Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

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lunedì 12 gennaio 2009

Note a margine della crisi a Gaza

Il Medio Oriente: la nascita di Israele, la questione di Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi e il contributo italiano

Dino Schettino
Il Medio Oriente è ormai da anni uno dei punti più caldi dello scacchiere diplomatico mondiale e la questione palestinese, una delle grandi questioni irrisolte dell’ultimo secolo.
Terra e aspirazioni territoriali sono sempre stati il cuore della lotta che ha visto confrontarsi a lungo ebrei e arabi di Palestina. Tuttavia, le cause del conflitto arabo-israeliano appaiono, forse, più profonde della semplice disputa di territori.
Ovviamente non è precipuo intento di questo studio effettuare un’analisi storica o politica degli eventi che hanno determinato da un lato la nascita dello Stato di Israele e dall’altro il conflitto arabo-israeliano. Tuttavia, si rende opportuno disegnare, sia pur sinteticamente, il quadro storico, politico e diplomatico, perché sono convinto che per poterla interpretare (la questione palestinese) nel modo migliore possibile, sia fondamentale conoscere le vicende storiche che l’hanno determinata. Quindi cercherò di ripercorrere le tappe del suo sviluppo storico e lo farò cercando di essere breve ma nello stesso tempo chiaro e preciso e soprattutto evitando, per quanto possibile, di prendere posizioni pregiudiziali a favore di una o dell’altra parte in conflitto.
Infatti sul Medio Oriente in generale e sul conflitto arabo-israeliano in particolare, esiste una vastissima letteratura, ma il fatto che non si sia trovata, ancora oggi, la soluzione a questo dissidio, è una delle ragioni che rendono più difficile il lavoro di chi si accosta all’argomento, perché è difficile trovare una bibliografia realmente imparziale, anche per avvenimenti ormai iniziati lontani nel tempo. Questo dipende proprio dal fatto che dare di un evento, apparentemente oggettivo, una lettura in luogo di un’altra, significa indirizzare in un verso e non nell’altro anche il giudizio sulla situazione contemporanea. Pertanto cercherò di mantenermi il più possibile al di sopra delle parti analizzando le varie situazioni con imparzialità al fine di raggiungere risultati significativi che
contribuiscano al chiarimento di una problematica così densa di implicazioni culturali, emotive, politiche e religiose come la nascita dello Stato di Israele e le successive guerre arabo-israeliane (prima parte di questo studio) Nella seconda parte affronteremo, invece, la questione della città di Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi. E per finire (terza ed ultima parte) in che modo l’Italia si pone davanti a questa problematica oramai di carattere mondiale soprattutto dopo le ultime elezioni in Palestina (25 gennaio 2006) che hanno visto vincere un movimento estremista come Hamas (di cui si accennerà qualcosa alla fine di questo studio).

1) Il punto di partenza non può che essere, ed è poi anche il punto di riferimento che mi sono prefissato per la stesura di questo studio, una data ben precisa: 14 maggio 1948. Ovvero la nascita dello Stato di Israele e non potevo non iniziare dalla famosa “Dichiarazione di Balfour” del 2 novembre 1917. Dichiarazione che conteneva la promessa britannica di una “national home” per il “popolo” ebraico in Palestina, che gli arabi sosterranno essere contraria all’impegno britannico contenuto nella corrispondenza “McMahon-Hussein” del 1915 nella quale gli arabi vedevano una promessa di indipendenza, sebbene soggetta a certe condizioni, da realizzarsi su tutti i territori non-europei dell’Impero Ottomano, non escluso, secondo l’interpretazione araba, il territorio palestinese[1].
Le forze militari britanniche occuparono la Palestina durante il 1917-18, e, d’accordo con le potenze alleate vittoriose della prima guerra mondiale, la stessa Palestina fu posta sotto Mandato britannico.
I termini della Dichiarazione Balfour furono incorporati nel Mandato britannico sulla Palestina che fu ratificato dal Consiglio della Società delle Nazioni il 24 luglio 1922 e che durò fino al 14 maggio del 1948.
