Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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lunedì 19 gennaio 2009

Soldati Italiani sulla Linea Gotica

FIRENZE, 23 OTTOBRE 2008
Intervento: Massimo Coltrinari

Il quesito che ha posto il gen. Poli, ovvero rispondere alla domanda: perché i tedeschi si sono difesi su un simulacro di linee difensive nell’alta pianura romagnola e non nella valle del Po o sulle Alpi, trova il suo primo fondamento di risposta in alcune considerazioni che si possono fare analizzando il comportamento della Germania nella gestione della crisi armistiziali Italia del settembre 1943.
La Germania era ben conscia che l’Italia, nella primavera del 1943 non aveva i mezzi per continuare la lotta ed il fascismo, sia come regime che come movimento, aveva, come ben nota lo Zangrandi, aveva esaurito ogni sua energia. Fu un crollo prima che materiale psicologico e motivazionale. Nessuno in Italia era più in grado, anche volendo, di sostenere Mussolini e questo è dimostrato dall’azione dei gerarchi, che poi divennero i “traditori” del 25 luglio ed alcuni fucilati a Verona l’11 gennaio 1944, da un Tribunale Speciale della Repubblica Sociale Italiana. I piani tedeschi per assorbire l’uscita dell’Italia della guerra erano pronti da tempo. Hitler e l’OKW avevano già preordinato questa uscita creando due comandi, quello di Rimmel nella Italia settentrionale e quello di Kesserling nell’Italia meridionale, considerando persa in partenza l’Itala Centro meridionale tanto che fin dall’agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla 10a Armata del generale Vietinghoff. La difesa avanzata del fronte meridionale della Germania era sugli Appennini, mentre quella vera e propria doveva svolgersi sulle Alpi, da sempre il baluardo meridionale del mondo germanico. Lo stesso comportamento di Rommel nei giorni postarmistiziali, e di tantissimi altri tedeschi in Italia, era orientato a questo. Tutto era preordinato, ma come al solito i piani non corrisposero alla realtà
La Germania fu sorpresa dalle modalità dell’uscita dell’Italia, anche lei si fece trovare impreparata nei dettagli e nel contingente ad affrontare la situazione. In questa incertezza, ebbe gioco in modo oltre il preventivato l’azione del maresciallo Kesserling, che si trovo ad agire d’iniziativa senza il controllo dell’OKW e di Hitler. La prima mossa fu quella di bloccare la via di Fiumicino e il progetto Reale di raggiungere la Sardegna. Poi vi è tutta la vicenda della fuga a Pescar-Brindisi, da parte del vertice governativo-militare italiano, aspetto questo estremamente controverso in cui non si vuole entrare, che diede a Kesserling il grande vantaggio di agire senza l’opposizione delle forze armate italiane. Che le forze italiane non si opposero ai tedeschi non avendo ordini dall’alto è un dato oggettivo e questo lo si ebbe per 48 ore. Badoglio, giunti a Brindisi emana alle ore 11 del 11 settembre 1943 da Radio Bari. Vi furono episodi isolati, grandi moralmente, eccezionali per la prospettiva futura e per la dignità di noi italiani, ma Kesserling ebbe modo di non solo conseguire il risultato che si era promesso, ovvero quello di recuperare e salvare il maggior numero dei soldati tedeschi stanziati nella Italia centro meridionale. Ma riuscì anche ad ottenere di più, ovvero quello di contrastare e contrattaccare le forze alleante che stavano sbarcando in continente.
Kesserling occorre ricordarlo, riuscì a ritardare l’avanzata dell’8a Armata britannica, fino quando necessario per portare in salvo la 15ma Divisione Granatieri Corazzati e la 16ma Divisione Corazzata che l’8 settembre 1943 si trovavano in Calabria; ad impadronirsi quasi senza colpo ferire di Roma, ed ad assicurare il possesso per 8 mesi: a contenere la testa di ponte di Salerno per il tempo necessario a costituire una posizione difensiva continua dall’Adriatico al Tirreno, la linea Reinhardt, che nel settore occidentale s’impegnava sulla stretta di Mignano. Proprio in uno dei convegni organizzati dalla Associazione combattenti della Guerra di Liberazione, da parte del gen. Boscardi si sostenne la tesi, ben documentata, che se non ci fossero stati i combattimenti di Porta San Paolo le divisioni tedesche impegnate dagli Italiani a Roma sicuramente sarebbero giunte in tempo a Salerno e influire positivamente sull’andamento dello sbarco dal punto di vista tedesco.
Ancora maggiore sarebbero stati i risultati positivi qualora Hitler e l’OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due divisioni richieste fin dal mese di agosto. Queste divisioni avrebbero potuto giungere in forze in molto meno di sei giorni. Ma all’indomani dell’annuncio dell’armistizio con l’Italia già l’8a Armata stava avvicinandosi a Potenza e la 7a divisione corazzata (britannica) e la 3a divisione (statunitense) la testa di sbarco. La battaglia per la testa di ponte sarebbe durata più a lungo ma nella sostanza, a Salerno, il risultato non sarebbe, con l’intervento di queste due divisioni da terra, probabilmente cambiato. La differenza si sarebbe fatta sentire poco più tardi. Kesserling avrebbe potuto resistere a sud di Napoli ed essere in grado di tenere quell’importante porto e gli aeroporti di Foggia finché l’inverno non fosse intervenuto in suo soccorso. Sempre nel campo delle probabilità, quello che sarebbe stato e non fu, con la resistenza di Kesserling a sud di Napoli, i capi di stato maggiore britannici avrebbero perduto la causa e gli statunitensi avrebbero preso il definitivo sopravvento nelle decisioni. La decisione di Kesserling di ritirarsi sul Volturno attirò gli alleati come una calamita e creò quella situazione che il gen. Marschall aveva sempre temuto. Sarebbero stati i tedeschi a tenere impegnate il maggior numero di divisioni alleate e non viceversa.
Questo, sommato agli errori tattici dei Comandi Alleati, quali la scelta sbagliata delle località di sbarco, la punta della Calabria e la zona di Salerno, troppo a sud per aggirare le possibili difese tedesche, (uno sbarco a nord di Roma, ancorché fuori dalla copertura aerea, in presenza di una scarsa presenza aerea tedesca, era un rischio calcolato che poteva essere corso), e dalla mancata realizzazione della sorpresa, che condussero una campagna lenta frammentaria ed indecisa, permise a Kesserling di tenere il più possibile a sud di Roma, e non di Napoli, il fronte tedesco. Sempre un successo.
Le difese dell’Appennino tosco-romagnolo, che dovevano essere investite e tenute per un breve periodo nel settembre- ottobre 1943, furono raggiunge dagli Alleati solo a settembre-ottobre 1944, 12 mesi dopo del preventivato e , con il sopraggiungere dell’inverno, non furono superate.
Nel quadro generale della campagna d’Italia, quindi, queste difese rappresentano il migliore rapporto tra costo ed efficacia. Se da una parte esse assorbirono 10 divisioni che potevano essere utilizzate sul fronte occidentale e affittire le difese del vallo atlantico, dall’altra furono il minor presso da pagare per tenere gli alleati lontani dalla Germania, in attesa che la decisone sull’esito della guerra si palesasse sul fronte orientale.

