Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

Master di 1° Livello  in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960
Iscrizioni aperte. Info www.unicusano.it/master

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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mercoledì 29 dicembre 2010

a tutti i lettori di questo blog
I Migliori Auguri
di un Sereno, Felice e Prospero
2011

lunedì 20 settembre 2010

E' uscito il volume
L'investimento e la presa di Ancona
La conclusione della campagna di annessione delle Marche
20 settembre - 8 ottobre 1860
di
Massimo Coltrinari 278 pagine, ill., 20,00 euro, è reperibile in tutte le librerie d'Italia.
In Ancoma presso la Libreria Canonici, Corso Garibaldi 112;

Il Volume riporta la presentazione del Sindaco di Ancona,
Prof. Fiorello Gramillano

lunedì 2 agosto 2010

Paracadutisti del 155° Reggimento Nembo a Mecereto di Visso (Macerata)


Segnalo un fatto di guerra partigiana verificatosi nel marzo 1944 nella località montana di Macereto in comune di Visso (MC) quando aerei inglesi lanciarono due pattuglie del 155° Regg.to Nembo,11° Btg , 31a Compagnia in appoggio ai partigiani locali . Dopo quattro giorni sopraggiunsero reparti tedeschi e si ebbe uno scontro a fuoco con morti e feriti. Recentemente il fatto è stato rievocato con una cerimonia cui hanno partecipato il gen.le Giostra della Folgore,il gen.le Farroni degli Alpini ed altre autorità civili e militari. Ho letto un dettagliato resoconto dei fatti su "L'Appennino Camerte" del 14 novembre 2009 a firma Valerio Franconi e lo segnalo qualora fosse di interesse per codesta Rivista. Un cordiale saluto. Gianfranco Lucarelli

venerdì 16 luglio 2010

Ricordate le gesta del Corpo di Liberazione nelle Marche

Domani sabato 17 luglio, alle ore 18,45, Massimo Coltrinari, direttore della Rivista il Secondo Risorigmento, terrà, nella ricorrenza del 66° Anniversario della Battaglia del Musone, presso il “Cippo della Battaglia” a Casenuove di Osimo, il discorso celebrativo dell’evento che il 18 luglio 1944 vide le rinate Forze Armate italiane, inquadrate come Corpo Italiano di Liberazione e impegnate sul fianco sinistro del Corpo d’Armata Polacco, contribuire al successo della manovra per la conquista di Ancona, iniziata all’alba del 17 luglio e conclusasi nel primo pomeriggio del 18 con l’ingresso in Città. Lo sforzo principale sviluppatosi lungo l’asse Monte della Crescia - Polverigi - Agugliano ebbe il suo momento all’alba del 18 luglio 1944 con l’attraversamento del fiume Musone e l’avanzata verso Casenuove di Osimo, Croce di San Vincenzo, Polverigi ed Agugliano.

Prenderanno parte alla manifestazione, tra gli altri, il Sindaco di Osimo Stefano Simoncini, il Presidente Provinciale Anpi Alessandro Bianchini, il Presidente Interprovinciale del Nastro Azzurro Paolo Orlandini, Reduce del Corpo Italiano di Liberazione.

Si coglie l’occasione per ricordare che il volume “Salvare il salvabile” che approccia le vicende armistiziali sotto una nuova chiave di lettura, attualmente in pubblicazione da “Edizioni Nuova Cultura” di Roma a firma di Giorgio Prinzi e Massimo Coltrinari, verrà presentato il prossimo 8 settembre 2010, un mercoledì come quello del tragico 1943. La prefazione al volume porta la firma di Fabio Mini, la postfazione quella di Giancarlo Ramaccia.