La Gran Bretagna decise, poi, il 18 febbraio 1947, di chiedere alle Nazioni Unite di formulare una proposta di risoluzione delle tensioni crescenti tra le comunità arabe ed ebraiche residenti nell’area.
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la famosa Risoluzione di Spartizione numero 181, che raccomandava la divisione del territorio mandatario in tre parti, legate da un’unione economica: due Stati, uno ebraico e uno arabo, e una zona internazionalizzata comprendente Gerusalemme e dintorni, definita corpus separatum (di cui si parlerà ,come accennato, nella seconda parte di questo studio).
Mentre i rappresentanti sionisti dell’Ishuv[2] accettarono il principio della spartizione contenuto nella risoluzione, la reazione negativa araba alla sua adozione provocò l’acuirsi della guerra civile già in atto, particolarmente cruenta nell’area di Gerusalemme. Il 14 maggio 1948, quando il Mandato britannico palestinese si concluse ufficialmente, i rappresentanti della comunità ebraica palestinese proclamarono la Dichiarazione d’Indipendenza (Declaration on the Establishment) dello Stato di Israele.
Quindi, in questo giorno, i sogni e le speranze di un intero popolo, gli ebrei, anche di quelli sparsi per il mondo, si realizzarono. Dopo una diaspora cominciata secoli prima e dopo tante sofferenze, gli ebrei ebbero anche loro un territorio internazionalmente riconosciuto, dove costituire uno Stato con una cultura, una lingua e tradizioni proprie.
Nello stesso giorno, quando una parte della popolazione della Palestina gioiva e stava coronando un sogno durato secoli, un’altra parte di questa popolazione era in preda allo sconforto, si sentiva abbandonata da tutti (in particolare dalla Comunità internazionale) e da tutto e sentiva crescere un sentimento di ribellione e rivincita. Questo era il momento in cui il contrasto latente e oramai più che trentennale tra arabo-palestinesi ed ebrei assunse una connotazione più forte. Da questa data gli scontri tra i due popoli, che prima erano sotto forma di accuse, dimostrazioni, tumulti e qualche attentato, assunsero una valenza più militare. Infatti, immediatamente dopo la proclamazione d’indipendenza israeliana, gli eserciti di Egitto, Giordania, Iraq, Libano e Siria (l’Arabia Saudita inviò solo un contingente simbolico) si unirono agli arabi palestinesi nella lotta contro l’Ishuv ebraico, oramai organizzato nello Stato di Israele. Una guerra durata poco meno di un anno e che si concluse, con la vittoria israeliana, con l’Armistizio di Rodi dell’aprile del 1949.
Il 14 febbraio 1949, l’Assemblea Costituzionale di Israele riunita a Gerusalemme, elesse Chaim Weizmann primo Presidente dello Stato ed il 5 maggio 1949 Israele divenne membro delle Nazioni Unite.
Sul fronte opposto, il 20 settembre 1948 la Lega Araba annunciò la costituzione di un Governo arabo di tutta la Palestina. Il 1 ottobre 1948 l’Assemblea Nazionale Palestinese riunì a Gaza ed elesse come suo presidente Hajj Amin al-Husayni, il Muftì di Gerusalemme, ossia il capo della comunità islamica palestinese.
Lo stesso giorno, però, 5.000 notabili che pretendevano di rappresentare gli arabi palestinesi organizzarono un incontro pro-giordano ad Amman, denunciando il governo di Gaza. Il re giordano Abdullah si rifiutò di riconoscere il governo palestinese e il 15 novembre fu proclamato re di Gerusalemme.
Il 1 dicembre 1948 si riunì a Gerico un incontro di massa di notabili arabi. I partecipanti adottarono una risoluzione, approvata il 7 dicembre 1948 dal governo giordano, che esprimeva il desiderio degli abitanti della Cisgiordania di unirsi alla Giordania, il nuovo nome della Transgiordania dal 25 maggio 1946[3].