Le difese sull’Appennino tosco-emiliano tennero e sarebbero state più produttive se Hitler non avesse insisto nella sua fissazione della difesa ad oltranza e della manovra di arresto.
Quando Kesserling cedette il comando a Vietinghoff il 9 marzo 1945 era chiaro che gli alleati stavano per sferrare una offensiva su larga scala.Vietinghoff non era Kesserling e non godeva delle simpatie presso Hitler come il maresciallo. Non ebbe la forza di convincere Hitler ad autorizzarlo a passare dalla manovra di arresto alla manovra in ritirata, da fiume a fiume e negò anche l’arretramento sul PO, proposto il 14 aprile, che segnò la fine della difesa tedesca in Italia. Quanto il 20 aprile 1945 questa autorizzazione giunse era ormai troppo tardi.
Quindi alla domanda posta dal generale Poli: perché i tedeschi si sono difesi sull’Appennino tosco-emiliano e non sul Po o sulle Alpi, si può rispondere in un modo che quanto detto ne traccia già le linee guida: I tedeschi si sono difesi in Italia già dall’8 settembre il più a sud possibile, consci che la Germania doveva avere il tempo per vincere la guerra in Russia,. Perché era lì che la guerra si decideva.
Ogni linea in Italia era una linea di difesa di arresto temporaneo e in qualche caso con la possibilità di reazioni dinamiche, tutte brillantemente sfruttate. Se Kesserling fosse rimasto in Italia ed agito per manovrare in ritirata sicuramente le forze tedesche avrebbero passato il Po in modo più o meno ordinato e si sarebbero attestate sulle Alpi, ove le avrebbero raggiunti la notizia della resa, su posizioni organizzate a difesa.
La campagna dei tedeschi in Italia, quindi conclusasi con la capitolazione, fu sotto il profilo tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Non si può dire altrettanto della campagna d’Itala dei Comandi Alleati, che come già accennato la condussero tra errori e incapacità.
La campagna d’Italia fu la cartina di tornasole del dissidio tra Statunitensi e Britannici. I primi volevano, ed ottennero, di adottare una strategia diretta, ovvero concentrare tutte le forze sul fronte francese, da aprire al più presto, e puntare il più velocemente su Berlino e porre fine alla guerra; i secondi cultori della strategia indiretta volevano attaccare si dalla Francia ma anche dall’Italia, per puntare su Vienna e raggiungere il cuore d’Europa nel più breve tempo possibile. Il risultato di una campagna condotta male e con risultati scarsi e deludenti.
A chi giovò maggiormente, ai tedeschi o agli Alleati?. Per la Germania la campagna era stata una necessità assoluta. L’abbandono dell’Italia avrebbe consentito piena libertà di movimento agli Alleati sia in direzione della Francia che in quella dell’Austria e dei Balcani ed avrebbe offerto loro la disponibilità di basi aeree ravvicinate per bombardare la Germania meridionale e l’Austria e minacciare le vie di rifornimento e gli arroccamenti fra la fronte occidentale e quella orientale.
Per gli Alleati la campagna d’Italia fu una libera scelta per perseguire fini strategici rimasti, però, sulla carta. La tattica usata dagli alleati fu del tutto inadeguata, nonostante che non mancassero loro forze e mezzi aerei, navali ed anfibi per dare vita a manovre ampie e profonde che eludessero o riducessero gli sforzi frontali. Sul piano tecnico-militare, perciò, mentre i tedeschi raggiunsero nel corso dell’intera campagna il massimo risultato conseguibili in quella situazione, gli Alleati non ottennero quanto virtualmente avrebbero potuto e offrirono,tutto sommato, un saggio scadente , non già del valore dei loro soldati, ma della loro abilità manovriera. Ma portavano la Libertà e la Democrazia, ed ovunque furono accolti come liberatori. Commisero errori strategici e tattici addirittura grossolani, e conclusero vittoriosamente la campagna solo per la loro schiacciante superiorità materiale. Ma avevano dalla loro il nuovo, il futuro, il fatto che combattevano contro il regime del genocidio, e questo diede loro tutto l’appoggio della popolazione in cui operavano, quella italiana.
Questi gli aspetti della Campagna d’Italia da parte di Eserciti estranei a noi italiani, Campagna d’Italia che occorre sempre differenziare dalla guerra di Liberazione, che intendiamo come secondo risorgimento d’Italia nell'approccio che abbiamo adottato[1].


Dato infine che questo è un convegno dedicato ai soldati italiani sulla linea gotica occorre a questa relazione fare una postilla, che va oltre la domanda posta dal gen. POLI. Un convegno dedicato ai militari Italiani sulla linea gotica non può dimenticare quei soldati italiani che come prigionieri cooperatori erano inquadrati nelle Unità da combattimento britanniche e statunitensi, nella ISU e nelle BTU. L’esempio della testa di ponte di Anzio è troppo noto. Se si parla di gruppi di Combattimento, di salmerie da combattimento, di tutto e di più, occorre rammentare anche questi soldati che, occorre ricordare erano sotto giurisdizione alleata e non italiana, ma che al momento della fine della guerra, nella smobilitazione alleata, senza soluzione di continuità ritornarono sotto giurisdizione Italia e furono coloro che, ricevendo tutto il materiale che gli alleati ci lasciarono diedero vita alle Forze Armate del dopoguerra. La loro azione meriterebbe una maggiore attenzione almeno da parte nostra.

[1] Coltrinari M., La Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti 1943-1945, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008.

Soldati Italiani sulla Linea Gotica

FIRENZE, 23 OTTOBRE 2008
Intervento: Massimo Coltrinari

Il quesito che ha posto il gen. Poli, ovvero rispondere alla domanda: perché i tedeschi si sono difesi su un simulacro di linee difensive nell’alta pianura romagnola e non nella valle del Po o sulle Alpi, trova il suo primo fondamento di risposta in alcune considerazioni che si possono fare analizzando il comportamento della Germania nella gestione della crisi armistiziali Italia del settembre 1943.
La Germania era ben conscia che l’Italia, nella primavera del 1943 non aveva i mezzi per continuare la lotta ed il fascismo, sia come regime che come movimento, aveva, come ben nota lo Zangrandi, aveva esaurito ogni sua energia. Fu un crollo prima che materiale psicologico e motivazionale. Nessuno in Italia era più in grado, anche volendo, di sostenere Mussolini e questo è dimostrato dall’azione dei gerarchi, che poi divennero i “traditori” del 25 luglio ed alcuni fucilati a Verona l’11 gennaio 1944, da un Tribunale Speciale della Repubblica Sociale Italiana. I piani tedeschi per assorbire l’uscita dell’Italia della guerra erano pronti da tempo. Hitler e l’OKW avevano già preordinato questa uscita creando due comandi, quello di Rimmel nella Italia settentrionale e quello di Kesserling nell’Italia meridionale, considerando persa in partenza l’Itala Centro meridionale tanto che fin dall’agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla 10a Armata del generale Vietinghoff. La difesa avanzata del fronte meridionale della Germania era sugli Appennini, mentre quella vera e propria doveva svolgersi sulle Alpi, da sempre il baluardo meridionale del mondo germanico. Lo stesso comportamento di Rommel nei giorni postarmistiziali, e di tantissimi altri tedeschi in Italia, era orientato a questo. Tutto era preordinato, ma come al solito i piani non corrisposero alla realtà
La Germania fu sorpresa dalle modalità dell’uscita dell’Italia, anche lei si fece trovare impreparata nei dettagli e nel contingente ad affrontare la situazione. In questa incertezza, ebbe gioco in modo oltre il preventivato l’azione del maresciallo Kesserling, che si trovo ad agire d’iniziativa senza il controllo dell’OKW e di Hitler. La prima mossa fu quella di bloccare la via di Fiumicino e il progetto Reale di raggiungere la Sardegna. Poi vi è tutta la vicenda della fuga a Pescar-Brindisi, da parte del vertice governativo-militare italiano, aspetto questo estremamente controverso in cui non si vuole entrare, che diede a Kesserling il grande vantaggio di agire senza l’opposizione delle forze armate italiane. Che le forze italiane non si opposero ai tedeschi non avendo ordini dall’alto è un dato oggettivo e questo lo si ebbe per 48 ore. Badoglio, giunti a Brindisi emana alle ore 11 del 11 settembre 1943 da Radio Bari. Vi furono episodi isolati, grandi moralmente, eccezionali per la prospettiva futura e per la dignità di noi italiani, ma Kesserling ebbe modo di non solo conseguire il risultato che si era promesso, ovvero quello di recuperare e salvare il maggior numero dei soldati tedeschi stanziati nella Italia centro meridionale. Ma riuscì anche ad ottenere di più, ovvero quello di contrastare e contrattaccare le forze alleante che stavano sbarcando in continente.
Kesserling occorre ricordarlo, riuscì a ritardare l’avanzata dell’8a Armata britannica, fino quando necessario per portare in salvo la 15ma Divisione Granatieri Corazzati e la 16ma Divisione Corazzata che l’8 settembre 1943 si trovavano in Calabria; ad impadronirsi quasi senza colpo ferire di Roma, ed ad assicurare il possesso per 8 mesi: a contenere la testa di ponte di Salerno per il tempo necessario a costituire una posizione difensiva continua dall’Adriatico al Tirreno, la linea Reinhardt, che nel settore occidentale s’impegnava sulla stretta di Mignano. Proprio in uno dei convegni organizzati dalla Associazione combattenti della Guerra di Liberazione, da parte del gen. Boscardi si sostenne la tesi, ben documentata, che se non ci fossero stati i combattimenti di Porta San Paolo le divisioni tedesche impegnate dagli Italiani a Roma sicuramente sarebbero giunte in tempo a Salerno e influire positivamente sull’andamento dello sbarco dal punto di vista tedesco.
Ancora maggiore sarebbero stati i risultati positivi qualora Hitler e l’OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due divisioni richieste fin dal mese di agosto. Queste divisioni avrebbero potuto giungere in forze in molto meno di sei giorni. Ma all’indomani dell’annuncio dell’armistizio con l’Italia già l’8a Armata stava avvicinandosi a Potenza e la 7a divisione corazzata (britannica) e la 3a divisione (statunitense) la testa di sbarco. La battaglia per la testa di ponte sarebbe durata più a lungo ma nella sostanza, a Salerno, il risultato non sarebbe, con l’intervento di queste due divisioni da terra, probabilmente cambiato. La differenza si sarebbe fatta sentire poco più tardi. Kesserling avrebbe potuto resistere a sud di Napoli ed essere in grado di tenere quell’importante porto e gli aeroporti di Foggia finché l’inverno non fosse intervenuto in suo soccorso. Sempre nel campo delle probabilità, quello che sarebbe stato e non fu, con la resistenza di Kesserling a sud di Napoli, i capi di stato maggiore britannici avrebbero perduto la causa e gli statunitensi avrebbero preso il definitivo sopravvento nelle decisioni. La decisione di Kesserling di ritirarsi sul Volturno attirò gli alleati come una calamita e creò quella situazione che il gen. Marschall aveva sempre temuto. Sarebbero stati i tedeschi a tenere impegnate il maggior numero di divisioni alleate e non viceversa.
Questo, sommato agli errori tattici dei Comandi Alleati, quali la scelta sbagliata delle località di sbarco, la punta della Calabria e la zona di Salerno, troppo a sud per aggirare le possibili difese tedesche, (uno sbarco a nord di Roma, ancorché fuori dalla copertura aerea, in presenza di una scarsa presenza aerea tedesca, era un rischio calcolato che poteva essere corso), e dalla mancata realizzazione della sorpresa, che condussero una campagna lenta frammentaria ed indecisa, permise a Kesserling di tenere il più possibile a sud di Roma, e non di Napoli, il fronte tedesco. Sempre un successo.
Le difese dell’Appennino tosco-romagnolo, che dovevano essere investite e tenute per un breve periodo nel settembre- ottobre 1943, furono raggiunge dagli Alleati solo a settembre-ottobre 1944, 12 mesi dopo del preventivato e , con il sopraggiungere dell’inverno, non furono superate.
Nel quadro generale della campagna d’Italia, quindi, queste difese rappresentano il migliore rapporto tra costo ed efficacia. Se da una parte esse assorbirono 10 divisioni che potevano essere utilizzate sul fronte occidentale e affittire le difese del vallo atlantico, dall’altra furono il minor presso da pagare per tenere gli alleati lontani dalla Germania, in attesa che la decisone sull’esito della guerra si palesasse sul fronte orientale.

