Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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sabato 16 gennaio 2010

FIRENZE
23 OTTOBRE 2008
Soldati Italiani sulla Linea Gotica
Intervento
Massimo Coltrinari

Il quesito che ha posto il gen. Poli, ovvero rispondere alla domanda: perché i tedeschi si sono difesi su un simulacro di linee difensive nell’alta pianura romagnola e non nella valle del Po o sulle Alpi, trova il suo primo fondamento di risposta in alcune considerazioni che si possono fare analizzando il comportamento della Germania nella gestione della crisi armistiziali Italia del settembre 1943.
La Germania era ben conscia che l’Italia, nella primavera del 1943 non aveva i mezzi per continuare la lotta ed il fascismo, sia come regime che come movimento, aveva, come ben nota lo Zangrandi, aveva esaurito ogni sua energia. Fu un crollo prima che materiale psicologico e motivazionale. Nessuno in Italia era più in grado, anche volendo, di sostenere Mussolini e questo è dimostrato dall’azione dei gerarchi, che poi divennero i “traditori” del 25 luglio ed alcuni fucilati a Verona l’11 gennaio 1944, da un Tribunale Speciale della Repubblica Sociale Italiana. I piani tedeschi per assorbire l’uscita dell’Italia della guerra erano pronti da tempo. Hitler e l’OKW avevano già preordinato questa uscita creando due comandi, quello di Rimmel nella Italia settentrionale e quello di Kesserling nell’Italia meridionale, considerando persa in partenza l’Itala Centro meridionale tanto che fin dall’agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla 10a Armata del generale Vietinghoff. La difesa avanzata del fronte meridionale della Germania era sugli Appennini, mentre quella vera e propria doveva svolgersi sulle Alpi, da sempre il baluardo meridionale del mondo germanico. Lo stesso comportamento di Rommel nei giorni postarmistiziali, e di tantissimi altri tedeschi in Italia, era orientato a questo. Tutto era preordinato, ma come al solito i piani non corrisposero alla realtà
La Germania fu sorpresa dalle modalità dell’uscita dell’Italia, anche lei si fece trovare impreparata nei dettagli e nel contingente ad affrontare la situazione. In questa incertezza, ebbe gioco in modo oltre il preventivato l’azione del maresciallo Kesserling, che si trovo ad agire d’iniziativa senza il controllo dell’OKW e di Hitler. La prima mossa fu quella di bloccare la via di Fiumicino e il progetto Reale di raggiungere la Sardegna. Poi vi è tutta la vicenda della fuga a Pescar-Brindisi, da parte del vertice governativo-militare italiano, aspetto questo estremamente controverso in cui non si vuole entrare, che diede a Kesserling il grande vantaggio di agire senza l’opposizione delle forze armate italiane. Che le forze italiane non si opposero ai tedeschi non avendo ordini dall’alto è un dato oggettivo e questo lo si ebbe per 48 ore. Badoglio, giunti a Brindisi emana alle ore 11 del 11 settembre 1943 da Radio Bari. Vi furono episodi isolati, grandi moralmente, eccezionali per la prospettiva futura e per la dignità di noi italiani, ma Kesserling ebbe modo di non solo conseguire il risultato che si era promesso, ovvero quello di recuperare e salvare il maggior numero dei soldati tedeschi stanziati nella Italia centro meridionale. Ma riuscì anche ad ottenere di più, ovvero quello di contrastare e contrattaccare le forze alleante che stavano sbarcando in continente.
Kesserling occorre ricordarlo, riuscì a ritardare l’avanzata dell’8a Armata britannica, fino quando necessario per portare in salvo la 15ma Divisione Granatieri Corazzati e la 16ma Divisione Corazzata che l’8 settembre 1943 si trovavano in Calabria; ad impadronirsi quasi senza colpo ferire di Roma, ed ad assicurare il possesso per 8 mesi: a contenere la testa di ponte di Salerno per il tempo necessario a costituire una posizione difensiva continua dall’Adriatico al Tirreno, la linea Reinhardt, che nel settore occidentale s’impegnava sulla stretta di Mignano. Proprio in uno dei convegni organizzati dalla Associazione combattenti della Guerra di Liberazione, da parte del gen. Boscardi si sostenne la tesi, ben documentata, che se non ci fossero stati i combattimenti di Porta San Paolo le divisioni tedesche impegnate dagli Italiani a Roma sicuramente sarebbero giunte in tempo a Salerno e influire positivamente sull’andamento dello sbarco dal punto di vista tedesco.
Ancora maggiore sarebbero stati i risultati positivi qualora Hitler e l’OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due divisioni richieste fin dal mese di agosto. Queste divisioni avrebbero potuto giungere in forze in molto meno di sei giorni. Ma all’indomani dell’annuncio dell’armistizio con l’Italia già l’8a Armata stava avvicinandosi a Potenza e la 7a divisione corazzata (britannica) e la 3a divisione (statunitense) la testa di sbarco. La battaglia per la testa di ponte sarebbe durata più a lungo ma nella sostanza, a Salerno, il risultato non sarebbe, con l’intervento di queste due divisioni da terra, probabilmente cambiato. La differenza si sarebbe fatta sentire poco più tardi. Kesserling avrebbe potuto resistere a sud di Napoli ed essere in grado di tenere quell’importante porto e gli aeroporti di Foggia finché l’inverno non fosse intervenuto in suo soccorso. Sempre nel campo delle probabilità, quello che sarebbe stato e non fu, con la resistenza di Kesserling a sud di Napoli, i capi di stato maggiore britannici avrebbero perduto la causa e gli statunitensi avrebbero preso il definitivo sopravvento nelle decisioni. La decisione di Kesserling di ritirarsi sul Volturno attirò gli alleati come una calamita e creò quella situazione che il gen. Marschall aveva sempre temuto. Sarebbero stati i tedeschi a tenere impegnate il maggior numero di divisioni alleate e non viceversa.
Questo, sommato agli errori tattici dei Comandi Alleati, quali la scelta sbagliata delle località di sbarco, la punta della Calabria e la zona di Salerno, troppo a sud per aggirare le possibili difese tedesche, (uno sbarco a nord di Roma, ancorché fuori dalla copertura aerea, in presenza di una scarsa presenza aerea tedesca, era un rischio calcolato che poteva essere corso), e dalla mancata realizzazione della sorpresa, che condussero una campagna lenta frammentaria ed indecisa, permise a Kesserling di tenere il più possibile a sud di Roma, e non di Napoli, il fronte tedesco. Sempre un successo.
Le difese dell’Appennino tosco-romagnolo, che dovevano essere investite e tenute per un breve periodo nel settembre- ottobre 1943, furono raggiunge dagli Alleati solo a settembre-ottobre 1944, 12 mesi dopo del preventivato e , con il sopraggiungere dell’inverno, non furono superate.
Nel quadro generale della campagna d’Italia, quindi, queste difese rappresentano il migliore rapporto tra costo ed efficacia. Se da una parte esse assorbirono 10 divisioni che potevano essere utilizzate sul fronte occidentale e affittire le difese del vallo atlantico, dall’altra furono il minor presso da pagare per tenere gli alleati lontani dalla Germania, in attesa che la decisone sull’esito della guerra si palesasse sul fronte orientale.