Il 13 dicembre 1948, dunque immediatamente dopo la citata approvazione del Parlamento giordano, il re Abdullah emanò un decreto di dissoluzione del Parlamento alla data del 1 gennaio 1950. Le elezioni generali si tennero l’11 aprile del 1950 su entrambe le rive del fiume giordano, compresa la porzione orientale di Gerusalemme controllata dalla Giordania. Il nuovo Parlamento eletto approvò all’unanimità il 24 aprile 1949 una risoluzione. In essa si proclamava formalmente l’unificazione del regno, inclusa Gerusalemme, sotto la monarchia hascemita[4], affermando che i diritti arabi in Palestina sarebbero stati difesi con tutti i mezzi e che la proclamata unità delle due sponde del Giordano non avrebbe pregiudicato la soluzione finale della giusta causa palestinese nei limiti delle speranze nazionali, della cooperazione araba e della giustizia internazionale.
Nessuno Stato riconobbe questa proclamazione, con l’eccezione del Pakistan e della Gran Bretagna. Al contrario, il Comitato Politico della Lega Araba decise unanimemente il 16 maggio 1950 che l’annessione della Palestina araba da parte del governo giordano violava la risoluzione della Lega del 12 aprile 1950, che proibiva l’annessione di qualsiasi parte del territorio dell’ex Mandato palestinese.
In questa occasione, Egitto, Arabia Saudita, Siria e Libano votarono per l’espulsione della Giordania dalla Lega Araba. La mediazione del governo iracheno contribuì a trovare un compromesso, espresso nel citato impegno solenne giordano per cui i provvedimenti amministrativi che aveva adottato in relazione alla Cisgiordania non avrebbero pregiudicato la soluzione finale della questione palestinese. Di conseguenza, l’annessione della Cisgiordania si realizzo soltanto de facto, ma mai de jure.
Questa situazione armistiziale provvisoria si protrasse fino al 5 giugno 1967, quando il governo israeliano attaccò l’Egitto, che contemporaneamente si era unito politicamente alla Siria nella Repubblica Araba Unita. L’attacco seguì la decisione del presidente egiziano Nasser di bloccare lo Stretto di Tiran e di spostare le sue forze nel Sinai. Israele immediatamente si appellò alla Giordania, invitandola ad evitare il coinvolgimento nel conflitto, ma la risposta fu, lo stesso giorno, l’attacco al territorio israeliano, compreso il settore di Gerusalemme controllato da Israele.
L’esito del contrattacco israeliano fu la conquista in sei giorni e la successiva occupazione della Penisola del Sinai, della Striscia di Gaza, delle Colline del Golan e dei territori nella sponda occidentale del fiume Giordano.[5] Quest’ultima area, definita come West Bank o Cisgiordania (secondo l’antico nome ebraico: Giudea e Samaria), includeva anche la parte orientale di Gerusalemme, che era stata controllata dal 1948 dai giordani.
Il periodo successivo fu caratterizzato da fasi cruente di conflitto, falliti tentativi di conciliazione e momenti di relativa calma. Tra quest’ultimi va ricordata in particolare, il 17 settembre 1978, la firma alla Casa Bianca dell’Accordo-quadro per la pace in Medio Oriente. L’Accordo-quadro, negoziato a Camp David, fu firmato dal presidente egiziano Muhammad Anwar Al-Sadat e dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin, con la testimonianza del presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter.
Ma soltanto nell’ottobre del 1991 gli Stati Uniti e l’ex Unione Sovietica sono riusciti a mettere intorno ad un tavolo israeliani e palestinesi – inizialmente parte di una delegazione giordano-palestinese – in occasione della Conferenza di Pace di Madrid.
Gli anni novanta sono particolarmente importanti in quanto il processo di pace iniziato, appunto, con la Conferenza di Madrid, assume dei caratteri rilevanti portando alla stesura di vari ed importanti Accordi di pace, come quello di Oslo del 1993 siglato tra il governo israeliano e l’OLP, l’Accordo Fondamentale tra la Santa Sede e Israele dello stesso anno, l’Accordo Base tra la Santa Sede e l’OLP di qualche anno dopo (politicamente rilevanti per i riferimenti contenuti nelle rispettive disposizioni allo Status Quo dei Luoghi Santi di Gerusalemme, di cui parleremo dopo, anche se formalmente tali accordi non costituiscono parte integrante del processo di pace iniziato con la Conferenza di Madrid), la Dichiarazione di Washington del 1994 tra Israele e Giordania con il successivo Trattato di pace israelo-giordano del 26 ottobre 1994, l’Accordo Provvisorio israelo-palestinese sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza del 1995 e quello finora più importante, ovvero quello costituito dalla Roadmap (Performance-based Roadmap to a Permanent Two-State Solution to the Israele-Palestinian Clnflict). La Roadmap specifica uno scadenzario e i passi che le due parti devono intraprendere per raggiungere un accordo, sotto gli auspici del Quartetto, composto da Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite e Russia. Secondo la Roadmap, le parti avrebbero dovuto raggiungere un accordo finale e generale sullo status permanente per porre termine al conflitto israelo-palestinese nel 2005.