Le difese sull’Appennino tosco-emiliano tennero e sarebbero state più produttive se Hitler non avesse insisto nella sua fissazione della difesa ad oltranza e della manovra di arresto.
Quando Kesserling cedette il comando a Vietinghoff il 9 marzo 1945 era chiaro che gli alleati stavano per sferrare una offensiva su larga scala.Vietinghoff non era Kesserling e non godeva delle simpatie presso Hitler come il maresciallo. Non ebbe la forza di convincere Hitler ad autorizzarlo a passare dalla manovra di arresto alla manovra in ritirata, da fiume a fiume e negò anche l’arretramento sul PO, proposto il 14 aprile, che segnò la fine della difesa tedesca in Italia. Quanto il 20 aprile 1945 questa autorizzazione giunse era ormai troppo tardi.
Quindi alla domanda posta dal generale Poli: perché i tedeschi si sono difesi sull’Appennino tosco-emiliano e non sul Po o sulle Alpi, si può rispondere in un modo che quanto detto ne traccia già le linee guida: I tedeschi si sono difesi in Italia già dall’8 settembre il più a sud possibile, consci che la Germania doveva avere il tempo per vincere la guerra in Russia,. Perché era lì che la guerra si decideva.
Ogni linea in Italia era una linea di difesa di arresto temporaneo e in qualche caso con la possibilità di reazioni dinamiche, tutte brillantemente sfruttate. Se Kesserling fosse rimasto in Italia ed agito per manovrare in ritirata sicuramente le forze tedesche avrebbero passato il Po in modo più o meno ordinato e si sarebbero attestate sulle Alpi, ove le avrebbero raggiunti la notizia della resa, su posizioni organizzate a difesa.
La campagna dei tedeschi in Italia, quindi conclusasi con la capitolazione, fu sotto il profilo tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Non si può dire altrettanto della campagna d’Itala dei Comandi Alleati, che come già accennato la condussero tra errori e incapacità.
La campagna d’Italia fu la cartina di tornasole del dissidio tra Statunitensi e Britannici. I primi volevano, ed ottennero, di adottare una strategia diretta, ovvero concentrare tutte le forze sul fronte francese, da aprire al più presto, e puntare il più velocemente su Berlino e porre fine alla guerra; i secondi cultori della strategia indiretta volevano attaccare si dalla Francia ma anche dall’Italia, per puntare su Vienna e raggiungere il cuore d’Europa nel più breve tempo possibile. Il risultato di una campagna condotta male e con risultati scarsi e deludenti.
A chi giovò maggiormente, ai tedeschi o agli Alleati?. Per la Germania la campagna era stata una necessità assoluta. L’abbandono dell’Italia avrebbe consentito piena libertà di movimento agli Alleati sia in direzione della Francia che in quella dell’Austria e dei Balcani ed avrebbe offerto loro la disponibilità di basi aeree ravvicinate per bombardare la Germania meridionale e l’Austria e minacciare le vie di rifornimento e gli arroccamenti fra la fronte occidentale e quella orientale.
Per gli Alleati la campagna d’Italia fu una libera scelta per perseguire fini strategici rimasti, però, sulla carta. La tattica usata dagli alleati fu del tutto inadeguata, nonostante che non mancassero loro forze e mezzi aerei, navali ed anfibi per dare vita a manovre ampie e profonde che eludessero o riducessero gli sforzi frontali. Sul piano tecnico-militare, perciò, mentre i tedeschi raggiunsero nel corso dell’intera campagna il massimo risultato conseguibili in quella situazione, gli Alleati non ottennero quanto virtualmente avrebbero potuto e offrirono,tutto sommato, un saggio scadente , non già del valore dei loro soldati, ma della loro abilità manovriera. Ma portavano la Libertà e la Democrazia, ed ovunque furono accolti come liberatori. Commisero errori strategici e tattici addirittura grossolani, e conclusero vittoriosamente la campagna solo per la loro schiacciante superiorità materiale. Ma avevano dalla loro il nuovo, il futuro, il fatto che combattevano contro il regime del genocidio, e questo diede loro tutto l’appoggio della popolazione in cui operavano, quella italiana.
Questi gli aspetti della Campagna d’Italia da parte di Eserciti estranei a noi italiani, Campagna d’Italia che occorre sempre differenziare dalla guerra di Liberazione, che intendiamo come secondo risorgimento d’Italia nell'approccio che abbiamo adottato[1].


Dato infine che questo è un convegno dedicato ai soldati italiani sulla linea gotica occorre a questa relazione fare una postilla, che va oltre la domanda posta dal gen. POLI. Un convegno dedicato ai militari Italiani sulla linea gotica non può dimenticare quei soldati italiani che come prigionieri cooperatori erano inquadrati nelle Unità da combattimento britanniche e statunitensi, nella ISU e nelle BTU. L’esempio della testa di ponte di Anzio è troppo noto. Se si parla di gruppi di Combattimento, di salmerie da combattimento, di tutto e di più, occorre rammentare anche questi soldati che, occorre ricordare erano sotto giurisdizione alleata e non italiana, ma che al momento della fine della guerra, nella smobilitazione alleata, senza soluzione di continuità ritornarono sotto giurisdizione Italia e furono coloro che, ricevendo tutto il materiale che gli alleati ci lasciarono diedero vita alle Forze Armate del dopoguerra. La loro azione meriterebbe una maggiore attenzione almeno da parte nostra.

[1] Coltrinari M., La Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti 1943-1945, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008.