Le difese sull’Appennino tosco-emiliano tennero e sarebbero state più produttive se Hitler non avesse insisto nella sua fissazione della difesa ad oltranza e della manovra di arresto.
Quando Kesserling cedette il comando a Vietinghoff il 9 marzo 1945 era chiaro che gli alleati stavano per sferrare una offensiva su larga scala.Vietinghoff non era Kesserling e non godeva delle simpatie presso Hitler come il maresciallo. Non ebbe la forza di convincere Hitler ad autorizzarlo a passare dalla manovra di arresto alla manovra in ritirata, da fiume a fiume e negò anche l’arretramento sul PO, proposto il 14 aprile, che segnò la fine della difesa tedesca in Italia. Quanto il 20 aprile 1945 questa autorizzazione giunse era ormai troppo tardi.
Quindi alla domanda posta dal generale Poli: perché i tedeschi si sono difesi sull’Appennino tosco-emiliano e non sul Po o sulle Alpi, si può rispondere in un modo che quanto detto ne traccia già le linee guida: I tedeschi si sono difesi in Italia già dall’8 settembre il più a sud possibile, consci che la Germania doveva avere il tempo per vincere la guerra in Russia,. Perché era lì che la guerra si decideva.
Ogni linea in Italia era una linea di difesa di arresto temporaneo e in qualche caso con la possibilità di reazioni dinamiche, tutte brillantemente sfruttate. Se Kesserling fosse rimasto in Italia ed agito per manovrare in ritirata sicuramente le forze tedesche avrebbero passato il Po in modo più o meno ordinato e si sarebbero attestate sulle Alpi, ove le avrebbero raggiunti la notizia della resa, su posizioni organizzate a difesa.
La campagna dei tedeschi in Italia, quindi conclusasi con la capitolazione, fu sotto il profilo tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Non si può dire altrettanto della campagna d’Itala dei Comandi Alleati, che come già accennato la condussero tra errori e incapacità.
La campagna d’Italia fu la cartina di tornasole del dissidio tra Statunitensi e Britannici. I primi volevano, ed ottennero, di adottare una strategia diretta, ovvero concentrare tutte le forze sul fronte francese, da aprire al più presto, e puntare il più velocemente su Berlino e porre fine alla guerra; i secondi cultori della strategia indiretta volevano attaccare si dalla Francia ma anche dall’Italia, per puntare su Vienna e raggiungere il cuore d’Europa nel più breve tempo possibile. Il risultato di una campagna condotta male e con risultati scarsi e deludenti.
A chi giovò maggiormente, ai tedeschi o agli Alleati?. Per la Germania la campagna era stata una necessità assoluta. L’abbandono dell’Italia avrebbe consentito piena libertà di movimento agli Alleati sia in direzione della Francia che in quella dell’Austria e dei Balcani ed avrebbe offerto loro la disponibilità di basi aeree ravvicinate per bombardare la Germania meridionale e l’Austria e minacciare le vie di rifornimento e gli arroccamenti fra la fronte occidentale e quella orientale.
Per gli Alleati la campagna d’Italia fu una libera scelta per perseguire fini strategici rimasti, però, sulla carta. La tattica usata dagli alleati fu del tutto inadeguata, nonostante che non mancassero loro forze e mezzi aerei, navali ed anfibi per dare vita a manovre ampie e profonde che eludessero o riducessero gli sforzi frontali. Sul piano tecnico-militare, perciò, mentre i tedeschi raggiunsero nel corso dell’intera campagna il massimo risultato conseguibili in quella situazione, gli Alleati non ottennero quanto virtualmente avrebbero potuto e offrirono,tutto sommato, un saggio scadente , non già del valore dei loro soldati, ma della loro abilità manovriera. Ma portavano la Libertà e la Democrazia, ed ovunque furono accolti come liberatori. Commisero errori strategici e tattici addirittura grossolani, e conclusero vittoriosamente la campagna solo per la loro schiacciante superiorità materiale. Ma avevano dalla loro il nuovo, il futuro, il fatto che combattevano contro il regime del genocidio, e questo diede loro tutto l’appoggio della popolazione in cui operavano, quella italiana.
Questi gli aspetti della Campagna d’Italia da parte di Eserciti estranei a noi italiani, Campagna d’Italia che occorre sempre differenziare dalla guerra di Liberazione, che intendiamo come secondo risorgimento d’Italia nell'approccio che abbiamo adottato[1].


