Alpini e Gebirgsiager a Monte Marrone
– sessantaquattro anni dopo –
– sessantaquattro anni dopo –
Sergio Pivetta
Non era la prima volta che ritornavo a Monte Marrone, ma è stata sicuramente una delle più belle. Anche perché, più anni passano, più si avvicina il giorno nel quale salirò a quota 1770 per l’ultima volta. Perché a quota 1770 c’è la croce voluta e piantata, trent’anni dopo, nel 1975, dagli Alpini del btg. Piemonte, sulle trincee dove ci eravamo battuti, con onore, nel 1944, contro i Gebirgsiager austriaci, bavaresi e altoatesini della Divisione alpina “Edelweiss”.
E perché questa volta, a 64 anni da quei tragici eventi, c’è stata una stretta di mano, lassù, sotto la croce, tra un vecchio reduce del btg. Piemonte ed un giovane Ufficiale della Edelweiss.
Ieri avversari, oggi in pace, sulle stesse cime rocciose dove ci battemmo duramente, abbiamo onorato e ricordato insieme quei ragazzi che su quelle trincee, nel 1944, hanno lasciata la vita.
Si ricordano spesso, di quei giorni, i due combattimenti di Montelungo nei quali, su mille attaccanti, allievi ufficiali dei Bersaglieri e fanti del 67°, perdemmo – tra morti, feriti e dispersi – quasi metà degli effettivi.
Si parla meno invece di Monte Marrone, dove le perdite furono limitatissime. Dimenticando che mentre a Montelungo i nostri ragazzi vennero mandati all’assalto, dopo una giornata trascorsa sotto la pioggia, completamente allo scoperto; a Monte Marrone, allo scoperto erano gli attaccanti avversari. E mentre a Montelungo, levatasi d’improvviso la nebbia che nascondeva le postazioni nemiche, fanti e bersaglieri furono colti di sorpresa dal fuoco delle loro mitragliatrici, tanto che 18 giovani di una delle nostre squadre d’assalto vennero falciati in fila indiana ancora con il fucile a spall- arm, a Monte Marrone accadde l’opposto. Sbucarono dal bosco in tuta mimetica bianca, la notte di Pasqua, il 10 aprile 1944, alle 3.15 del mattino (lo ricordo come fosse ieri perché ero di sentinella, molto più a sinistra, sulla trincea più avanzata della 2° compagnia) a 15 metri dal camminamento della 1° compagnia. Ma i nostri alpini, allertati dai campanelli posti sui reticolati e dallo scoppio di alcune mine si gettarono – aiutati da un furibondo contrassalto a bombe a mano e raffiche di mitra da parte degli esploratori della 3° compagnia, subito accorsi – contro di loro, costringendoli a ripiegare precipitosamente, lasciando sul terreno le armi pesanti (mitragliatrici e tromboncini). E dappertutto, le scie di sangue dei feriti che avevano portato con loro.
Più alcuni “camerati” i quali, nascostisi nella boscaglia durante lo scontro, vennero fuori, all’alba, con le mani in alto.
Mentre i loro reparti – oltre alle perdite subite dal primo gruppo di attaccanti, in parte saltati sulle mine, in parte falciati dai nostri mitra – ne perdettero un numero imprecisato, ma sicuramente molto elevato del secondo e terzo scaglione d’assalto che – fermati da un furibondo, infernale fuoco d’arresto – non riuscirono nemmeno a farsi sotto.
Dov’eravamo noi della 2° non tentarono nemmeno di avvicinarsi, perché attaccare, completamente allo scoperto, su un ripido pendio, non meno di 300 metri e per giunta abbondantemente innevato (in alcuni punti la neve superava i due metri) sarebbe stata pura follia. Ma anche alla seconda la situazione non era allegra, costretti come fummo a scavalcare le postazioni per proteggerci, in contropendenza, dai proiettili della nostra artiglieria che, in parte, anziché screstare, si abbattevano su di noi. E ci andò bene perché ne fecero le spese solo le nostre tende, ridotte a brandelli.
Chi sicuramente se la passò male furono invece il secondo e terzo scaglione dei nostri avversari, sui quali le artiglierie italiane e polacche rovesciarono migliaia di colpi, fino a fondere alcuni pezzi. Bisogna dire, in proposito, che mentre, nella guerra all’italiana, i rifornimenti arrivavano, quando arrivavano, a singhiozzo, gli americani facevano affluire ogni giorno un numero di munizioni prestabilito. Che venissero poi consumate o meno, non faceva conto. Cosìcchè, accanto ai nostri cannoni si erano accumulate vistose piramidi di proietti. E quella mattina lo spettacolo, da sotto, era apocalittico: Monte Marrone illuminato a giorno.