Soldati Italiani sulla Linea Gotica

FIRENZE, 23 OTTOBRE 2008
Intervento: Massimo Coltrinari

Il quesito che ha posto il gen. Poli, ovvero rispondere alla domanda: perché i tedeschi si sono difesi su un simulacro di linee difensive nell’alta pianura romagnola e non nella valle del Po o sulle Alpi, trova il suo primo fondamento di risposta in alcune considerazioni che si possono fare analizzando il comportamento della Germania nella gestione della crisi armistiziali Italia del settembre 1943.
La Germania era ben conscia che l’Italia, nella primavera del 1943 non aveva i mezzi per continuare la lotta ed il fascismo, sia come regime che come movimento, aveva, come ben nota lo Zangrandi, aveva esaurito ogni sua energia. Fu un crollo prima che materiale psicologico e motivazionale. Nessuno in Italia era più in grado, anche volendo, di sostenere Mussolini e questo è dimostrato dall’azione dei gerarchi, che poi divennero i “traditori” del 25 luglio ed alcuni fucilati a Verona l’11 gennaio 1944, da un Tribunale Speciale della Repubblica Sociale Italiana. I piani tedeschi per assorbire l’uscita dell’Italia della guerra erano pronti da tempo. Hitler e l’OKW avevano già preordinato questa uscita creando due comandi, quello di Rimmel nella Italia settentrionale e quello di Kesserling nell’Italia meridionale, considerando persa in partenza l’Itala Centro meridionale tanto che fin dall’agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla 10a Armata del generale Vietinghoff. La difesa avanzata del fronte meridionale della Germania era sugli Appennini, mentre quella vera e propria doveva svolgersi sulle Alpi, da sempre il baluardo meridionale del mondo germanico. Lo stesso comportamento di Rommel nei giorni postarmistiziali, e di tantissimi altri tedeschi in Italia, era orientato a questo. Tutto era preordinato, ma come al solito i piani non corrisposero alla realtà
La Germania fu sorpresa dalle modalità dell’uscita dell’Italia, anche lei si fece trovare impreparata nei dettagli e nel contingente ad affrontare la situazione. In questa incertezza, ebbe gioco in modo oltre il preventivato l’azione del maresciallo Kesserling, che si trovo ad agire d’iniziativa senza il controllo dell’OKW e di Hitler. La prima mossa fu quella di bloccare la via di Fiumicino e il progetto Reale di raggiungere la Sardegna. Poi vi è tutta la vicenda della fuga a Pescar-Brindisi, da parte del vertice governativo-militare italiano, aspetto questo estremamente controverso in cui non si vuole entrare, che diede a Kesserling il grande vantaggio di agire senza l’opposizione delle forze armate italiane. Che le forze italiane non si opposero ai tedeschi non avendo ordini dall’alto è un dato oggettivo e questo lo si ebbe per 48 ore. Badoglio, giunti a Brindisi emana alle ore 11 del 11 settembre 1943 da Radio Bari. Vi furono episodi isolati, grandi moralmente, eccezionali per la prospettiva futura e per la dignità di noi italiani, ma Kesserling ebbe modo di non solo conseguire il risultato che si era promesso, ovvero quello di recuperare e salvare il maggior numero dei soldati tedeschi stanziati nella Italia centro meridionale. Ma riuscì anche ad ottenere di più, ovvero quello di contrastare e contrattaccare le forze alleante che stavano sbarcando in continente.
Kesserling occorre ricordarlo, riuscì a ritardare l’avanzata dell’8a Armata britannica, fino quando necessario per portare in salvo la 15ma Divisione Granatieri Corazzati e la 16ma Divisione Corazzata che l’8 settembre 1943 si trovavano in Calabria; ad impadronirsi quasi senza colpo ferire di Roma, ed ad assicurare il possesso per 8 mesi: a contenere la testa di ponte di Salerno per il tempo necessario a costituire una posizione difensiva continua dall’Adriatico al Tirreno, la linea Reinhardt, che nel settore occidentale s’impegnava sulla stretta di Mignano. Proprio in uno dei convegni organizzati dalla Associazione combattenti della Guerra di Liberazione, da parte del gen. Boscardi si sostenne la tesi, ben documentata, che se non ci fossero stati i combattimenti di Porta San Paolo le divisioni tedesche impegnate dagli Italiani a Roma sicuramente sarebbero giunte in tempo a Salerno e influire positivamente sull’andamento dello sbarco dal punto di vista tedesco.
Ancora maggiore sarebbero stati i risultati positivi qualora Hitler e l’OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due divisioni richieste fin dal mese di agosto. Queste divisioni avrebbero potuto giungere in forze in molto meno di sei giorni. Ma all’indomani dell’annuncio dell’armistizio con l’Italia già l’8a Armata stava avvicinandosi a Potenza e la 7a divisione corazzata (britannica) e la 3a divisione (statunitense) la testa di sbarco. La battaglia per la testa di ponte sarebbe durata più a lungo ma nella sostanza, a Salerno, il risultato non sarebbe, con l’intervento di queste due divisioni da terra, probabilmente cambiato. La differenza si sarebbe fatta sentire poco più tardi. Kesserling avrebbe potuto resistere a sud di Napoli ed essere in grado di tenere quell’importante porto e gli aeroporti di Foggia finché l’inverno non fosse intervenuto in suo soccorso. Sempre nel campo delle probabilità, quello che sarebbe stato e non fu, con la resistenza di Kesserling a sud di Napoli, i capi di stato maggiore britannici avrebbero perduto la causa e gli statunitensi avrebbero preso il definitivo sopravvento nelle decisioni. La decisione di Kesserling di ritirarsi sul Volturno attirò gli alleati come una calamita e creò quella situazione che il gen. Marschall aveva sempre temuto. Sarebbero stati i tedeschi a tenere impegnate il maggior numero di divisioni alleate e non viceversa.
Questo, sommato agli errori tattici dei Comandi Alleati, quali la scelta sbagliata delle località di sbarco, la punta della Calabria e la zona di Salerno, troppo a sud per aggirare le possibili difese tedesche, (uno sbarco a nord di Roma, ancorché fuori dalla copertura aerea, in presenza di una scarsa presenza aerea tedesca, era un rischio calcolato che poteva essere corso), e dalla mancata realizzazione della sorpresa, che condussero una campagna lenta frammentaria ed indecisa, permise a Kesserling di tenere il più possibile a sud di Roma, e non di Napoli, il fronte tedesco. Sempre un successo.
Le difese dell’Appennino tosco-romagnolo, che dovevano essere investite e tenute per un breve periodo nel settembre- ottobre 1943, furono raggiunge dagli Alleati solo a settembre-ottobre 1944, 12 mesi dopo del preventivato e , con il sopraggiungere dell’inverno, non furono superate.
Nel quadro generale della campagna d’Italia, quindi, queste difese rappresentano il migliore rapporto tra costo ed efficacia. Se da una parte esse assorbirono 10 divisioni che potevano essere utilizzate sul fronte occidentale e affittire le difese del vallo atlantico, dall’altra furono il minor presso da pagare per tenere gli alleati lontani dalla Germania, in attesa che la decisone sull’esito della guerra si palesasse sul fronte orientale.

Le difese sull’Appennino tosco-emiliano tennero e sarebbero state più produttive se Hitler non avesse insisto nella sua fissazione della difesa ad oltranza e della manovra di arresto.
Quando Kesserling cedette il comando a Vietinghoff il 9 marzo 1945 era chiaro che gli alleati stavano per sferrare una offensiva su larga scala.Vietinghoff non era Kesserling e non godeva delle simpatie presso Hitler come il maresciallo. Non ebbe la forza di convincere Hitler ad autorizzarlo a passare dalla manovra di arresto alla manovra in ritirata, da fiume a fiume e negò anche l’arretramento sul PO, proposto il 14 aprile, che segnò la fine della difesa tedesca in Italia. Quanto il 20 aprile 1945 questa autorizzazione giunse era ormai troppo tardi.
Quindi alla domanda posta dal generale Poli: perché i tedeschi si sono difesi sull’Appennino tosco-emiliano e non sul Po o sulle Alpi, si può rispondere in un modo che quanto detto ne traccia già le linee guida: I tedeschi si sono difesi in Italia già dall’8 settembre il più a sud possibile, consci che la Germania doveva avere il tempo per vincere la guerra in Russia,. Perché era lì che la guerra si decideva.
Ogni linea in Italia era una linea di difesa di arresto temporaneo e in qualche caso con la possibilità di reazioni dinamiche, tutte brillantemente sfruttate. Se Kesserling fosse rimasto in Italia ed agito per manovrare in ritirata sicuramente le forze tedesche avrebbero passato il Po in modo più o meno ordinato e si sarebbero attestate sulle Alpi, ove le avrebbero raggiunti la notizia della resa, su posizioni organizzate a difesa.
La campagna dei tedeschi in Italia, quindi conclusasi con la capitolazione, fu sotto il profilo tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Non si può dire altrettanto della campagna d’Itala dei Comandi Alleati, che come già accennato la condussero tra errori e incapacità.
La campagna d’Italia fu la cartina di tornasole del dissidio tra Statunitensi e Britannici. I primi volevano, ed ottennero, di adottare una strategia diretta, ovvero concentrare tutte le forze sul fronte francese, da aprire al più presto, e puntare il più velocemente su Berlino e porre fine alla guerra; i secondi cultori della strategia indiretta volevano attaccare si dalla Francia ma anche dall’Italia, per puntare su Vienna e raggiungere il cuore d’Europa nel più breve tempo possibile. Il risultato di una campagna condotta male e con risultati scarsi e deludenti.
A chi giovò maggiormente, ai tedeschi o agli Alleati?. Per la Germania la campagna era stata una necessità assoluta. L’abbandono dell’Italia avrebbe consentito piena libertà di movimento agli Alleati sia in direzione della Francia che in quella dell’Austria e dei Balcani ed avrebbe offerto loro la disponibilità di basi aeree ravvicinate per bombardare la Germania meridionale e l’Austria e minacciare le vie di rifornimento e gli arroccamenti fra la fronte occidentale e quella orientale.
Per gli Alleati la campagna d’Italia fu una libera scelta per perseguire fini strategici rimasti, però, sulla carta. La tattica usata dagli alleati fu del tutto inadeguata, nonostante che non mancassero loro forze e mezzi aerei, navali ed anfibi per dare vita a manovre ampie e profonde che eludessero o riducessero gli sforzi frontali. Sul piano tecnico-militare, perciò, mentre i tedeschi raggiunsero nel corso dell’intera campagna il massimo risultato conseguibili in quella situazione, gli Alleati non ottennero quanto virtualmente avrebbero potuto e offrirono,tutto sommato, un saggio scadente , non già del valore dei loro soldati, ma della loro abilità manovriera. Ma portavano la Libertà e la Democrazia, ed ovunque furono accolti come liberatori. Commisero errori strategici e tattici addirittura grossolani, e conclusero vittoriosamente la campagna solo per la loro schiacciante superiorità materiale. Ma avevano dalla loro il nuovo, il futuro, il fatto che combattevano contro il regime del genocidio, e questo diede loro tutto l’appoggio della popolazione in cui operavano, quella italiana.
Questi gli aspetti della Campagna d’Italia da parte di Eserciti estranei a noi italiani, Campagna d’Italia che occorre sempre differenziare dalla guerra di Liberazione, che intendiamo come secondo risorgimento d’Italia nell'approccio che abbiamo adottato[1].