Dato infine che questo è un convegno dedicato ai soldati italiani sulla linea gotica occorre a questa relazione fare una postilla, che va oltre la domanda posta dal gen. POLI. Un convegno dedicato ai militari Italiani sulla linea gotica non può dimenticare quei soldati italiani che come prigionieri cooperatori erano inquadrati nelle Unità da combattimento britanniche e statunitensi, nella ISU e nelle BTU. L’esempio della testa di ponte di Anzio è troppo noto. Se si parla di gruppi di Combattimento, di salmerie da combattimento, di tutto e di più, occorre rammentare anche questi soldati che, occorre ricordare erano sotto giurisdizione alleata e non italiana, ma che al momento della fine della guerra, nella smobilitazione alleata, senza soluzione di continuità ritornarono sotto giurisdizione Italia e furono coloro che, ricevendo tutto il materiale che gli alleati ci lasciarono diedero vita alle Forze Armate del dopoguerra. La loro azione meriterebbe una maggiore attenzione almeno da parte nostra.



[1] Coltrinari M., La Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti 1943-1945, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2010

mercoledì 6 gennaio 2010

Gruppi di Combattimento
Poggibonsi non dimentica la Guerra di Liberazione

Venerdì 8 gennaio ricorre il 65° anniversario della partenza dei gruppi di combattimento Centootto i poggibonsesi che aderirono al nuovo esercito italiano, tutti quanti decorati con le croci al merito Ricorre venerdì 8 gennaio il 65° anniversario della partenza dei volontari di Poggibonsi per i gruppi di combattimento del nuovo esercito di Liberazione nazionale. Furono 108 i poggibonsesi che proprio l’8 gennaio 1945 partirono e che ricevettero, a liberazione finita, le Croci al Merito. Alla fine si ebbero 4 feriti e due morti, un volontario decorato con la medaglia di bronzo al Valor Militare e tre con la croce di guerra al Valor Militare.Il gruppo dei poggibonsesi comprendeva alcuni antifascisti perseguitati durante il Ventennio, i partigiani che già avevano combattuto alla macchia, e anche alcuni giovani minorenni che cercavano di alterare la data di nascita per essere arruolati. Dopo essere stati selezionati al centro di raccolta di Cesano di Roma vennero destinati ad integrare i gruppi di combattimento “Cremona”, “Friuli”, “Legnano”, “Mantova” e “Piceno”, dove svolsero la loro missione fino alla fine della guerra.In tutta l’operazione fu importante il ruolo svolto dall’Amministrazione Comunale di allora, sia sotto il profilo organizzativo sia per quanto riguarda il sostegno morale attraverso il massimo appoggio dato non solo all’iniziativa ma anche a tutte le famiglie dei ragazzi che partivano.Da ricordare come, nel 1983, i soldati del gruppo di combattimento “Cremona” siano stati insigniti della cittadinanza onoraria di Alfonsine (Ravenna), decorata con la medaglia d’argento della Resistenza, per aver liberato la città.
Una ricerca in corso
Il caso della Torpedinieria Rosolino Pilo
(chiunque avesse uleriori notizie o documenti in merito può contattare la Redazione della Rivista "Il Secondo Risorgimento d'Italia, e mail risorgimento23libero.it)
Egregio Dott. Coltrinari ,