venerdì 9 luglio 2010


Il caso McChrystalAfghanistan,
qualcosa non funziona
Mario Arpino
08/07/2010

La “questione McChrystal” è stata subito liquidata come un grave gesto di insubordinazione. Un gesto non tollerabile, ed in effetti con rapidità estrema lo stesso generale ed il Comandante in Capo ne hanno tratto le debite conseguenze. Nelle accademie si insegna che chi non riesce a stare al passo è meglio che esca dai ranghi. È quel che si è fatto, senza andare troppo per il sottile. Ma i suoi soldati lo amavano perché era come loro, li proteggeva e sapeva combattere. Era un Capo credibile. La scelta del sostituto operata da Barack Obama e dal ministro della Difesa Robert Gates è ineccepibile, operativamente la migliore, ma “tecnicamente” non può non suscitare qualche perplessità. Certo, Stanley McChrystal l’ha fatta grossa, ma non va dimenticato che non è né un pazzo, né uno sprovveduto. Eseguiva i piani elaborati dal generale David Petraeus, approvati da Gates ed in linea con la politica presidenziale. Ma Gates è rimasto al suo posto e, cosa davvero inconsueta in ambito militare, Petraeus ha assunto direttamente un comando prima tenuto da un suo subordinato. Siamo nell’esercito americano, non in una procura periferica, dove il procuratore capo avoca a sé il fascicolo di un sostituto poco convincente.C’è qualcosa che non va…Decisamente ci deve essere qualcosa che non va in questa campagna afgana, perché, non molto tempo fa, in Inghilterra aveva dato le dimissioni il generale Andrew Mackay, il protagonista della riconquista di Musa Qala, nel nord dell’Helmand. Aveva espresso l’opinione che la politica ministeriale fosse troppo lontana dalla realtà sul terreno e “istituzionalmente incapace” di gestire la missione in Afghanistan. C’è da riflettere. Probabilmente politici e militari non si sono intesi bene sulle procedure e sulle finalità. McChristal continuava a chiedere le truppe che gli erano state promesse perché probabilmente era convinto di dover vincere davvero sul terreno, e aveva capito – anzi, aveva segnalato – che i tempi sarebbero stati molto lunghi. Incompatibili con la data di “inizio ritiro” - agosto 2011 - indicata inequivocabilmente dal Comandante in Capo. Ora Petraeus, che non è più né a Tampa né in Iraq, ma in Afghanistan, dovrà necessariamente far quadrare il cerchio delle incompatibilità tra “ordini ricevuti” e “impossibilità pratiche”. Senza protestare, senza chiedere troppo e senza farsi cacciare, come accaduto al suo discepolo e amico McChrystal. È un militare abituato alla politica, e probabilmente ce la farà. Riuscirà a dividere, come gli è stato richiesto, i talebani buoni da quelli cattivi, a convincerli, almeno per il tempo necessario, che il governo Karzai è onesto, giusto, legittimo ed efficiente, e a convincere se stesso – anche in questo caso per il tempo necessario – che le forze armate afghane e la polizia in poco tempo hanno fatto passi da gigante e saranno in breve in grado di controllare autonomamente la situazione sul terreno, magari aiutati a mantenere l’ordine e la disciplina dalle bande formate con i 20 mila uomini armati del clan degli Haqqani. Con l’aiuto dell’Isi (interservice intelligence) e con il capo di stato maggiore pachistano Kayani come mediatore.Politici e generaliPuò anche darsi che le cose vadano diversamente, perché è anche vero che non tutti i politici sono uguali, così come non lo sono tutti i generali. Il problema è che, nessuno si offenda, le due categorie sono nate, cresciute e vivono rispettando - o meno - principi diversi. Non migliori o peggiori, solo diversi. Questo è il motivo per cui, a volte, al di là della cortesia, il loro è un rapporto sofferto. E gente come Stanley McChristal e il britannico Andrew Mackcay ci soffre parecchio. Bisognerebbe non farli generali o, in alternativa, individuarli prima e non mandarli a combattere guerre che non sono tali e, quindi, non hanno necessità di essere vinte. Ma non è la regola. Ci sono dei militari che con i