Questo accordo, secondo un articolo della Roadmap, avrebbe dovuto includere una soluzione negoziata per lo status di Gerusalemme, che tenga in considerazione le preoccupazioni politiche e religiose di entrambe le parti e protegga gli interessi religiosi di ebrei, cristiani e mussulmani di tutto il mondo.

2) Infatti Gerusalemme è una città che rappresenta un’antica eredità e che ha influenzato i processi centrali del pensiero delle più importanti civiltà durante i secoli; una città considerata da tempo immemorabile, un luogo di significato religioso per gli aderenti di tre religioni mondiali, ciascuna delle quali vi cercava, e vi cerca ancora, la protezione dei propri interessi.
Detto ciò vogliamo ricordare che Gerusalemme è stata riverita dagli Ebrei per 3000 anni, dai Cristiani per quasi 2000, e dai Mussulmani per più di 1300 anni e che molti degli edifici sacri costruiti nella città rappresentano anche una comune eredità delle tre religioni.
Eppure, nonostante ciò, Gerusalemme è stata assediata e conquistata una miriade di volte durante la sua storia millenaria.
All’interno della città, il re David e Salomone hanno regnato sul “popolo eletto”, i Romani vi hanno crocifisso Gesù, e il profeta Maometto, in questa stessa città, fece conoscere il pensiero dell’Islam.
Ma perché questi tre popoli considerano questa città, santa? I motivi sono tanti, ma forse quelli che hanno provocato e provocano ancora tutt’oggi gli scontri tra queste popolazioni, possono essere sintetizzati come i seguenti:
gli ebrei considerano Gerusalemme una città santa perché essa fu il loro centro politico e religioso nei tempi biblici. Intorno al 1000 a.c. il re David stabilì che Gerusalemme sarebbe stata la città capitale della comunità israelita. E poi il re Salomone, figlio di David, vi costruì il primo sacro Tempio degli ebrei.
I Cristiani, invece, riconoscono Gerusalemme come città santa perché Gesù vi fu crocifisso e gran parte della sua vita si è sviluppata proprio intorno alla città.
Per quanto riguarda i Mussulmani, essi credono che Maometto salì al cielo da Gerusalemme, facendo di essa la terza città dopo La Mecca e Medina in Arabia Saudita.
Quindi, di conseguenza, questa città era ed è rimasta storica e sacra ed ha occupato sempre una posizione centrale per le culture dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam.
Poi la varietà degli interessi religiosi – Mussulmani, Cattolici, Ebrei, Ortodossi, Armeni, Copti, Abissini, Siriani, Anglicani e altri Protestanti, senza contare le istituzioni costituite dalle comunità religiose d’Europa, Asia, Africa e delle Americhe – richiedeva qualche forma di ordine e di protezione.
Nel 1757, dunque, fu stabilito a questo fine il cosiddetto Status Quo. Così, il potere temporale mussulmano, nel complesso, non interferiva con l’amministrazione dei Luoghi Santi, anche se non mancavano rivendicazioni e contro-rivendicazioni.
Questo sistema non cambiò molto sotto il Mandato britannico[6], che specificava, all’articolo 13, che il mandatario avrebbe dovuto preservare i diritti esistenti in relazione ai Luoghi Santi. Ma non mancarono, talvolta, come nel 1929 (anno della prima rivolta araba), seri disordini.