faccio seguito alla mia telefonata del 7 ottobre scorso e la ringrazio peraver prestato attenzione alle mie richieste di chiarimento circa alcune vicende accadute il 25 settembre 1943 sulla torpediniera Rosolino Pilo.
Ho letto con molto interesse e passione la sua relazione “Albania: il caso della Perugia e della Brennero”, inserito in Annali del Dipartimento di Storia 2/06 – Università Tor Vergata di Roma.
Devo rilevare con piacere che nel paragrafo 2.5, “La reazione tedesca e l’imbarco per l’Italia”, sono narrate con una certa dovizia di particolari le vicende accadute ad alcuni reparti della Brennero nei giorni 25 e 26 settembre 1943, nonché alcuni episodi avvenuti a bordo della nave Rosolino Pilo.
Le comunico che il sottoscritto, unitamente all’amico Leoni, si è da diversi anni prodigato per raccogliere documenti e testimonianze circa la nota impresa, che oppose eroicamente il 25 settembre 1943 l’equipaggio del R. Pilo al picchetto di scorta tedesco che presidiava la nave. Questo gesto è ricordato anche da lei nel paragrafo 2.5 unitamente ad una breve sintesi della lotta tra i nostri marinai e i soldati tedeschi anch’essi imbarcati.
La informo inoltre che mio padre Francesco e lo zio di Leoni furono entrambi arruolati nella regia marina e imbarcati sulla torpediniera Pilo. Lo stesso signor Leoni ha avuto modo di partecipare a numerosi raduni (4: Casalmaggiore, Bari, Cremona, Chiavari) dei reduci della regia torpediniera e raccogliere direttamente ricordi e testimonianze di quei tragici giorni del 1943.
Il desiderio di far conoscere e di tramandare l’impresa dall’equipaggio del Rosolino Pilo contro la scorta armata tedesca, hanno sicuramente animato, unitamente alle volontà di alcuni reduci, gli sforzi miei e del signor Leoni a questa ricerca che dura oramai da circa otto anni. Tra l’altro, il sottoscritto e il capitano Leoni siamo entrambi ufficiali di complemento in congedo e facciamo parte rispettivamente delle sezioni U.N.U.C.I di Agrigento e di Cremona.
Desidero raccontarle di seguito e in sintesi quanto emerge dalla documentazione e soprattutto dalle testimonianze in mio possesso circa i giorni 25 e 26 settembre 1943, in modo da contribuire a chiarire quanto da lei scritto nel paragrafo 2.5 sul Cap. Pagan della III batteria del 558° gruppo semovente della divisione Brennero.
Per brevità ometto la cronistoria dell’odissea della torpediniera, che ha inizio subito dopo le 18.30 dell’otto settembre 1943, ora alla quale il vice comandante del Pilo apprende “segretamente” dal capo R.T. di bordo della notizia dell’Armistizio, già diramata a più riprese da Radio Londra. Le peripezie dell’equipaggio di quei giorni sono oramai note quasi con cadenza oraria fino al 10 settembre 1943, giorno del furibondo conflitto a fuoco che l’equipaggio del Pilo, unitamente a quello della torpediniera Missori e del P.fo Marco, mosse nel porto di Durazzo contro le postazioni armate tedesche.
Riguardo a questi eventi, le testimonianze dei reduci, le memorie di Faggioni (MAVM) e il diario autografo dall’allora S. Ten. di Vascello Giovanni Buizza (MBVM), vice comandante della torpediniera, confermano e completano sostanzialmente la ricostruzione fatta dall’Ufficio Storico della M.M. in alcune sue note pubblicazioni su quanto avvenuto in quei giorni nella base di Durazzo. L’evolversi di questi episodi, con particolare riferimento alla Div. Brennero, sono da lei minuziosamente ampliati nel paragrafo 2.1 della relazione sopra citata con nuovi altri contributi di ricerca storica, anche riguardo al mancato intervento nel porto di Durazzo della nostra artiglieria in supporto al già ricordato conflitto a fuoco della mattina del 10 settembre.
Per brevità trascuro vari episodi accaduti nei giorni successivi al 10 settembre 1943, tra i quali il saccheggio del Pilo da parte delle truppe tedesche e l’insensato tentativo di fuga in barca a remi organizzato da alcuni marinai della torpediniera. Riguardo a quest’ultimo episodio, secondo la testimonianza di uno dei reduci che partecipò alla fuga, è sostenuta l’ipotesi che i fuggiaschi furono salvati dalla rappresaglia tedesca da una formazione di “ribelli” albanesi e da alcuni militari italiani, che avevano già con loro fraternizzato.
L’imbarco della Brennero inizia, secondo la testimonianza del reduce Nicola Trovatello, nella tarda mattinata (alle 15.00 secondo il comandante del R. Pilo) del 25 settembre e prosegue per tutto il pomeriggio dello stesso giorno.