Dato infine che questo è un convegno dedicato ai soldati italiani sulla linea gotica occorre a questa relazione fare una postilla, che va oltre la domanda posta dal gen. POLI. Un convegno dedicato ai militari Italiani sulla linea gotica non può dimenticare quei soldati italiani che come prigionieri cooperatori erano inquadrati nelle Unità da combattimento britanniche e statunitensi, nella ISU e nelle BTU. L’esempio della testa di ponte di Anzio è troppo noto. Se si parla di gruppi di Combattimento, di salmerie da combattimento, di tutto e di più, occorre rammentare anche questi soldati che, occorre ricordare erano sotto giurisdizione alleata e non italiana, ma che al momento della fine della guerra, nella smobilitazione alleata, senza soluzione di continuità ritornarono sotto giurisdizione Italia e furono coloro che, ricevendo tutto il materiale che gli alleati ci lasciarono diedero vita alle Forze Armate del dopoguerra. La loro azione meriterebbe una maggiore attenzione almeno da parte nostra.

[1] Coltrinari M., La Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti 1943-1945, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008.

venerdì 16 gennaio 2009

Volume in Libreria

“1938. L’invenzione del nemico” di Tonino Tosto, Edup 1938. L’invenzione del nemico.
Le leggi razziali del fascismo

In occasione della ricorrenza del 70° anniversario della promulgazione delle leggi razziali del 1938, la Edup propone (da dicembre 2008 in libreria) il libro di Tonino Tosto1938. L’invenzione del nemico. Le leggi razziali del fascismo. Testimonianze e storie di perseguitati
Prefazione di Walter Veltroni, Edup (pp. 208, € 12,00)

Il libro vuole, di fronte al ritorno alla quotidiana invenzione di un nemico, evitare – anche dopo settanta anni – l’oblio delle coscienze.
Le pagine di questo libro – recita nella prefazione Walter Veltroni – “hanno il merito di coltivare la memoria, di far conoscere e ricordare. (…). Non fu solo il nazismo, non fu solo la Germania hitleriana a macchiarsi del peggiore crimine mai compiuto nella storia dell’umanità. Le leggi razziali del 1938 fecero entrare a pieno titolo l’Italia dentro questa pagina terribilmente buia. La discesa all’inferno, per gli ebrei italiani, cominciò allora, e questo libro di Tonino Tosto ripercorre uno ad uno i gradini che condussero all’abisso”

Tonino Tosto racconta questo capitolo inquietante della nostra storia, spesso rimosso, attraverso le testimonianze di persone che hanno conosciuto (direttamente o indirettamente) le conseguenze delle leggi razziali e attraverso le storie esemplari di perseguitati del mondo della cultura e della scienza. Il libro è arricchito dagli interventi e dalle riflessioni di noti storici, di rappresentanti della Comunità ebraica, di associazioni di ex deportati, dai ritagli di stampa, dalle leggi e dai decreti.
Raccontando la storia in minuscolo con la voce di chi ha subìto quelle leggi e le loro nefande conseguenze, attraverso le parole vive, terribili e toccanti di tanti testimoni, il libro di Tonino Tosto aiuta a non dimenticare e a riflettere sul pericolo quotidiano dell’invenzione di un nemico.

lunedì 12 gennaio 2009

Note a margine della crisi a Gaza

Il Medio Oriente: la nascita di Israele, la questione di Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi e il contributo italiano

Dino Schettino
Il Medio Oriente è ormai da anni uno dei punti più caldi dello scacchiere diplomatico mondiale e la questione palestinese, una delle grandi questioni irrisolte dell’ultimo secolo.
Terra e aspirazioni territoriali sono sempre stati il cuore della lotta che ha visto confrontarsi a lungo ebrei e arabi di Palestina. Tuttavia, le cause del conflitto arabo-israeliano appaiono, forse, più profonde della semplice disputa di territori.
Ovviamente non è precipuo intento di questo studio effettuare un’analisi storica o politica degli eventi che hanno determinato da un lato la nascita dello Stato di Israele e dall’altro il conflitto arabo-israeliano. Tuttavia, si rende opportuno disegnare, sia pur sinteticamente, il quadro storico, politico e diplomatico, perché sono convinto che per poterla interpretare (la questione palestinese) nel modo migliore possibile, sia fondamentale conoscere le vicende storiche che l’hanno determinata. Quindi cercherò di ripercorrere le tappe del suo sviluppo storico e lo farò cercando di essere breve ma nello stesso tempo chiaro e preciso e soprattutto evitando, per quanto possibile, di prendere posizioni pregiudiziali a favore di una o dell’altra parte in conflitto.
Infatti sul Medio Oriente in generale e sul conflitto arabo-israeliano in particolare, esiste una vastissima letteratura, ma il fatto che non si sia trovata, ancora oggi, la soluzione a questo dissidio, è una delle ragioni che rendono più difficile il lavoro di chi si accosta all’argomento, perché è difficile trovare una bibliografia realmente imparziale, anche per avvenimenti ormai iniziati lontani nel tempo. Questo dipende proprio dal fatto che dare di un evento, apparentemente oggettivo, una lettura in luogo di un’altra, significa indirizzare in un verso e non nell’altro anche il giudizio sulla situazione contemporanea. Pertanto cercherò di mantenermi il più possibile al di sopra delle parti analizzando le varie situazioni con imparzialità al fine di raggiungere risultati significativi che
contribuiscano al chiarimento di una problematica così densa di implicazioni culturali, emotive, politiche e religiose come la nascita dello Stato di Israele e le successive guerre arabo-israeliane (prima parte di questo studio) Nella seconda parte affronteremo, invece, la questione della città di Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi. E per finire (terza ed ultima parte) in che modo l’Italia si pone davanti a questa problematica oramai di carattere mondiale soprattutto dopo le ultime elezioni in Palestina (25 gennaio 2006) che hanno visto vincere un movimento estremista come Hamas (di cui si accennerà qualcosa alla fine di questo studio).