politici ci si trovano benissimo, tanto da dedicare a questo rapporto gran parte della loro carriera. Con questo tipo di generali, anche i politici vanno d’accordo, e tra loro si capiscono immediatamente. Con gli altri sono più attenti, ed è difficile – talvolta succede – che il rapporto si trasformi in amicizia. Si tratta di culture diverse, originate, più che dal male o dal bene, da differenti esigenze. In effetti, un politico avrebbe i giorni contati se applicasse alle lettera i principi che le accademie militari cercano di inculcare negli allievi, e, se un allievo si muovesse con la disinvoltura con cui usualmente devono muoversi i politici, sarebbe ben presto espulso dall’istituto. Ci sono poi dei casi in cui qualche generale diventa egli stesso un politico, ma solo di rado l’operazione ha successo. Non ci sono invece politici che diventano generali. Qualcuno in verità ha provato ad assumerne le prerogative, ma il risultato è stato ciò che oggi possiamo osservare in Afghanistan e che avevamo già visto in Iraq. Ricordiamo, a questo punto, anche le dimissioni del generale Franks al termine della campagna, o del generale Shinsechi, capo dell’esercito, che considerava insufficienti a controllare il territorio le truppe assegnategli dal tecnologico Rumsfield. Se la guerra è cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali, farla fare ai politici può essere un disastro. In Italia, a dir la verità, gli “scontri” veri e propri si contano sulla punta delle dita, perché i militari sanno bene che “la politica è tutto” e che loro ne sono un mero strumento, assieme alla diplomazia ed altri ancora. I militari rimangono molto male quando si accorgono che quelle che essi ritengono essere virtù, quali la disciplina e il senso del dovere, vengono scambiate per debolezza, o remissività. Il fatto è che, in genere, dopo aver detto le loro ragioni, fanno un passo indietro e obbediscono, anche se sono convinti di non avere torto. In questi casi, nel ritirarsi, cercano solo di limitare i danni, facendosi a volte carico di responsabilità non proprie.Limitare i danniAnche Petraeus cercherà di limitare i danni, ma non quelli “collaterali”. Assumendo il comando, infatti, ha già dichiarato che dovrà rivedere le regole di ingaggio, per adattarle all’offensiva già in preparazione per liberare l’area di Kandahar. Qualcosa come era stato fatto a Marijah nell’Helmand, ma con più forze e maggiori mezzi e, possibilmente, anche con maggiore successo, visto che la città è già stata in parte rioccupata dai talebani. McChrystal, ligio agli ordini ricevuti, aveva disposto di ricorrere all’uso dell’artiglieria e dell’aviazione solo in casi estremi. Petraeus, invece, non potrà permettersi di lesinare troppo. McChristal aveva dovuto rallentare perché, specie negli ultimi mesi, aveva visto raddoppiare il numero dei morti. Petraeus sa che dovrà vincere su altri tavoli piuttosto che sul terreno, diminuendo anche drasticamente il numero delle vittime americane. Ma se proprio, visto che siamo in guerra, i morti ci devono essere – metterà ogni cura perché non succeda – ovviamente è di gran lunga preferibile che siano afghani. Il generale, più vicino alla politica del predecessore, si ricorda che prima di iniziare la campagna irachena e quella afghana, era stato valutato che il numero massimo di vittime che il popolo americano era in grado di “assorbire” era all’incirca di cinquemila. Ormai ci siamo. Quattromila in Iraq e mille in Afghanistan. Basta così. Ora bisogna davvero “vincere” comunque e iniziare il rientro delle truppe secondo il calendario indicato dal Presidente al Congresso ed al popolo. Ne va della sua credibilità come Comandante in Capo di fronte all’America. E non pare proprio sia questa la stagione più adatta.
Mario Arpino, già capo di SMA e di SMD, è presidente di Vitrociset S.p.A. (tecnologie avanzate, spazio, ingegneria logistica e reti digitali). Giornalista pubblicista, è membro del comitato direttivo dell’Istituto Affari Internazionali.