I piroscafi utilizzati furono, secondo Faggioni, l’Italia e l’Argentina, nonché l’incrociatore ausiliario Arborea che doveva ricoprire anche il ruolo di unità di scorta. Il convoglio, costituito da cinque navi, parte in direzione di Trieste intorno alle 19.00 del 25 con l’Arborea in testa e con ai lati la torpediniera Missori (verso la costa) e la torpediniera Pilo (verso il mare aperto). Secondo il nocchiere del Pilo Michele Russo il convoglio era invece formato da sette navi, tra le quali sicuramente cinque piroscafi, oltre alle due torpediniere. Quanto sostiene l’anziano reduce sul numero dei piroscafi non si può escludere e potrebbe corrispondere a verità. Infatti, nel porto di Durazzo si trovavano anche il Brumer e il Marco, che potevano essere entrambi utilizzati dai tedeschi. Quest’ultima ipotesi confermerebbe quanto lei scrive nella sua relazione, anche se l’Ufficio Storico della Marina nella sua ricostruzione sostiene che il convoglio era formato da otto navi.
L’animata discussione (lei scrive di richiesta di delucidazioni) tra i due ufficiali della Brennero e il generale della stessa divisione è raccontata molto dettagliatamente nelle memorie del comandante Faggioni. Questo episodio è parte integrante del paragrafo relativo ai preparativi della partenza del Pilo per Trieste, inserito nella relazione scritta nel 1973 dallo stesso comandante della torpediniera. Pare sia stato lo stesso Faggioni a sedare quella lite e ad accogliere sulla sua nave alcuni di questi militari dell’esercito, che stavano per essere dimenticati dal loro generale “in terra straniera”. Questi soldati, provenienti da due battere lontane da Durazzo, erano giunti a piedi al porto, dopo aver percorso numerosi chilometri. La lite o la richiesta di delucidazioni tra il generale e i due ufficiali, purtroppo, non è ricordata da nessuno dei testimoni oculari da me contattati, ma è sicuramente accaduta.
Gli ufficiali comandanti queste due batterie si divisero e s’imbarcarono con i loro uomini sulle torpediniere Pilo e Missori, che erano navi gemelle ed affiancate all’ancoraggio al molo. Riguardo a questi eventi, posso azzardare l’ipotesi che il capitano Pagan fu imbarcato sul Missori. Il tenente Fera della divisione Brennero, che lei indica nello stesso paragrafo 2.5, fu invece verosimilmente sistemato a bordo del Pilo.
Furono di certo imbarcati sul Pilo tra i 20 e i 35 uomini (su questo numero le testimonianze sono discordanti) di una delle due batterie unitamente al sottotenente che li comandava. Verosimilmente, questo sottotenente dell’esercito, trattasi del tenente Fera da lei citato sempre nel paragrafo 2.5. Il tenente Fera (o qualche suo parente), secondo i ricordi del signor Leoni, partecipò presumibilmente al raduno dei reduci della torpediniera Rosolino Pilo, celebrato a Bari il 29 settembre del 1985.
Apprendo con sorpresa dai fatti da lei narrati relativi alla torpediniera Pilo dei suggerimenti dati dal capitano Pagan al comandante Faggioni riguardo al colpo di mano contro le sentinelle tedesche, che potevano essere facilmente sopraffatte in quanto in numero molto esiguo.
Il sopra citato capitano della Brennero, secondo quanto mi è dato conoscere, non risulta essere stato presente a bordo del Pilo. Questo emerge anche dai racconti dei testimoni oculari, dalle memorie di Faggioni (che avrebbe riconosciuto sicuramente un capitano) e dai contatti telefonici avuti di recente con gli ultimi reduci oggi viventi, che escludono sicuramente per quel giorno la presenza di un capitano dell’esercito a bordo della torpediniera. Non posso però tralasciare di riferirle che, secondo la testimonianza dell’allora sotto capo silurista Antonio Mallozzi (CGVM), alcuni militari dell’esercito imbarcati sul Pilo indossavano un abbigliamento accomodaticcio e tale da non poterne in alcuni casi essere individuati chiaramente i gradi.
Le confermo però con certezza che un militare dell’esercito (ufficiale secondo alcuni, sergente per il comandante Faggioni) collaborò con i marinai della torpediniera ad annientare le due sentinelle tedesche che presidiavano la zona di poppa della nave. Purtroppo, il militare della Brennero, nell’oscurità e nella grande confusione che si era creata durante la lotta, fu scambiato per uno dei nemici e involontariamente colpito da alcuni pugni.