1) Il punto di partenza non può che essere, ed è poi anche il punto di riferimento che mi sono prefissato per la stesura di questo studio, una data ben precisa: 14 maggio 1948. Ovvero la nascita dello Stato di Israele e non potevo non iniziare dalla famosa “Dichiarazione di Balfour” del 2 novembre 1917. Dichiarazione che conteneva la promessa britannica di una “national home” per il “popolo” ebraico in Palestina, che gli arabi sosterranno essere contraria all’impegno britannico contenuto nella corrispondenza “McMahon-Hussein” del 1915 nella quale gli arabi vedevano una promessa di indipendenza, sebbene soggetta a certe condizioni, da realizzarsi su tutti i territori non-europei dell’Impero Ottomano, non escluso, secondo l’interpretazione araba, il territorio palestinese[1].
Le forze militari britanniche occuparono la Palestina durante il 1917-18, e, d’accordo con le potenze alleate vittoriose della prima guerra mondiale, la stessa Palestina fu posta sotto Mandato britannico.
I termini della Dichiarazione Balfour furono incorporati nel Mandato britannico sulla Palestina che fu ratificato dal Consiglio della Società delle Nazioni il 24 luglio 1922 e che durò fino al 14 maggio del 1948.
La Gran Bretagna decise, poi, il 18 febbraio 1947, di chiedere alle Nazioni Unite di formulare una proposta di risoluzione delle tensioni crescenti tra le comunità arabe ed ebraiche residenti nell’area.
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la famosa Risoluzione di Spartizione numero 181, che raccomandava la divisione del territorio mandatario in tre parti, legate da un’unione economica: due Stati, uno ebraico e uno arabo, e una zona internazionalizzata comprendente Gerusalemme e dintorni, definita corpus separatum (di cui si parlerà ,come accennato, nella seconda parte di questo studio).
Mentre i rappresentanti sionisti dell’Ishuv[2] accettarono il principio della spartizione contenuto nella risoluzione, la reazione negativa araba alla sua adozione provocò l’acuirsi della guerra civile già in atto, particolarmente cruenta nell’area di Gerusalemme. Il 14 maggio 1948, quando il Mandato britannico palestinese si concluse ufficialmente, i rappresentanti della comunità ebraica palestinese proclamarono la Dichiarazione d’Indipendenza (Declaration on the Establishment) dello Stato di Israele.
Quindi, in questo giorno, i sogni e le speranze di un intero popolo, gli ebrei, anche di quelli sparsi per il mondo, si realizzarono. Dopo una diaspora cominciata secoli prima e dopo tante sofferenze, gli ebrei ebbero anche loro un territorio internazionalmente riconosciuto, dove costituire uno Stato con una cultura, una lingua e tradizioni proprie.
Nello stesso giorno, quando una parte della popolazione della Palestina gioiva e stava coronando un sogno durato secoli, un’altra parte di questa popolazione era in preda allo sconforto, si sentiva abbandonata da tutti (in particolare dalla Comunità internazionale) e da tutto e sentiva crescere un sentimento di ribellione e rivincita. Questo era il momento in cui il contrasto latente e oramai più che trentennale tra arabo-palestinesi ed ebrei assunse una connotazione più forte. Da questa data gli scontri tra i due popoli, che prima erano sotto forma di accuse, dimostrazioni, tumulti e qualche attentato, assunsero una valenza più militare. Infatti, immediatamente dopo la proclamazione d’indipendenza israeliana, gli eserciti di Egitto, Giordania, Iraq, Libano e Siria (l’Arabia Saudita inviò solo un contingente simbolico) si unirono agli arabi palestinesi nella lotta contro l’Ishuv ebraico, oramai organizzato nello Stato di Israele. Una guerra durata poco meno di un anno e che si concluse, con la vittoria israeliana, con l’Armistizio di Rodi dell’aprile del 1949.
Il 14 febbraio 1949, l’Assemblea Costituzionale di Israele riunita a Gerusalemme, elesse Chaim Weizmann primo Presidente dello Stato ed il 5 maggio 1949 Israele divenne membro delle Nazioni Unite.
Sul fronte opposto, il 20 settembre 1948 la Lega Araba annunciò la costituzione di un Governo arabo di tutta la Palestina. Il 1 ottobre 1948 l’Assemblea Nazionale Palestinese riunì a Gaza ed elesse come suo presidente Hajj Amin al-Husayni, il Muftì di Gerusalemme, ossia il capo della comunità islamica palestinese.
Lo stesso giorno, però, 5.000 notabili che pretendevano di rappresentare gli arabi palestinesi organizzarono un incontro pro-giordano ad Amman, denunciando il governo di Gaza. Il re giordano Abdullah si rifiutò di riconoscere il governo palestinese e il 15 novembre fu proclamato re di Gerusalemme.
Il 1 dicembre 1948 si riunì a Gerico un incontro di massa di notabili arabi. I partecipanti adottarono una risoluzione, approvata il 7 dicembre 1948 dal governo giordano, che esprimeva il desiderio degli abitanti della Cisgiordania di unirsi alla Giordania, il nuovo nome della Transgiordania dal 25 maggio 1946[3].
Il 13 dicembre 1948, dunque immediatamente dopo la citata approvazione del Parlamento giordano, il re Abdullah emanò un decreto di dissoluzione del Parlamento alla data del 1 gennaio 1950. Le elezioni generali si tennero l’11 aprile del 1950 su entrambe le rive del fiume giordano, compresa la porzione orientale di Gerusalemme controllata dalla Giordania. Il nuovo Parlamento eletto approvò all’unanimità il 24 aprile 1949 una risoluzione. In essa si proclamava formalmente l’unificazione del regno, inclusa Gerusalemme, sotto la monarchia hascemita[4], affermando che i diritti arabi in Palestina sarebbero stati difesi con tutti i mezzi e che la proclamata unità delle due sponde del Giordano non avrebbe pregiudicato la soluzione finale della giusta causa palestinese nei limiti delle speranze nazionali, della cooperazione araba e della giustizia internazionale.
Nessuno Stato riconobbe questa proclamazione, con l’eccezione del Pakistan e della Gran Bretagna. Al contrario, il Comitato Politico della Lega Araba decise unanimemente il 16 maggio 1950 che l’annessione della Palestina araba da parte del governo giordano violava la risoluzione della Lega del 12 aprile 1950, che proibiva l’annessione di qualsiasi parte del territorio dell’ex Mandato palestinese.
In questa occasione, Egitto, Arabia Saudita, Siria e Libano votarono per l’espulsione della Giordania dalla Lega Araba. La mediazione del governo iracheno contribuì a trovare un compromesso, espresso nel citato impegno solenne giordano per cui i provvedimenti amministrativi che aveva adottato in relazione alla Cisgiordania non avrebbero pregiudicato la soluzione finale della questione palestinese. Di conseguenza, l’annessione della Cisgiordania si realizzo soltanto de facto, ma mai de jure.
Questa situazione armistiziale provvisoria si protrasse fino al 5 giugno 1967, quando il governo israeliano attaccò l’Egitto, che contemporaneamente si era unito politicamente alla Siria nella Repubblica Araba Unita. L’attacco seguì la decisione del presidente egiziano Nasser di bloccare lo Stretto di Tiran e di spostare le sue forze nel Sinai. Israele immediatamente si appellò alla Giordania, invitandola ad evitare il coinvolgimento nel conflitto, ma la risposta fu, lo stesso giorno, l’attacco al territorio israeliano, compreso il settore di Gerusalemme controllato da Israele.
L’esito del contrattacco israeliano fu la conquista in sei giorni e la successiva occupazione della Penisola del Sinai, della Striscia di Gaza, delle Colline del Golan e dei territori nella sponda occidentale del fiume Giordano.[5] Quest’ultima area, definita come West Bank o Cisgiordania (secondo l’antico nome ebraico: Giudea e Samaria), includeva anche la parte orientale di Gerusalemme, che era stata controllata dal 1948 dai giordani.
Il periodo successivo fu caratterizzato da fasi cruente di conflitto, falliti tentativi di conciliazione e momenti di relativa calma. Tra quest’ultimi va ricordata in particolare, il 17 settembre 1978, la firma alla Casa Bianca dell’Accordo-quadro per la pace in Medio Oriente. L’Accordo-quadro, negoziato a Camp David, fu firmato dal presidente egiziano Muhammad Anwar Al-Sadat e dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin, con la testimonianza del presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter.
Ma soltanto nell’ottobre del 1991 gli Stati Uniti e l’ex Unione Sovietica sono riusciti a mettere intorno ad un tavolo israeliani e palestinesi – inizialmente parte di una delegazione giordano-palestinese – in occasione della Conferenza di Pace di Madrid.
Gli anni novanta sono particolarmente importanti in quanto il processo di pace iniziato, appunto, con la Conferenza di Madrid, assume dei caratteri rilevanti portando alla stesura di vari ed importanti Accordi di pace, come quello di Oslo del 1993 siglato tra il governo israeliano e l’OLP, l’Accordo Fondamentale tra la Santa Sede e Israele dello stesso anno, l’Accordo Base tra la Santa Sede e l’OLP di qualche anno dopo (politicamente rilevanti per i riferimenti contenuti nelle rispettive disposizioni allo Status Quo dei Luoghi Santi di Gerusalemme, di cui parleremo dopo, anche se formalmente tali accordi non costituiscono parte integrante del processo di pace iniziato con la Conferenza di Madrid), la Dichiarazione di Washington del 1994 tra Israele e Giordania con il successivo Trattato di pace israelo-giordano del 26 ottobre 1994, l’Accordo Provvisorio israelo-palestinese sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza del 1995 e quello finora più importante, ovvero quello costituito dalla Roadmap (Performance-based Roadmap to a Permanent Two-State Solution to the Israele-Palestinian Clnflict). La Roadmap specifica uno scadenzario e i passi che le due parti devono intraprendere per raggiungere un accordo, sotto gli auspici del Quartetto, composto da Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite e Russia. Secondo la Roadmap, le parti avrebbero dovuto raggiungere un accordo finale e generale sullo status permanente per porre termine al conflitto israelo-palestinese nel 2005.
Questo accordo, secondo un articolo della Roadmap, avrebbe dovuto includere una soluzione negoziata per lo status di Gerusalemme, che tenga in considerazione le preoccupazioni politiche e religiose di entrambe le parti e protegga gli interessi religiosi di ebrei, cristiani e mussulmani di tutto il mondo.