(Tratto da Affari Internazioli, Rivista online di Politica, strategia ed economia, http://www.affarinternazionali.it/) ( luglio 2010)

martedì 6 luglio 2010

Le operazioni del SOE per rovesciare il Duce

In piena guerra venne creata, dalla fusione di tre preesistenti organismi che si occupavano della sicurezza nazionale, una branca di intelligence britannico, denominata Special Operations Executive (SOE), cui venne affidato il compito di gestire le covert operations e dirigere i movimenti di resistenza armata nei territori occupati dai tedeschi. Anche all’Italia questo organismo riservò una grande attenzione e cercò di stabilire contatti con quasi tutti i settori dell’opposizione al regime, dall'antifascismo azionista sino alla fronda istituzionale.
Il ruolo svolto dai servizi segreti inglesi per la destabilizzazione del regime fascista e i rapporti stabiliti con ambienti della Resistenza in Italia sono stati oggetto, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, in coincidenza con l’apertura degli archivi inglesi, di numerosi e rigorosi studi, ma anche, purtroppo, di servizi giornalistici semplicistici, fondati sull’utilizzazione acritica di documenti spesso di seconda mano. Ai lavori di Massimo De Leonardis su La Gran Bretagna e la Resistenza Partigiana in Italia (Elsevier, 1988), di Tommaso Piffer su Gli Alleati e la Resistenza italiana (Il Mulino, 2010), di Mauro Canali su Leo Valiani e Max Salvadori. I servizi segreti inglesi e la Resistenza (Nuova Storia Contemporanea, 2010) si aggiunge ora un importante volume di Mireno Berrettini, dal titolo La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano. Diplomazia clandestina, intelligence, operazioni speciali (Le Lettere) in libreria a fine mese. Si tratta della prima parte di una meticolosa ricerca sulla politica della Gran Bretagna nei confronti della resistenza partigiana in Italia fino al 1945, effettuata da uno studioso che ha setacciato gli archivi inglesi e quelli italiani con un rigore metodologico e una intelligenza critica che gli hanno consentito di evitare il rischio di semplificazioni e generalizzazioni.
Uno dei risultati più significativi del lavoro sta nell’aver colto l’esistenza di una pluralità di linee politiche e di approcci strategici nei confronti dell’antifascismo italiano all’interno dei vari organismi di intelligence e di altri settori dell'amministrazione britannica. Le posizioni, per esempio, di Baker Street (cioè dello Special Operations Executive) e quelle del Foreign Office erano spesso divergenti e alcune iniziative, studiate o sponsorizzate all’interno dell’una o dell’altra struttura, erano addirittura ascrivibili all’attivismo individuale e circoscritto di alcuni funzionari. Vi era, poi, in linea generale, una valutazione profondamente diversa da parte di Baker Street e del Foreign Office nei confronti dell’atteggiamento da riservare all'Italia. Lo Special Operation Service, in realtà, aveva cominciato a interessarsi in maniera davvero concreta dell’Italia (anche se erano state coltivate da tempo, senza grandi successi, relazioni con il fuoruscitismo negli Stati Uniti), più o meno, a partire dal marzo 1943, quando cioè l’ormai prevedibile vittoria in Africa settentrionale rendeva non solo plausibile ma addirittura prioritaria la prospettiva di uno sbarco nelle isole italiane e di una avanzata lungo la penisola che avrebbe dovuto concludersi con la capitolazione di Roma. L’attivismo del SOE, per la verità, veniva guardato con perplessità dal Foreign Office, dal