L’azione, contro la scorta armata tedesca, scocca poco prima della mezzanotte del 25 al segnale convenuto di sirena antisommergibile. La scelta dell’ora e del tipo di segnale avevano uno scopo ben preciso: disorientare le sentinelle con l’avvistamento di un inesistente sommergibile inglese e disporre, al momento del cambio della pseudo guardia degli italiani, di un più consistente numero di marinai all’intorno dei militari tedeschi, almeno tre italiani per ogni tedesco.
Per brevità tralascio, anche in questo caso, le numerose testimonianze di alcuni di coloro che parteciparono alla lotta contro il picchetto di vigilanza tedesco, che aggiungono molti particolari inediti al racconto redatto dall’ammiraglio G. Tullio Faggioni e alla relazione storica della Marina. Purtroppo, i principali autori del piano d’azione sono tutti deceduti da moltissimi anni ad eccezione forse dell’ex pugile romano Carlo Bossi (MBVM classe 1922), allora sottocapo telemetrista sul Pilo, che malgrado le ricerche avviate su molti fronti non riesco né a rintracciare né a sapere che fine abbia fatto.
Il gruppo organizzatore del colpo di mano studiò tutto nei minimi dettagli, escogitando un curioso espediente che distrasse dalle loro consegne i soldati tedeschi a poppa e a prua. Più difficile fu il compito di chi fu destinato ai tedeschi posizionati in controplancia, dove vi era il comandante del picchetto germanico. Il sottufficiale tedesco fu affrontato con prontezza dal calabrese Filippo Malaspina (MBVM), che nel corpo a corpo gli sottrasse la pistola e gli sparò. Particolarmente drammatici sono i racconti sui tre tedeschi che opposero una minima resistenza e che volarono di peso in mare. Altrettanto commoventi sono i racconti sui quattro giovanissimi tedeschi fatti prigionieri e poi pietosamente medicati. Le tracce dei quattro tedeschi catturati si perdono, purtroppo, già a Brindisi subito dopo il loro sbarco. L’ultimo a vederli fu il sottocapo meccanico Valeriano Busardò di Como che diede una sigaretta ad uno di loro, mentre guardava i prigionieri discendere dal Pilo su un motoscafo per essere consegnati ad un Tenente di Vascello italiano.
Il Rosolino Pilo, ormai libero, abbandona il convoglio e fa rotta verso il sud dell’Albania in direzione di Capo Linguetta per eludere le eventuali ricerche dei tedeschi e attraverso il Canale d’Otranto giunge in vista del porto di Brindisi “in piena luce solare … “ il 26 settembre 1943.
Le ricompense al valore militare a riconoscimento dell’impresa contro il picchetto tedesco sono: medaglia d’argento per il comandante del Rosolino Pilo, Giuseppe Tullio Faggioni, medaglia di bronzo per l’ufficiale in 2a, Giovanni Buizza, il guardiamarina Mario Puglielli, il Capo Ernesto Savassi, il S.Capo Carlo Bossi e il marinaio Filippo Malaspina, seguono sedici croci di guerra al valore per altrettanti membri dell’equipaggio.
Riguardo ai fatti accaduti sull’incrociatore ausiliario Arborea (Cap. di fregata Filippo De Palma) e di cui lei fa cenno nello stesso paragrafo 2.5, posso riferire molto poco.
Riguardo invece alla scorta del convoglio, che doveva essere assicurata anche da alcuni aerei e motosiluranti, pare che le cose siano andate diversamente. La formazione navale, secondo la testimonianza del Signor Mallozzi, fu seguita nelle prime ore di navigazione da un bimotore tedesco che poi si allontanò, ma le motosiluranti non si videro per nulla.
L’esempio del Pilo non fu seguito da nessuna delle navi del convoglio, anche se vi erano concrete possibilità di riportare l’intera formazione navale nell’Italia liberata.
Le posso inoltre confermare che già a bordo del Pilo non fu facile trovare un accordo. Molti membri dell’equipaggio erano contrari ad un’azione di forza contro la scorta tedesca e non fu cosa semplice pervenire ad un compromesso con coloro che consideravano prioritario raggiungere il nord dell’Italia. Lo stesso Faggioni in un primo tempo aveva dubitato sulle concrete possibilità di riuscita dell’azione e diede il suo consenso solo dopo aver appreso che avevano dato la disponibilità un congruo numero dei suoi uomini.
Auspico di conoscere notizie più precise sul Cap. Pagan della divisione Brennero, e mi auguro di poter condividere e confrontare eventuali testimonianze o documenti in suo possesso per meglio fare una memoria il più possibile obiettiva dei fatti accaduti sulla nave Pilo il 25 e il 26 settembre 1943.
Resto in fiduciosa attesa di una Sua gradita risposta e di notizie complementari al nostro comune e condiviso desiderio di lasciare ai posteri documenti quanto più possibile attendibili, circostanziati e veritieri.
Col desiderio, spero reciproco, di poter ancora collaborare insieme, molto cordialmente la saluto.