2) Infatti Gerusalemme è una città che rappresenta un’antica eredità e che ha influenzato i processi centrali del pensiero delle più importanti civiltà durante i secoli; una città considerata da tempo immemorabile, un luogo di significato religioso per gli aderenti di tre religioni mondiali, ciascuna delle quali vi cercava, e vi cerca ancora, la protezione dei propri interessi.
Detto ciò vogliamo ricordare che Gerusalemme è stata riverita dagli Ebrei per 3000 anni, dai Cristiani per quasi 2000, e dai Mussulmani per più di 1300 anni e che molti degli edifici sacri costruiti nella città rappresentano anche una comune eredità delle tre religioni.
Eppure, nonostante ciò, Gerusalemme è stata assediata e conquistata una miriade di volte durante la sua storia millenaria.
All’interno della città, il re David e Salomone hanno regnato sul “popolo eletto”, i Romani vi hanno crocifisso Gesù, e il profeta Maometto, in questa stessa città, fece conoscere il pensiero dell’Islam.
Ma perché questi tre popoli considerano questa città, santa? I motivi sono tanti, ma forse quelli che hanno provocato e provocano ancora tutt’oggi gli scontri tra queste popolazioni, possono essere sintetizzati come i seguenti:
gli ebrei considerano Gerusalemme una città santa perché essa fu il loro centro politico e religioso nei tempi biblici. Intorno al 1000 a.c. il re David stabilì che Gerusalemme sarebbe stata la città capitale della comunità israelita. E poi il re Salomone, figlio di David, vi costruì il primo sacro Tempio degli ebrei.
I Cristiani, invece, riconoscono Gerusalemme come città santa perché Gesù vi fu crocifisso e gran parte della sua vita si è sviluppata proprio intorno alla città.
Per quanto riguarda i Mussulmani, essi credono che Maometto salì al cielo da Gerusalemme, facendo di essa la terza città dopo La Mecca e Medina in Arabia Saudita.
Quindi, di conseguenza, questa città era ed è rimasta storica e sacra ed ha occupato sempre una posizione centrale per le culture dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam.
Poi la varietà degli interessi religiosi – Mussulmani, Cattolici, Ebrei, Ortodossi, Armeni, Copti, Abissini, Siriani, Anglicani e altri Protestanti, senza contare le istituzioni costituite dalle comunità religiose d’Europa, Asia, Africa e delle Americhe – richiedeva qualche forma di ordine e di protezione.
Nel 1757, dunque, fu stabilito a questo fine il cosiddetto Status Quo. Così, il potere temporale mussulmano, nel complesso, non interferiva con l’amministrazione dei Luoghi Santi, anche se non mancavano rivendicazioni e contro-rivendicazioni.
Questo sistema non cambiò molto sotto il Mandato britannico[6], che specificava, all’articolo 13, che il mandatario avrebbe dovuto preservare i diritti esistenti in relazione ai Luoghi Santi. Ma non mancarono, talvolta, come nel 1929 (anno della prima rivolta araba), seri disordini.
Ma che cosa significa Status Quo? Questa espressione, usata di frequente sia nel linguaggio politico-diplomatico che in quello giuridico, sta letteralmente ad indicare la conservazione di una determinata situazione esistente. L’originale locuzione latina, dalla quale questa espressione trae origine, era in statu quo ante, ovvero nello stato in cui le cose erano prima che qualche avvenimento le mutasse. L’espressione originale, era, dunque, statu quo, mentre oggi si utilizza comunemente la formula status quo, utilizzando il sostantivo latino status (ossia condizione, situazione) al nominativo ed il pronome relativo quo all’ablativo.
Nella prassi amministrativa statale come nella teoria del diritto internazionale, l’espressione iniziò ad essere usata in riferimento agli effetti giuridici successivi ad una guerra. Alla fine dello stato di belligeranza due differenti possibilità di soluzione venivano generalmente prese in considerazione: una di esse contemplava la restaurazione della situazione precedente la guerra (status quo ante bellum o status quo tunc); l’altra definiva la situazione dei belligeranti alla fine delle ostilità e rappresentava la base giuridica di un nuovo assetto politico post-bellico (status quo post bellum o status quo nunc), una distinzione applicabile anche in relazione ai Luoghi Santi di Gerusalemme[7].
I Luoghi Santi sono quei santuari ed edifici di culto di particolare importanza, contesi dalle comunità riconosciute a Gerusalemme: il Santo Sepolcro con tutti i suoi edifici annessi, Deir al Sultan, il Santuario dell’Ascensione, la Tomba della Vergine a Gerusalemme, presso Getsemani, e la Chiesa della Natività a Betlemme.
Per quanto può sembrare strano, tuttavia, nessun diritto e nessun ordinamento giuridico applicato nell’area nei tempi, contiene una definizione di Luogo Santo. Vari accordi diplomatici, invece, hanno contribuito a dare una certa rilevanza internazionale al compromesso fra le differenti comunità nei Luoghi Santi.
Tra gli esempi recenti, il più significativo è costituito dall’articolo XI del Trattato di Pace tra Israele e Giordania firmato il 26 ottobre 1994. Questo articolo, dedicato ai luoghi di importanza storica e religiosa ed alle relazioni interconfessionali, dispone che ognuna delle due parti avrebbe dovuto garantire la libertà di accesso ai luoghi di importanza storica e religiosa.
Il successivo comma dello stesso articolo XI aggiunge a questo riguardo, in conformità con la citata Dichiarazione di Washington del 1994 tra Israele e Giordania, che Israele avrebbe rispettato l’attuale ruolo speciale del Regno Hascemita di Giordania nei luoghi sacri mussulmani a Gerusalemme.
Il terzo comma dello stesso articolo contiene, invece, l’impegno delle parti, di agire insieme per promuovere le relazioni interconfessionali fra le tre religioni monoteistiche, con lo scopo di lavorare in favore della comprensione religiosa, l’impegno morale, la libertà del culto religioso, la tolleranza e la pace[8].

3) Arrivando all’ultima parte di questo studio, analizziamo quale potrebbe essere il ruolo che l’Italia potrebbe svolgere in questa complicatissima questione, soprattutto quello su Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi, che rappresenta, secondo l’Autore, la più delicata e controversa dei negoziati di pace arabo-israeliani, che ha bloccato le trattative tra Arafat, Barak e Clinton a Camp David nel 2000.
Ricordiamo che nella conferenza stampa a Palazzo Chigi del 2 dicembre 2005 con il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, aveva accettato la proposta italiana di far svolgere ad Erice i negoziati di pace israelo-palestinese. L’8 gennaio 2006 il Presidente del Consiglio italiano aveva rinnovato la sua proposta su Erice anche in un articolo pubblicato su un giornale israeliano per manifestare la sua solidarietà in occasione dell’improvvisa malattia dell’ex Primo Ministro israeliano Sharon[9].
Nel contesto dei Luoghi Santi, il governo italiano potrebbe prendere l’iniziativa, in coordinamento con gli altri membri dell’Unione Europea e d’accordo con gli altri partner del Quartetto, di dichiarare alle parti la sua disponibilità ad organizzare una serie di incontri, con la partecipazione dei principali esperti specializzati su alcuni aspetti della complessa questione di Gerusalemme e dei Luoghi Santi.
Questi incontri potrebbero essere focalizzati esclusivamente su alcune ben definite questioni tecnico-giuridiche relative alla delicatissima materia, senza alcun mandato per negoziare gli aspetti politici o competenza a prendere decisione per conto dei rispettivi governi. Allo stato attuale soltanto le parti stesse, ossia i rappresentanti del governo israeliano e palestinese, possono condurre direttamente tali negoziati e gli interventi esterni possono solo contribuire, nella migliore delle ipotesi, a chiarire aspetti terminologici o definire le possibili opportunità tecnico-giuridiche offerte dalla prassi diplomatica e dal diritto internazionale.
Vista la nuova situazione politica determinatasi dopo le elezioni palestinesi del 2006 vinte dal movimento islamico Hamas[10], non è possibile prevedere quando i negoziati diretti tra le parti potranno realisticamente tornare all’ordine del giorno dell’agenda diplomatica e l’organizzazione di questi incontri potrebbe essere, davvero, l’unico tipo di attività diplomatica realizzabile tra le parti.[11]
Va ricordato inoltre che i negoziati israelo-palestinesi sono sempre stati condotti dal governo israeliano da una parte e dall’OLP dall’altra, mentre l’Autorità Palestinese, sui cui organi oggi pesa il controllo politico di Hamas, è un ente privo di soggettività internazionale, creato in applicazione dei citati Accordi di Oslo.
Il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha recentemente ribadito attraverso canali diplomatici con il governo israeliano che, nonostante la vittoria di Hamas nelle elezioni parlamentari, l’OLP – e non l’Autorità Palestinese – resta l’ente che ha firmato tutti gli accordi precedenti con Israele e che è ufficialmente responsabile di condurre i negoziati diplomatici. Quindi questi incontri, per concludere, potrebbero davvero facilitare il futuro lavoro diplomatico dei negoziatori sugli aspetti più controversi del conflitto sulla città.

Alla luce di tutto questo, da molte parti del mondo ci si chiede ancora, con grande ed anche comprensibile angoscia, come mai, dopo tanti tentativi, tanti sforzi e soprattutto tanti anni di storia, non si è riusciti ancora a risolvere il problema israeliano-palestinese, oggi noto, tristemente, come “conflitto arabo-israeliano”. Eppure, alla luce anche di quanto scritto nella prima parte di questo studio, non possiamo non dire che non ci siano stati momenti in cui la soluzione sembrava vicina; non possiamo non dire che non ci siano stati svariati tentativi per risolverlo, cosicché oggi questa soluzione appare, se non impossibile, molto lontana. Forse se ci fosse un maggiore impegno delle due parti in conflitto e un intervento ancora più determinante e pressante degli Stati Uniti e della Comunità Internazionale in generale, la soluzione potrebbe davvero trovarsi. Questo dipende, anche e soprattutto, dal fatto che esistono, da una parte e dall'altra, dei gruppi che, per motivi (soprattutto) religiosi, non riescono ad accettare che in Palestina ci siano due Stati, quello israeliano e quello palestinese, perché ciò comporterebbe una divisione di questo territorio che, invece, per una certa concezione “divina”, è tutto di un popolo (ebrei) o tutto dell’altro (palestinesi). E quindi, alla fine, questi gruppi che sostengono e difendono questo “principio sacro” ricorrono alla lotta armata e soprattutto alle azioni terroristiche che, purtroppo, non in tutto il mondo islamico sono condannate, come invece dovrebbero essere; anzi in Palestina i cosiddetti “martiri” di Hamas[12] sono anche esaltati da una notevole parte della popolazione. E questa cosa è molto triste, perché il terrorismo suicida, se da una parte danneggia l'islam come religione, facendolo apparire come una religione che incoraggia e giustifica l'assassinio di persone innocenti con la promessa del Paradiso, dall'altra nuoce alla popolazione palestinese, aggravando ancora di più la sua situazione politica ed economica, perché ad ogni attentato terroristico di Hamas, ovviamente, c’è una risposta israeliana, che risulta essere altrettanto spaventosa e crudele. Così Hamas, oggi, dopo le ultime elezioni del 2006[13], dove ha ottenuto il consenso della maggioranza della popolazione, rappresenta un grosso ostacolo per la risoluzione del problema palestinese, avendo anche la capacità di influire su ogni accordo di “pace” (presente e futuro) che possa prevedere la costituzione di due Stati, rendendo, quindi, ancora più difficile l’unica soluzione realistica del problema.