War Cabinet e da altri ambienti istituzionali per più motivi. In primo luogo, perché le operazioni iniziali messe in piedi dal SOE, dai tentativi di «reclutamenti» fra i prigionieri alle attività sovversive imbastite durante il primo triennio di guerra, non avevano dato risultati soddisfacenti. In secondo luogo, perché certe «simpatie» italiane all’interno del SOE confliggevano con l’indirizzo politico, sostanzialmente «punitivo», adottato dal Foreign Office e fatto proprio dall’intero War Cabinet nei confronti dell’Italia. Al SOE, in sostanza, si lasciava mano libera solo per avviare cauti sondaggi operativi con quanti si dimostravano disponibili a collaborare con gli inglesi.
Ambiguità e incertezza, insomma, caratterizzarono, per molto tempo, i contatti segreti con l’antifascismo. Dalla seconda metà del 1942 e all'inizio del 1943 crebbero fortemente le quotazioni del maresciallo Badoglio. Il Foreign Office nutriva scarsa considerazione per il conte Sforza, leader naturale dell’emigrazione antifascista ma senza seguito nella penisola, e aveva, invece, un «occhio di riguardo» per Badoglio, visto come personalità «critica» nei confronti del regime e, certo, più forte. Si prestò attenzione - e ve n’è traccia in rapporti informativi - a voci di una possibile assunzione del potere da parte del Principe di Piemonte assistito da un triumvirato composto da Badoglio, Bottai e Grandi, al punto che si decise di provare a stabilire un collegamento con Badoglio, destinato poi a fallire.
Più consistenti furono i contatti del SOE col partito d’Azione a ridosso del 25 luglio e, poi, tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Essi si concretizzarono nelle «missioni», ricostruite in dettaglio da Berrettini, del console di Lugano, Filippo Caraccio duca di Melito, e di Ugo La Malfa a Londra. Sempre nell’estate del 1943, il SOE, grazie all’interessamento di Dulles, aprì un contatto con l’industriale Adriano Olivetti, ritenuto particolarmente adatto per la sua ascendenza ebraica e per le sue assicurazioni di antifascismo, testimoniate, malgrado l’affiliazione al Pnf nel 1933, da una serie di attività contrarie al regime e dalla sua contiguità con gli ambienti di Giustizia e Libertà. Olivetti fornì agli inglesi un quadro prezioso della «fronda» moderata che andava da Badoglio a Ivanoe Bonomi, dalla Principessa di Piemonte al maresciallo d’Italia Enrico Caviglia fino al generale Cadorna, tuttavia considerato troppo legato a Umberto. La collaborazione fra il SOE e l’industriale non portò grandi frutti perché gli interlocutori avevano visioni diverse: Olivetti pensava a una soluzione politica - giunse persino a giocare la carta del «coinvolgimento» della Santa Sede come possibile intermediario di colloqui tra la Famiglia Reale italiana e il governo britannico - laddove, invece, il SOE si era convinto che si dovesse ormai puntare sulle azioni sovversive e su una «non opposizione» all’invasione. Dalla ricostruzione, effettuata con puntigliosa cura da Berrettini, di covert operations, «diplomazie clandestine» (Emilio Lussu e Pietro Badoglio), «missioni» (Caracciolo, La Malfa, Olivetti) e via dicendo emerge un quadro pieno di chiaroscuri centrato sull’immagine di un antifascismo, in particolare il fuoruscitismo, spesso velleitario e di una Gran Bretagna prigioniera di pregiudizi e stereotipi sugli italiani. Ma emerge anche il fatto che, alla lunga, nel dopoguerra, le relazioni privilegiate con gli inglesi, stabilite in quel periodo, avrebbero dato i loro frutti.