Vittorio Pavone tel. 0922 595946 - e-mail: c.leonardi@alice.it

Comunico anche la e-mail del Signor Leoni: cesare.leoni@e-cremona.it
Alpini e Gebirgsiager a Monte Marrone
– sessantaquattro anni dopo –
Sergio Pivetta

Non era la prima volta che ritornavo a Monte Marrone, ma è stata sicuramente una delle più belle. Anche perché, più anni passano, più si avvicina il giorno nel quale salirò a quota 1770 per l’ultima volta. Perché a quota 1770 c’è la croce voluta e piantata, trent’anni dopo, nel 1975, dagli Alpini del btg. Piemonte, sulle trincee dove ci eravamo battuti, con onore, nel 1944, contro i Gebirgsiager austriaci, bavaresi e altoatesini della Divisione alpina “Edelweiss”.
E perché questa volta, a 64 anni da quei tragici eventi, c’è stata una stretta di mano, lassù, sotto la croce, tra un vecchio reduce del btg. Piemonte ed un giovane Ufficiale della Edelweiss.
Ieri avversari, oggi in pace, sulle stesse cime rocciose dove ci battemmo duramente, abbiamo onorato e ricordato insieme quei ragazzi che su quelle trincee, nel 1944, hanno lasciata la vita.
Si ricordano spesso, di quei giorni, i due combattimenti di Montelungo nei quali, su mille attaccanti, allievi ufficiali dei Bersaglieri e fanti del 67°, perdemmo – tra morti, feriti e dispersi – quasi metà degli effettivi.
Si parla meno invece di Monte Marrone, dove le perdite furono limitatissime. Dimenticando che mentre a Montelungo i nostri ragazzi vennero mandati all’assalto, dopo una giornata trascorsa sotto la pioggia, completamente allo scoperto; a Monte Marrone, allo scoperto erano gli attaccanti avversari. E mentre a Montelungo, levatasi d’improvviso la nebbia che nascondeva le postazioni nemiche, fanti e bersaglieri furono colti di sorpresa dal fuoco delle loro mitragliatrici, tanto che 18 giovani di una delle nostre squadre d’assalto vennero falciati in fila indiana ancora con il fucile a spall- arm, a Monte Marrone accadde l’opposto. Sbucarono dal bosco in tuta mimetica bianca, la notte di Pasqua, il 10 aprile 1944, alle 3.15 del mattino (lo ricordo come fosse ieri perché ero di sentinella, molto più a sinistra, sulla trincea più avanzata della 2° compagnia) a 15 metri dal camminamento della 1° compagnia. Ma i nostri alpini, allertati dai campanelli posti sui reticolati e dallo scoppio di alcune mine si gettarono – aiutati da un furibondo contrassalto a bombe a mano e raffiche di mitra da parte degli esploratori della 3° compagnia, subito accorsi – contro di loro, costringendoli a ripiegare precipitosamente, lasciando sul terreno le armi pesanti (mitragliatrici e tromboncini). E dappertutto, le scie di sangue dei feriti che avevano portato con loro.
Più alcuni “camerati” i quali, nascostisi nella boscaglia durante lo scontro, vennero fuori, all’alba, con le mani in alto.
Mentre i loro reparti – oltre alle perdite subite dal primo gruppo di attaccanti, in parte saltati sulle mine, in parte falciati dai nostri mitra – ne perdettero un numero imprecisato, ma sicuramente molto elevato del secondo e terzo scaglione d’assalto che – fermati da un furibondo, infernale fuoco d’arresto – non riuscirono nemmeno a farsi sotto.
Dov’eravamo noi della 2° non tentarono nemmeno di avvicinarsi, perché attaccare, completamente allo scoperto, su un ripido pendio, non meno di 300 metri e per giunta abbondantemente innevato (in alcuni punti la neve superava i due metri) sarebbe stata pura follia. Ma anche alla seconda la situazione non era allegra, costretti come fummo a scavalcare le postazioni per proteggerci, in contropendenza, dai proiettili della nostra artiglieria che, in parte, anziché screstare, si abbattevano su di noi. E ci andò bene perché ne fecero le spese solo le nostre tende, ridotte a brandelli.
Chi sicuramente se la passò male furono invece il secondo e terzo scaglione dei nostri avversari, sui quali le artiglierie italiane e polacche rovesciarono migliaia di colpi, fino a fondere alcuni pezzi. Bisogna dire, in proposito, che mentre, nella guerra all’italiana, i rifornimenti arrivavano, quando arrivavano, a singhiozzo, gli americani facevano affluire ogni giorno un numero di munizioni prestabilito. Che venissero poi consumate o meno, non faceva conto. Cosìcchè, accanto ai nostri cannoni si erano accumulate vistose piramidi di proietti. E quella mattina lo spettacolo, da sotto, era apocalittico: Monte Marrone illuminato a giorno.
E se noi lassù non ce la spassavano molto bene, per le due grosse formazioni tedesche di rincalzo il concerto fu sicuramente terrificante. Quanti erano e quante le perdite da loro subite non è mai stato stabilito con certezza. Unico dato certo è che quando, a fine maggio, ad attaccare con successo fummo noi, le loro retrovie erano disseminate di croci.
Li inseguimmo fino in Val del Canneto, dove gli alleati – temendo che gli italiani del C.I.L. puntassero su Roma – ci fermarono, trasferendoci dal fronte della 5° Armata americana a quello dell’8° Inglese. Loro , con le divise stirate e pulite, a Roma; noi, con le divise grigio – verdi lacere e sporche, a risalire l’Italia, combattendo, sul fronte Adriatico.
Perché quello che ancor oggi non è a tutti noto è che la partecipazione del nostro Esercito alla Campagna d’Italia 1943 – 1945 si articolò in tre fasi:

- il 1° Raggruppamento Motorizzato, che operò dal dicembre 1943 al marzo 1944 con una forza iniziale di 5.000 uomini che, alla conclusione del ciclo operativo, aveva raggiunto i 10.000 effettivi;
- il Corpo Italiano di Liberazione che combattè dall’aprile all’agosto 1944 con un ordinamento corrispondente a quello di un Corpo d’Armata ed una forza di quasi 30.000 uomini;
- i sei Gruppi di Combattimento, in realtà vere e proprie Divisioni di fanteria, dei quali 4, il “Cremona”, il “Friuli”, il “Folgore” e il “Legnano”, con una forza complessiva superiore a 50.000 uomini, operarono dal gennaio al maggio 1945;
- otto Divisioni Ausiliarie, con una forza che raggiunse, nel 1945, le 200.000 unità. Tre di queste, la 210^, la 212^ e la 228^, operarono al diretto seguito delle Armate alleate combattenti.

In tale contesto, grande risalto ebbe il contributo operativo dei nostri Alpini i quali, con l’occupazione e la successiva difesa di Monte Marrone, baluardo roccioso di 1770 metri ritenuto inattaccabile dai tedeschi ed inespugnabile dagli alleati, si imposero all’attenzione ed al rispetto di tutti i belligeranti.


PIVETTA Sergio
Alpino del btg. Piemonte

lunedì 4 gennaio 2010

La Direzione di "Il Secondo Risogimento d'Italia"

Riceviamo questa e mail e, come comunicato all'interessato, la pubblichiamo su questo blog