Ma che cosa significa Status Quo? Questa espressione, usata di frequente sia nel linguaggio politico-diplomatico che in quello giuridico, sta letteralmente ad indicare la conservazione di una determinata situazione esistente. L’originale locuzione latina, dalla quale questa espressione trae origine, era in statu quo ante, ovvero nello stato in cui le cose erano prima che qualche avvenimento le mutasse. L’espressione originale, era, dunque, statu quo, mentre oggi si utilizza comunemente la formula status quo, utilizzando il sostantivo latino status (ossia condizione, situazione) al nominativo ed il pronome relativo quo all’ablativo.
Nella prassi amministrativa statale come nella teoria del diritto internazionale, l’espressione iniziò ad essere usata in riferimento agli effetti giuridici successivi ad una guerra. Alla fine dello stato di belligeranza due differenti possibilità di soluzione venivano generalmente prese in considerazione: una di esse contemplava la restaurazione della situazione precedente la guerra (status quo ante bellum o status quo tunc); l’altra definiva la situazione dei belligeranti alla fine delle ostilità e rappresentava la base giuridica di un nuovo assetto politico post-bellico (status quo post bellum o status quo nunc), una distinzione applicabile anche in relazione ai Luoghi Santi di Gerusalemme[7].
I Luoghi Santi sono quei santuari ed edifici di culto di particolare importanza, contesi dalle comunità riconosciute a Gerusalemme: il Santo Sepolcro con tutti i suoi edifici annessi, Deir al Sultan, il Santuario dell’Ascensione, la Tomba della Vergine a Gerusalemme, presso Getsemani, e la Chiesa della Natività a Betlemme.
Per quanto può sembrare strano, tuttavia, nessun diritto e nessun ordinamento giuridico applicato nell’area nei tempi, contiene una definizione di Luogo Santo. Vari accordi diplomatici, invece, hanno contribuito a dare una certa rilevanza internazionale al compromesso fra le differenti comunità nei Luoghi Santi.
Tra gli esempi recenti, il più significativo è costituito dall’articolo XI del Trattato di Pace tra Israele e Giordania firmato il 26 ottobre 1994. Questo articolo, dedicato ai luoghi di importanza storica e religiosa ed alle relazioni interconfessionali, dispone che ognuna delle due parti avrebbe dovuto garantire la libertà di accesso ai luoghi di importanza storica e religiosa.
Il successivo comma dello stesso articolo XI aggiunge a questo riguardo, in conformità con la citata Dichiarazione di Washington del 1994 tra Israele e Giordania, che Israele avrebbe rispettato l’attuale ruolo speciale del Regno Hascemita di Giordania nei luoghi sacri mussulmani a Gerusalemme.
Il terzo comma dello stesso articolo contiene, invece, l’impegno delle parti, di agire insieme per promuovere le relazioni interconfessionali fra le tre religioni monoteistiche, con lo scopo di lavorare in favore della comprensione religiosa, l’impegno morale, la libertà del culto religioso, la tolleranza e la pace[8].

3) Arrivando all’ultima parte di questo studio, analizziamo quale potrebbe essere il ruolo che l’Italia potrebbe svolgere in questa complicatissima questione, soprattutto quello su Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi, che rappresenta, secondo l’Autore, la più delicata e controversa dei negoziati di pace arabo-israeliani, che ha bloccato le trattative tra Arafat, Barak e Clinton a Camp David nel 2000.
Ricordiamo che nella conferenza stampa a Palazzo Chigi del 2 dicembre 2005 con il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, aveva accettato la proposta italiana di far svolgere ad Erice i negoziati di pace israelo-palestinese. L’8 gennaio 2006 il Presidente del Consiglio italiano aveva rinnovato la sua proposta su Erice anche in un articolo pubblicato su un giornale israeliano per manifestare la sua solidarietà in occasione dell’improvvisa malattia dell’ex Primo Ministro israeliano Sharon[9].
Nel contesto dei Luoghi Santi, il governo italiano potrebbe prendere l’iniziativa, in coordinamento con gli altri membri dell’Unione Europea e d’accordo con gli altri partner del Quartetto, di dichiarare alle parti la sua disponibilità ad organizzare una serie di incontri, con la partecipazione dei principali esperti specializzati su alcuni aspetti della complessa questione di Gerusalemme e dei Luoghi Santi.