E se noi lassù non ce la spassavano molto bene, per le due grosse formazioni tedesche di rincalzo il concerto fu sicuramente terrificante. Quanti erano e quante le perdite da loro subite non è mai stato stabilito con certezza. Unico dato certo è che quando, a fine maggio, ad attaccare con successo fummo noi, le loro retrovie erano disseminate di croci.
Li inseguimmo fino in Val del Canneto, dove gli alleati – temendo che gli italiani del C.I.L. puntassero su Roma – ci fermarono, trasferendoci dal fronte della 5° Armata americana a quello dell’8° Inglese. Loro , con le divise stirate e pulite, a Roma; noi, con le divise grigio – verdi lacere e sporche, a risalire l’Italia, combattendo, sul fronte Adriatico.
Perché quello che ancor oggi non è a tutti noto è che la partecipazione del nostro Esercito alla Campagna d’Italia 1943 – 1945 si articolò in tre fasi:
- il 1° Raggruppamento Motorizzato, che operò dal dicembre 1943 al marzo 1944 con una forza iniziale di 5.000 uomini che, alla conclusione del ciclo operativo, aveva raggiunto i 10.000 effettivi;
- il Corpo Italiano di Liberazione che combattè dall’aprile all’agosto 1944 con un ordinamento corrispondente a quello di un Corpo d’Armata ed una forza di quasi 30.000 uomini;
- i sei Gruppi di Combattimento, in realtà vere e proprie Divisioni di fanteria, dei quali 4, il “Cremona”, il “Friuli”, il “Folgore” e il “Legnano”, con una forza complessiva superiore a 50.000 uomini, operarono dal gennaio al maggio 1945;
- otto Divisioni Ausiliarie, con una forza che raggiunse, nel 1945, le 200.000 unità. Tre di queste, la 210^, la 212^ e la 228^, operarono al diretto seguito delle Armate alleate combattenti.
In tale contesto, grande risalto ebbe il contributo operativo dei nostri Alpini i quali, con l’occupazione e la successiva difesa di Monte Marrone, baluardo roccioso di 1770 metri ritenuto inattaccabile dai tedeschi ed inespugnabile dagli alleati, si imposero all’attenzione ed al rispetto di tutti i belligeranti.
PIVETTA Sergio
Alpino del btg. Piemonte
Non era la prima volta che ritornavo a Monte Marrone, ma è stata sicuramente una delle più belle. Anche perché, più anni passano, più si avvicina il giorno nel quale salirò a quota 1770 per l’ultima volta. Perché a quota 1770 c’è la croce voluta e piantata, trent’anni dopo, nel 1975, dagli Alpini del btg. Piemonte, sulle trincee dove ci eravamo battuti, con onore, nel 1944, contro i Gebirgsiager austriaci, bavaresi e altoatesini della Divisione alpina “Edelweiss”.
E perché questa volta, a 64 anni da quei tragici eventi, c’è stata una stretta di mano, lassù, sotto la croce, tra un vecchio reduce del btg. Piemonte ed un giovane Ufficiale della Edelweiss.
Ieri avversari, oggi in pace, sulle stesse cime rocciose dove ci battemmo duramente, abbiamo onorato e ricordato insieme quei ragazzi che su quelle trincee, nel 1944, hanno lasciata la vita.
Si ricordano spesso, di quei giorni, i due combattimenti di Montelungo nei quali, su mille attaccanti, allievi ufficiali dei Bersaglieri e fanti del 67°, perdemmo – tra morti, feriti e dispersi – quasi metà degli effettivi.
Si parla meno invece di Monte Marrone, dove le perdite furono limitatissime. Dimenticando che mentre a Montelungo i nostri ragazzi vennero mandati all’assalto, dopo una giornata trascorsa sotto la pioggia, completamente allo scoperto; a Monte Marrone, allo scoperto erano gli attaccanti avversari. E mentre a Montelungo, levatasi d’improvviso la nebbia che nascondeva le postazioni nemiche, fanti e bersaglieri furono colti di sorpresa dal fuoco delle loro mitragliatrici, tanto che 18 giovani di una delle nostre squadre d’assalto vennero falciati in fila indiana ancora con il fucile a spall- arm, a Monte Marrone accadde l’opposto. Sbucarono dal bosco in tuta mimetica bianca, la notte di Pasqua, il 10 aprile 1944, alle 3.15 del mattino (lo ricordo come fosse ieri perché ero di sentinella, molto più a sinistra, sulla trincea più avanzata della 2° compagnia) a 15 metri dal camminamento della 1° compagnia. Ma i nostri alpini, allertati dai campanelli posti sui reticolati e dallo scoppio di alcune mine si gettarono – aiutati da un furibondo contrassalto a bombe a mano e raffiche di mitra da parte degli esploratori della 3° compagnia, subito accorsi – contro di loro, costringendoli a ripiegare precipitosamente, lasciando sul terreno le armi pesanti (mitragliatrici e tromboncini). E dappertutto, le scie di sangue dei feriti che avevano portato con loro.