"Al Presidente della Associazione Nazionale Combattenti Guerra di Liberazione Marco Lodi
leggendo sull’ultimo numero del “ SECONDO RISORGIMENTO D’ITALIA “ la Sua lunga relazione 2008 ed i programmi per il 2009, speravo di trovare qualche accenno al Gr.Comb.to “CREMONA” con il quale io sono entrato in linea sul Senio il 14 Gennaio 1945 – quale comandante di uno dei plotoni anticarro da 6 libbre del 22° Regg.Ftr. – ed ho partecipato il 10 Aprile all’offensiva finale con la Colonna Zanussi, che ha liberato per primo il paese di Alfonsine, che nel dopoguerra mi ha onorato della sua cittadinanza onoraria.
Negli ultimi giorni delle operazioni anzi il mio plotone è stato assegnato in appoggio alla 28° Brigata Partigiana comandata da Arrigo Boldrini (Bulow) nella avanzata da Alfonsine fino a Chioggia. Questi avvenimenti sono più dettagliatamente descritti nel fascicoletto di mie memorie, che invio a parte, incoraggiato a ciò dal Vostro invito a raccogliere le testimonianze dei protagonisti.
Nella sua relazione è citato il decorato di M.B.V.M. Prof. Lorenzo Lodi (forse Suo Padre?) del Gr.Comb.to “ FRIULI”: questa Divisione era già in Corsica, al tempo dell’armistizio, con la “CREMONA”, e successivamente, sempre a fianco della stessa, insieme sulla Linea Gotica.
Invio copia della presente per conoscenza al Presidente della nostra Sezione di Milano, Gen.C.A. Luigi Morena, che a sua volta era con il G.C. “LEGNANO” nel Btg.Alpini “ Piemonte” , e che nei giorni della liberazione di Bologna ha meritato una Medaglia d’argento V.M., e che Lei forse avrà già avuto occasione di conoscere. Purtroppo a Milano siamo rimasti ormai in pochi superstiti di quei tempi così lontani (lui è del 1917 ed io, che talvolta faccio il portabandiera della Sezione, del 1918).
Avrei piacere di conoscere il Vs. programma di iniziative per il 2010, disposto a partecipare ad esse in quanto ciò fosse possibile.
Ringraziando in anticipo, invio i più cordiali saluti
Erminio Gardelli, Ten:Col. T.O.
20010 POGLIANO MIL.SE (MI)
Via Bellini 4, tel. 02,93549783
L'annuncio di un convegno del 2004
Misconosciuto per decenni, il tema ella Prigionia di Guerra è venuto alla ribalta in queste settimane a seguito delle vicende del conflitto irakeno. Fra gli specialitsti il tema della Prigionia di guerra era all’attenzione in quanto il conflitto nei Balcani (1992-1995) aveva riproposto temi e comportamenti che sembravano ormati assegnati al passato, con l’apertura di campiti di concentramento per bosniaci con trattamenti che ricordano da vicino quelli della seconda guerra mondiale. La vicenda dell’abbattimento delle torri gemelle, l’11 settembre 2001, ha indotto un grande Paese come di Stati Uniti a travalicare le convenzioni in essere sulla Prigionia in genere pur di assicurare la propria sicurezza. Quanto sta accadendo a Guantano Bay né è una dimostrazione. A margine del conflitto in Afganistan contro i talebani e ora in Irak si sono riproposti comportamenti sul trattamento dei Prigionieri che offendono la nostra civiltà ela nostra coscienza civile.
L’Istituto di Storia e Scienze Militari Europee, in essere per volontà della Associazione Nazionale Reduci, ha promosso una Tavola Rotonda per martedì 8 giugno 2004 ore 17 all’Auditorium Cavour Piazza Adriana 3 a Roma sul tema “I Prigionieri di Guerra e le Convenzioni Internazionali”. Interverranno il Prof. Antonello Bigini, ordinario di Storia dell’Europa Orientale e la Prof.ssa Maria Rita Saulle, ordinario di Diritto Internazione, entrambi della “Sapienza” di Roma che tratteggeranno gli aspetti storico- ordinativi e giuridici della Prigionia e del suo impatto nei conflitti e nella conduzione e conseguenze dei conflitti stessi. Interverrà inoltre il sen. Gen.Umnerto capotto, Vice Presidente della Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, già Prigioniero di guerra ad El Alamein e diretto testimoni di questo aspetto della guerra.
Per sottolineare come il fenomeno della prigionia si all’attenzione presso gli specialiti dei conflitti sarà presentato l’11° volume del Quaderni della ANRP dal titolo “I prigionieri di Guerra nella Storia d’Italia”, che rappresenta lo strumento di veicolazione di ricerche e studi e pubblicazioni iniziate nel 1995. Ricerche che hanno interessato, oltre la prigionia in genere nelle sue strutture ed articolazioni, anche nelle sue forme, come l’Internamento e la Deportazione, e hanno spaziato nelle vicende della Prigionia Militare Italiana, sia dei conflitti postunitari e della Prima guerra Mondiale, come pure della Seconda guerra Mondiale, come la prigionia in mano agli Stati Uniti, ai Francesi e nei territori Francesi, alla Gran Bretagna, alla Unione Sovietica e negli altri paesi coinvolti nel conflitto, in un quadro generale di ricerca che considera la Prigiona del 1943-1945, come uno dei fronti della Guerra di Liberazione Nazionale, accanto all’azione del Regno del Sdu, al movimento partigiano al nord, all’internanento in Germania, alla resistenza dei militari italiani all’estero e, appunto, alla prigionia.
Saranno presenti di autori, Dott Massimo Coltrinari, Prof. Anna maria Isastia e Porf. Enzo Orlanducci che da oltre dieci hanno approfondito, in numerevoli convegni e seminari di studi, il tema della prigionia militare nell’assunto che lo studio di questo aspetto dei conflitti, nei suoi risvolti giuridici, economici, sanitari, politici, umanitari, possa abbassare il livello di violenza in generale, di violenza bellica in particolare nei conflitti stessi, elevando il tasso di sicurezza per le persone non direttamente coinvolte e, in ultima analisi, come strumento indiretto per il mantenimento ed il rafforzamento della pace.