Questi incontri potrebbero essere focalizzati esclusivamente su alcune ben definite questioni tecnico-giuridiche relative alla delicatissima materia, senza alcun mandato per negoziare gli aspetti politici o competenza a prendere decisione per conto dei rispettivi governi. Allo stato attuale soltanto le parti stesse, ossia i rappresentanti del governo israeliano e palestinese, possono condurre direttamente tali negoziati e gli interventi esterni possono solo contribuire, nella migliore delle ipotesi, a chiarire aspetti terminologici o definire le possibili opportunità tecnico-giuridiche offerte dalla prassi diplomatica e dal diritto internazionale.
Vista la nuova situazione politica determinatasi dopo le elezioni palestinesi del 2006 vinte dal movimento islamico Hamas[10], non è possibile prevedere quando i negoziati diretti tra le parti potranno realisticamente tornare all’ordine del giorno dell’agenda diplomatica e l’organizzazione di questi incontri potrebbe essere, davvero, l’unico tipo di attività diplomatica realizzabile tra le parti.[11]
Va ricordato inoltre che i negoziati israelo-palestinesi sono sempre stati condotti dal governo israeliano da una parte e dall’OLP dall’altra, mentre l’Autorità Palestinese, sui cui organi oggi pesa il controllo politico di Hamas, è un ente privo di soggettività internazionale, creato in applicazione dei citati Accordi di Oslo.
Il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha recentemente ribadito attraverso canali diplomatici con il governo israeliano che, nonostante la vittoria di Hamas nelle elezioni parlamentari, l’OLP – e non l’Autorità Palestinese – resta l’ente che ha firmato tutti gli accordi precedenti con Israele e che è ufficialmente responsabile di condurre i negoziati diplomatici. Quindi questi incontri, per concludere, potrebbero davvero facilitare il futuro lavoro diplomatico dei negoziatori sugli aspetti più controversi del conflitto sulla città.

Alla luce di tutto questo, da molte parti del mondo ci si chiede ancora, con grande ed anche comprensibile angoscia, come mai, dopo tanti tentativi, tanti sforzi e soprattutto tanti anni di storia, non si è riusciti ancora a risolvere il problema israeliano-palestinese, oggi noto, tristemente, come “conflitto arabo-israeliano”. Eppure, alla luce anche di quanto scritto nella prima parte di questo studio, non possiamo non dire che non ci siano stati momenti in cui la soluzione sembrava vicina; non possiamo non dire che non ci siano stati svariati tentativi per risolverlo, cosicché oggi questa soluzione appare, se non impossibile, molto lontana. Forse se ci fosse un maggiore impegno delle due parti in conflitto e un intervento ancora più determinante e pressante degli Stati Uniti e della Comunità Internazionale in generale, la soluzione potrebbe davvero trovarsi. Questo dipende, anche e soprattutto, dal fatto che esistono, da una parte e dall'altra, dei gruppi che, per motivi (soprattutto) religiosi, non riescono ad accettare che in Palestina ci siano due Stati, quello israeliano e quello palestinese, perché ciò comporterebbe una divisione di questo territorio che, invece, per una certa concezione “divina”, è tutto di un popolo (ebrei) o tutto dell’altro (palestinesi). E quindi, alla fine, questi gruppi che sostengono e difendono questo “principio sacro” ricorrono alla lotta armata e soprattutto alle azioni terroristiche che, purtroppo, non in tutto il mondo islamico sono condannate, come invece dovrebbero essere; anzi in Palestina i cosiddetti “martiri” di Hamas[12] sono anche esaltati da una notevole parte della popolazione. E questa cosa è molto triste, perché il terrorismo suicida, se da una parte danneggia l'islam come religione, facendolo apparire come una religione che incoraggia e giustifica l'assassinio di persone innocenti con la promessa del Paradiso, dall'altra nuoce alla popolazione palestinese, aggravando ancora di più la sua situazione politica ed economica, perché ad ogni attentato terroristico di Hamas, ovviamente, c’è una risposta israeliana, che risulta essere altrettanto spaventosa e crudele. Così Hamas, oggi, dopo le ultime elezioni del 2006[13], dove ha ottenuto il consenso della maggioranza della popolazione, rappresenta un grosso ostacolo per la risoluzione del problema palestinese, avendo anche la capacità di influire su ogni accordo di “pace” (presente e futuro) che possa prevedere la costituzione di due Stati, rendendo, quindi, ancora più difficile l’unica soluzione realistica del problema.

