoriali, a conflitto ultimato, diminuirono grandemente il rispetto che il valore del nostro popolo, in prima linea e sul mare, ci aveva meritato.
Anche questa è una nostra costante, nel volere quello che, spesso, non siamo poi in grado di conservare, con le nostre forze.

[1] A.T. MAHAN. The Influence of Sea Power upon the French Revolution and Empire. Samson, Low, 1894, Vol. I pg.234.