Questa è la storia (in sintesi) della questione palestinese e di Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi in particolare, la storia della lotta per “Eretz Yisrael” che inesorabilmente continua nei giorni nostri a uccidere israeliani e palestinesi, è la vera guerra ebraica che si combatte in Israele/Palestina, perché come disse il rabbino capo Tzvi Yehuda Kook (1865-1935), figura di primo piano del sionismo religioso che considerava sacra la riconquista della patria ancestrale da parte del movimento laburista: “the Land was chosen before the people”.

[1] Con l’inizio della 1ª Guerra Mondiale e a seguito dello schieramento della Turchia con le Potenze Centrali, i paesi europei (Francia, Gran Bretagna e Russia) cominciavano a fare accordi per la futura spartizione del territorio dell’Impero Ottomano, oramai in decadenza dal 1686, ed il primo accordo fu quello di Costantinopoli del 1915. In quell’anno la Gran Bretagna, ancora unica potenza europea presente nel Medio Oriente stringe un accordo con la famiglia araba più potente, la famiglia Hascemita, promettendo la creazione di un grande stato arabo in cambio del loro aiuto a mandar via i turchi ottomani da quel territorio, appunto lo scambio di lettera McMahon-Hussein.
[2] Termine con il quale si indicava l’insediamento ebraico organizzato in Palestina.
[3] Il Presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Yasser Arafat, durante i negoziati di pace israelo-palestinese tenuti segretamente ad Oslo, non dimenticò questo pericoloso precedente della Conferenza di Gerico quando insistette che Israele si sarebbe dovuto ritirare non soltanto da Gaza, ma anche dalla stessa Gerico, probabilmente anche per prevenire nuovi tentativi di influenza giordana sulla Cisgiordania.
[4] Vedi S.Slonim, Jerusalem in America’s Foreign Policy, The Hague, 1998, p. 160. Per un’analisi delle azioni giordane dal punto di vista del diritto internazionale vedi, tra gli altri, E. Molinaro, Gerusalemme e i Luoghi Santi, “la Comunità Internazionale”, vol. 49, n. 2, 1994, pp. 254-255
[5] Ancora oggi sussistono diverse opinioni in relazione alla legittimità o meno dell’azione israeliana come un atto di aggressione, infatti ci si chiede se la guerra del 1967 abbia potuto segnare l’inizio di una politica espansionistica di Israele nei confronti del popolo palestinese. Infatti mentre agli occhi dell’opinione pubblica internazionale del tempo, la guerra che ha portato alla nascita di Israele era considerata giusta, o quantomeno moralmente accettabile, viste le sofferenze e persecuzioni che il popolo ebraico aveva subito durante la Seconda Guerra Mondiale, il conflitto del ’67 appariva in una luce completamente diversa. Vi era una differenza morale tra la conquista di territori strappati agli arabi con la guerra d’Indipendenza e quelli occupati (e in piccola parte annessi unilateralmente) durante la guerra dei Sei giorni: le motivazioni erano completamente differenti. Mentre le conquiste ottenute del 1949 rappresentavano la base e condizione essenziale per la fondazione del nuovo Stato ebraico, il tentativo di conservare e ampliare i territori esclusivi nella West Bank e a Gaza aveva un forte sapore di espansione imperiale.
Per il sionismo, e per la sua ideologia di liberazione, era più che legittimo e giustificato dalla storia e dalla Bibbia, cercare di riscattare l’intera area di Eretz Yisrael, conseguendo i diritti del popolo ebraico nella propria patria biblica. Proprio questo diritto storico sulla Palestina, abilmente sfruttato come propaganda e argomento di politica internazionale, fu invocato e rivendicato con il fine di assicurarsi un rifugio, considerate le condizioni che gli ebrei avevano dovuto sopportare all’inizio del XX secolo dopo i reiterati pogrom nell’impero russo.

[6] Alla fine della 1ª Guerra Mondiale, tutti i territori che erano parte dell’Impero Ottomano, oramai disgregato, furono assegnati dalla Società delle Nazioni, sotto forma di Mandati, ai vari Paesi Europei, ed il territorio della Palestina fu assegnato alla Gran Bretagna.
[7] Secondo il MOLINARO, esistono tre differenti significati di Status Quo: Status Quo nei Luoghi Santi in senso stretto che è un’espressione latina che si riferisce al regime giuridico temporaneo applicabile alle contrastanti rivendicazioni sui rispettivi diritti ed interessi nei più importanti luoghi di culto nell’area di Gerusalemme (inclusa Betlemme); Status Quo culturale-religioso che definisce, in generale, gli aspetti culturali e religiosi della città, incluse le relazioni tra le comunità riconosciute da un lato e le autorità territoriali dall’altro; Status Quo politico-territoriale che definisce l’equilibrio dei poteri a Gerusalemme tra arabi e israeliani, in attesa che le parti del negoziato trovino una soluzione permanente sul conflitto territoriale relativo all’amministrazione della città.

[8] Per un’ulteriore analisi vedi E. MOLINARO, Gerusalemme e i Luoghi Santi nel conflitto arabo-israeliano.
[9] S. BERLUSCONI, Speciale to Haatetz/Sharon recognized the best path for his country, “Ha’aretx, 8 gennaio 2006: www.haaretz.com.
[10] Di questo Movimento si accennerà qualcosa nell’ ultimissima parte di questo studio descrivendo anche il nuovo sistema elettorale palestinese.
[11] Questa proposta è stata presentata dal Dott. Enrico MOLINARO (tra i maggiori esperti e studiosi italiani della questione palestinese, in particolare della questione di Gerusalemme, e con il quale l’Autore collabora) nel corso della conferenza su “Il ruolo dell’Italia e dell’Europa per lo sviluppo del nascente Stato palestinese”, tenutasi a Minturno, presso Latina, il 29 ottobre 2005 (e che ha visto la partecipazione di giornalisti, deputati europei di diversi partiti ed esperti) ed è sintetizzata in un’intervista rilasciata dallo stesso a Z. Aceto e pubblicata sul quotidiano “La Provincia” il 1 novembre 2005 con il titolo Una Strada per Gerusalemme.
[12] Movimento fondamentalista islamico che si ispira al Movimento dei Fratelli Musulmani (fondato in Egitto nel 1928 da un maestro di scuola Hasan Al-Banna). Esso è nato nel dicembre del 1981 al tempo della prima Intifada (sollevazione) dei palestinesi contro gli israeliani, in seguito all’uccisione di un colono israeliano, pugnalato in un attentato del Jihad Islamico e alla successiva reazione ebraica, particolarmente dura.
[13] Il sistema elettorale palestinese: dopo la riforma approvata nel 2005, il Consiglio Legislativo Palestinese è composto da 132 membri, eletti con un sistema misto. Metà dei seggi (66) vengono assegnati attraverso il sistema proporzionale a liste concorrenti, con sbarramento al 2%. L’assegnazione dei seggi avviene su base nazionale (tutto il territorio palestinese costituisce un’unica circoscrizione elettorale). Ogni lista è obbligata, per legge, ad includere un certo numero di donne. I restanti 66 seggi vengono assegnatisi base locale, con sistema maggioritario. Il territorio è suddiviso in 16 distretti (11 in Cisgiordania e 5 nella Striscia di Gaza): ogni distretto elegge un numero di rappresentanti proporzionale alla sua popolazione. All’interno di ogni distretto, vengono eletti i candidati che ricevono il maggior numero di preferenze, indipendentemente dalla percentuale ottenuta dalla lista di appartenenza. 6 dei 66 seggi assegnati in questo modo sono riservati a candidati cristiani (2 a Gerusalemme, 2 a Betlemme, 1 a Ramallah e 1 a Gaza).
Per ulteriori informazioni, l'indirizzo e mail della Rivista Il Secondo Risorgimento d'Italia è risorgimento23@libero.I

giovedì 8 gennaio 2009

Giornata della Memoria

Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea
nelle province di Biella e Vercelli "Cino Moscatelli"
Aderente all'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia
"Ferruccio Parri"
13019 Varallo - via D'Adda, 6 - tel. 0163-52005 - fax 0163-562289 direzione@storia900bivc.it
www.storia900bivc.it


In occasione del Giorno della Memoria, l'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli "Cino Moscatelli" espone a Varallo, nella sede di via D'Adda, 6, dal 12 al 30 gennaio 2009, la mostra Porrajmos: altre tracce sul sentiero per Auschwitz, curata da Carlo Berini, per l'Istituto di Cultura Sinta di Mantova, con la collaborazione di Paola Dispoto per l'associazione Nevo Drom di Bolzano. I testi e le foto sono tratti dal volume "Porrajmos, altre tracce sul sentiero per Auschwitz", edito dall'Istituto di Cultura Sinta nel gennaio 2006.
La mostra sarà aperta da lunedì a venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18.