Questa è la storia (in sintesi) della questione palestinese e di Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi in particolare, la storia della lotta per “Eretz Yisrael” che inesorabilmente continua nei giorni nostri a uccidere israeliani e palestinesi, è la vera guerra ebraica che si combatte in Israele/Palestina, perché come disse il rabbino capo Tzvi Yehuda Kook (1865-1935), figura di primo piano del sionismo religioso che considerava sacra la riconquista della patria ancestrale da parte del movimento laburista: “the Land was chosen before the people”.

[1] Con l’inizio della 1ª Guerra Mondiale e a seguito dello schieramento della Turchia con le Potenze Centrali, i paesi europei (Francia, Gran Bretagna e Russia) cominciavano a fare accordi per la futura spartizione del territorio dell’Impero Ottomano, oramai in decadenza dal 1686, ed il primo accordo fu quello di Costantinopoli del 1915. In quell’anno la Gran Bretagna, ancora unica potenza europea presente nel Medio Oriente stringe un accordo con la famiglia araba più potente, la famiglia Hascemita, promettendo la creazione di un grande stato arabo in cambio del loro aiuto a mandar via i turchi ottomani da quel territorio, appunto lo scambio di lettera McMahon-Hussein.
[2] Termine con il quale si indicava l’insediamento ebraico organizzato in Palestina.
[3] Il Presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Yasser Arafat, durante i negoziati di pace israelo-palestinese tenuti segretamente ad Oslo, non dimenticò questo pericoloso precedente della Conferenza di Gerico quando insistette che Israele si sarebbe dovuto ritirare non soltanto da Gaza, ma anche dalla stessa Gerico, probabilmente anche per prevenire nuovi tentativi di influenza giordana sulla Cisgiordania.
[4] Vedi S.Slonim, Jerusalem in America’s Foreign Policy, The Hague, 1998, p. 160. Per un’analisi delle azioni giordane dal punto di vista del diritto internazionale vedi, tra gli altri, E. Molinaro, Gerusalemme e i Luoghi Santi, “la Comunità Internazionale”, vol. 49, n. 2, 1994, pp. 254-255
[5] Ancora oggi sussistono diverse opinioni in relazione alla legittimità o meno dell’azione israeliana come un atto di aggressione, infatti ci si chiede se la guerra del 1967 abbia potuto segnare l’inizio di una politica espansionistica di Israele nei confronti del popolo palestinese. Infatti mentre agli occhi dell’opinione pubblica internazionale del tempo, la guerra che ha portato alla nascita di Israele era considerata giusta, o quantomeno moralmente accettabile, viste le sofferenze e persecuzioni che il popolo ebraico aveva subito durante la Seconda Guerra Mondiale, il conflitto del ’67 appariva in una luce completamente diversa. Vi era una differenza morale tra la conquista di territori strappati agli arabi con la guerra d’Indipendenza e quelli occupati (e in piccola parte annessi unilateralmente) durante la guerra dei Sei giorni: le motivazioni erano completamente differenti. Mentre le conquiste ottenute del 1949 rappresentavano la base e condizione essenziale per la fondazione del nuovo Stato ebraico, il tentativo di conservare e ampliare i territori esclusivi nella West Bank e a Gaza aveva un forte sapore di espansione imperiale.
Per il sionismo, e per la sua ideologia di liberazione, era più che legittimo e giustificato dalla storia e dalla Bibbia, cercare di riscattare l’intera area di Eretz Yisrael, conseguendo i diritti del popolo ebraico nella propria patria biblica. Proprio questo diritto storico sulla Palestina, abilmente sfruttato come propaganda e argomento di politica internazionale, fu invocato e rivendicato con il fine di assicurarsi un rifugio, considerate le condizioni che gli ebrei avevano dovuto sopportare all’inizio del XX secolo dopo i reiterati pogrom nell’impero russo.