Più alcuni “camerati” i quali, nascostisi nella boscaglia durante lo scontro, vennero fuori, all’alba, con le mani in alto.
Mentre i loro reparti – oltre alle perdite subite dal primo gruppo di attaccanti, in parte saltati sulle mine, in parte falciati dai nostri mitra – ne perdettero un numero imprecisato, ma sicuramente molto elevato del secondo e terzo scaglione d’assalto che – fermati da un furibondo, infernale fuoco d’arresto – non riuscirono nemmeno a farsi sotto.
Dov’eravamo noi della 2° non tentarono nemmeno di avvicinarsi, perché attaccare, completamente allo scoperto, su un ripido pendio, non meno di 300 metri e per giunta abbondantemente innevato (in alcuni punti la neve superava i due metri) sarebbe stata pura follia. Ma anche alla seconda la situazione non era allegra, costretti come fummo a scavalcare le postazioni per proteggerci, in contropendenza, dai proiettili della nostra artiglieria che, in parte, anziché screstare, si abbattevano su di noi. E ci andò bene perché ne fecero le spese solo le nostre tende, ridotte a brandelli.
Chi sicuramente se la passò male furono invece il secondo e terzo scaglione dei nostri avversari, sui quali le artiglierie italiane e polacche rovesciarono migliaia di colpi, fino a fondere alcuni pezzi. Bisogna dire, in proposito, che mentre, nella guerra all’italiana, i rifornimenti arrivavano, quando arrivavano, a singhiozzo, gli americani facevano affluire ogni giorno un numero di munizioni prestabilito. Che venissero poi consumate o meno, non faceva conto. Cosìcchè, accanto ai nostri cannoni si erano accumulate vistose piramidi di proietti. E quella mattina lo spettacolo, da sotto, era apocalittico: Monte Marrone illuminato a giorno.
E se noi lassù non ce la spassavano molto bene, per le due grosse formazioni tedesche di rincalzo il concerto fu sicuramente terrificante. Quanti erano e quante le perdite da loro subite non è mai stato stabilito con certezza. Unico dato certo è che quando, a fine maggio, ad attaccare con successo fummo noi, le loro retrovie erano disseminate di croci.
Li inseguimmo fino in Val del Canneto, dove gli alleati – temendo che gli italiani del C.I.L. puntassero su Roma – ci fermarono, trasferendoci dal fronte della 5° Armata americana a quello dell’8° Inglese. Loro , con le divise stirate e pulite, a Roma; noi, con le divise grigio – verdi lacere e sporche, a risalire l’Italia, combattendo, sul fronte Adriatico.
Perché quello che ancor oggi non è a tutti noto è che la partecipazione del nostro Esercito alla Campagna d’Italia 1943 – 1945 si articolò in tre fasi:
- il 1° Raggruppamento Motorizzato, che operò dal dicembre 1943 al marzo 1944 con una forza iniziale di 5.000 uomini che, alla conclusione del ciclo operativo, aveva raggiunto i 10.000 effettivi;
- il Corpo Italiano di Liberazione che combattè dall’aprile all’agosto 1944 con un ordinamento corrispondente a quello di un Corpo d’Armata ed una forza di quasi 30.000 uomini;
- i sei Gruppi di Combattimento, in realtà vere e proprie Divisioni di fanteria, dei quali 4, il “Cremona”, il “Friuli”, il “Folgore” e il “Legnano”, con una forza complessiva superiore a 50.000 uomini, operarono dal gennaio al maggio 1945;
- otto Divisioni Ausiliarie, con una forza che raggiunse, nel 1945, le 200.000 unità. Tre di queste, la 210^, la 212^ e la 228^, operarono al diretto seguito delle Armate alleate combattenti.
In tale contesto, grande risalto ebbe il contributo operativo dei nostri Alpini i quali, con l’occupazione e la successiva difesa di Monte Marrone, baluardo roccioso di 1770 metri ritenuto inattaccabile dai tedeschi ed inespugnabile dagli alleati, si imposero all’attenzione ed al rispetto di tutti i belligeranti.
PIVETTA Sergio
Alpino del btg. Piemonte
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