ORO ALLA PATRIA
La notizia è rilevante. L’Italia fascista, che nel maggio del ’39 aveva firmato il «patto d’acciaio» con la Germania nazista e che il 10 giugno del ’40 avrebbe dichiarato guerra alle democrazie occidentali, «mise al sicuro» una gran quantità d’oro della Banca d’Italia negli Stati Uniti. L’operazione fu spiegata in una lettera (2 marzo ’40) dell’allora governatore di Bankitalia Vincenzo Azzolini al ministro per gli Scambi e le Valute, Raffaello Riccardi. Dai primi di marzo del ’40 ai giorni immediatamente precedenti l’intervento mussoliniano, 25 tonnellate d’oro - valore: 27 milioni di dollari e 541 milioni di lire del tempo - vennero trasportate con il transatlantico «Rex» al di là dell’Oceano. Una parte di quei fondi fu poi utilizzata per finanziare le ambasciate in America Latina. Due giovani diplomatici, Robero Ducci e Girolamo de Bosdari, ebbero l’incarico di portare a Rio de Janeiro due valigie contenenti un milione e mezzo di dollari. Completo i cenni fattuali tratti da Gente ricordando che la documentazione su questo intrigo politico-economico è custodita nell’archivio Riccardi, affidato a un museo creato a Genova dal miliardario di Miami Mitchell Wolfson.I fatti sono chiari, lo sono molto meno le deduzioni cui essi si prestano. La più ovvia è che sia stata una manovra finanziaria con cui, in vista d’una futura partecipazione al conflitto, il governo italiano intendeva assicurarsi una cospicua disponibilità di denaro. A conforto di questa tesi, le frasi con cui veniva spiegato che gli Usa «non hanno preso misure per i depositi degli Stati belligeranti, solo per gli Stati occupati». In base a questa considerazione formale una montagna d’oro sarebbe stata imbarcata sul «Rex». Il ragionamento non mi pare del tutto convincente. Poteva Mussolini, cui nessuno nega intelligenza, ignorare che gli Usa, pur formalmente estranei al conflitto, erano di fatto al fianco della Gran Bretagna e della Francia? Poteva ignorare che se si fossero impegnati nell’immane scontro, l’avrebbero fatto contro la Germania? La mossa mussoliniana, se fondata su questo e soltanto su questo, sarebbe una prova clamorosa di dilettantismo. Oltretutto mancavano gli stimoli temperamentali che determinavano i colpi d testa del Duce.Ma la vicenda non è di quelle che sollecitavano i suoi impulsi. È ragioneria, gestita da un personaggio riflessivo e prudente come il governatore Azzolini. Si deve allora leggere la manovra come un gesto di sfiducia nei confronti della Germania? Siamo, con le istruzioni di Azzolini, ai primi di marzo del ’40, e il 18 di quel mese il Duce incontra il Führer al Brennero, dove promise di «marciare con la Germania» riservandosi tuttavia la scelta del momento in cui l’avrebbe fatto. Nello stato d’animo in cui era, il Duce poteva ragionevolmente osare un gesto anti-tedesco oppure - ed è ancor meno verosimile - preoccuparsi della sorte che avrebbe avuto l’oro italiano quando i tedeschi, vincitori o vinti o chissà cos’altro, avessero voluto metterci sopra le mani?No, la mossa del governo fascista non ebbe - questa è la mia opinione - un movente o alcuni moventi che avessero attinenza con le grandi strategie e con le grandi ideologie. Mussolini, ancora in dubbio sull’agganciarsi totalmente a Hitler - lo risolse, il dubbio, quando seppe che le
Panzerdivisionen irrompevano verso Parigi - non ebbe nessuna intenzione di dare uno schiaffo o almeno d’attestare sfiducia alla Germania. Non questo ci racconta - è sempre, lo ribadisco, una mia discutibile opinione - il carteggio ora affiorato. Racconta, secondo me, qualcos’altro. Mussolini sottovalutava gli Stati Uniti. Diceva Giovanni Ansaldo che se il Duce, provinciale di talento, avesse visto una volta l’elenco telefonico di New York - venti volte quello di Roma - gli sarebbe passata ogni voglia di stuzzicare gli americani. In quei giorni vide il sottosegretario agli Esteri Sumner Welles inviato da Roosevelt. Non si piacquero reciprocamente. Sumner Welles descrisse Mussolini «statico e massiccio piuttosto che vigoroso». Per Mussolini gli americani, simpatizzanti delle democrazie, contavano poco, e non sarebbero entrati in guerra, comunque fossero andate le cose. Dunque gli Usa erano un santuario sicuro per l’oro di Roma. Un’altra profezia che non si può dire fosse proprio azzeccata.