[6] Alla fine della 1ª Guerra Mondiale, tutti i territori che erano parte dell’Impero Ottomano, oramai disgregato, furono assegnati dalla Società delle Nazioni, sotto forma di Mandati, ai vari Paesi Europei, ed il territorio della Palestina fu assegnato alla Gran Bretagna.
[7] Secondo il MOLINARO, esistono tre differenti significati di Status Quo: Status Quo nei Luoghi Santi in senso stretto che è un’espressione latina che si riferisce al regime giuridico temporaneo applicabile alle contrastanti rivendicazioni sui rispettivi diritti ed interessi nei più importanti luoghi di culto nell’area di Gerusalemme (inclusa Betlemme); Status Quo culturale-religioso che definisce, in generale, gli aspetti culturali e religiosi della città, incluse le relazioni tra le comunità riconosciute da un lato e le autorità territoriali dall’altro; Status Quo politico-territoriale che definisce l’equilibrio dei poteri a Gerusalemme tra arabi e israeliani, in attesa che le parti del negoziato trovino una soluzione permanente sul conflitto territoriale relativo all’amministrazione della città.

[8] Per un’ulteriore analisi vedi E. MOLINARO, Gerusalemme e i Luoghi Santi nel conflitto arabo-israeliano.
[9] S. BERLUSCONI, Speciale to Haatetz/Sharon recognized the best path for his country, “Ha’aretx, 8 gennaio 2006: www.haaretz.com.
[10] Di questo Movimento si accennerà qualcosa nell’ ultimissima parte di questo studio descrivendo anche il nuovo sistema elettorale palestinese.
[11] Questa proposta è stata presentata dal Dott. Enrico MOLINARO (tra i maggiori esperti e studiosi italiani della questione palestinese, in particolare della questione di Gerusalemme, e con il quale l’Autore collabora) nel corso della conferenza su “Il ruolo dell’Italia e dell’Europa per lo sviluppo del nascente Stato palestinese”, tenutasi a Minturno, presso Latina, il 29 ottobre 2005 (e che ha visto la partecipazione di giornalisti, deputati europei di diversi partiti ed esperti) ed è sintetizzata in un’intervista rilasciata dallo stesso a Z. Aceto e pubblicata sul quotidiano “La Provincia” il 1 novembre 2005 con il titolo Una Strada per Gerusalemme.
[12] Movimento fondamentalista islamico che si ispira al Movimento dei Fratelli Musulmani (fondato in Egitto nel 1928 da un maestro di scuola Hasan Al-Banna). Esso è nato nel dicembre del 1981 al tempo della prima Intifada (sollevazione) dei palestinesi contro gli israeliani, in seguito all’uccisione di un colono israeliano, pugnalato in un attentato del Jihad Islamico e alla successiva reazione ebraica, particolarmente dura.
[13] Il sistema elettorale palestinese: dopo la riforma approvata nel 2005, il Consiglio Legislativo Palestinese è composto da 132 membri, eletti con un sistema misto. Metà dei seggi (66) vengono assegnati attraverso il sistema proporzionale a liste concorrenti, con sbarramento al 2%. L’assegnazione dei seggi avviene su base nazionale (tutto il territorio palestinese costituisce un’unica circoscrizione elettorale). Ogni lista è obbligata, per legge, ad includere un certo numero di donne. I restanti 66 seggi vengono assegnatisi base locale, con sistema maggioritario. Il territorio è suddiviso in 16 distretti (11 in Cisgiordania e 5 nella Striscia di Gaza): ogni distretto elegge un numero di rappresentanti proporzionale alla sua popolazione. All’interno di ogni distretto, vengono eletti i candidati che ricevono il maggior numero di preferenze, indipendentemente dalla percentuale ottenuta dalla lista di appartenenza. 6 dei 66 seggi assegnati in questo modo sono riservati a candidati cristiani (2 a Gerusalemme, 2 a Betlemme, 1 a Ramallah e 1 a Gaza).
Per ulteriori informazioni, l'indirizzo e mail della Rivista Il Secondo Risorgimento d'Italia è risorgimento23@libero.I

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