mercoledì 31 marzo 2010

ISTITUTO POLACCO

Cristianesimo in Polonia tra Oriente e Occidente ciclo di conferenze storiche dedicato a Giovanni Paolo II organizzato dall'Istituto Polacco di Roma con il patrocinio dell'Ambasciata della Repubblica di Polonia presso la Santa Sede
"Senza il Cristo non è possibile capire la storia della Polonia".Queste parole, diventate ormai famose, vennero pronunciate il 2 giugno 1979 a Varsavia da Giovanni Paolo II, davanti a una sterminata folla radunata per la Santa Messa a piazza della Vittoria. È proprio a Karol Wojtyla che dedichiamo questo ciclo di conferenze, perché riteniamo che la storia della cristianità in Polonia costituisce una parte imprescindibile della storia polacca in generale, essenziale per comprendere anche il presente.L'Istituto Polacco di Roma invita a una serie di incontri che, alla luce della posizione di confine tra Oriente e Occidente, descriveranno lo sviluppo millenario del cristianesimo in Polonia, dalla scelta del Principe Mieszko di far entrare il suo popolo nella Chiesa di Roma, datata 966 d.c., fino alla situazione odierna, a valle del pontificato del primo Papa polacco della storia.
Istituto Polacco di Roma, Via Vittoria Colonna, 1 - Roma 7 aprile 2010 ore 18.00
Cristianizzazione della Polonia al confine tra religiosità occidentale e orientale (X-XIII secolo) Prof. JERZY KLOCZOWSKI Storico del cristianesimo in Polonia, direttore dell' Istituto dell'Europa Centro-Orientale presso l'Università Cattolica di Lublino, curatore della "Storia del cristianesimo in Polonia" (edita in lingua italiana nel 1980 dalla casa editrice del Centro Studi Europa Orientale).
Istituto Polacco di Roma, Via Vittoria Colonna, 1 - Roma 15 aprile 2010 ore 18.00
Le grandi mete dei pellegrinaggi polacchi nel Medioevo Prof.ssa HALINA MANIKOWSKA Professoressa di storia medievale all'Università di Varsavia, autrice del libro "Gerusalemme - Roma - Compostela. Grandi pellegrinaggi al tramonto del Medioevo" (edito in lingua polacca nel 2008 dalla casa editrice dell'Università di Breslavia)
Istituto Polacco di Roma, Via Vittoria Colonna, 1 - Roma 5 maggio 2010 ore 18.00
La Repubblica polacco-lituana: un mosaico di nazioni e religioni all'interno di un unico stato Prof. WOJCIECH TYGIELSKI Professore di Storia moderna all'Università di Varsavia, direttore dell'Istituto Polacco di Roma negli anni 1993-1995, autore del libro "Gli italiani in Polonia XVI-XVII secolo. Un'occasione mancata per la modernizzazione" (edito in lingua polacca nel 2005 da Biblioteka Wiezi).
ciclo di conferenze a cura di dott. Katarzyna Parys

venerdì 26 marzo 2010

Seminario di Studi
La Calda estate del 1943
Chianciano 20-21 Marzo 2010
Sono state poste le basi per una nuova “scuola” di storici non ideologizzati con i quali sarà possibile riscrivere, ma in alcuni casi scrivere per la prima volta, gli eventi di uno dei periodi più tragici per l’Italia, quello legato alle vicende armistiziali dell’8 Settembre 1943, alle scelte che vennero individualmente o in gruppo fatte dai singoli, militari o civili che fossero, delle conseguenze di tali scelte, spesso imposte dal contingente, che sfociarono in tragedie ancora poco note o addirittura ignorate se si esclude i pochi super informati addetti ai lavori.
L’occasione è stata data da un seminario di studi della durata di due giorni che si è svolto a Chianciano nell’ambito del Consiglio Nazionale dell’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione inquadrati nei Reparti regolari delle Forze Armate (Ancfargl) che ha sancito la nascita di una nuova sezione specialistica denominata “Studiosi e cultori della materia” alla quale saranno ammessi, dopo un periodo di prova biennale, studiosi avviati o giovani promettenti leve impegnati in dottorati di ricerca su materie attinenti la Guerra di Liberazione. L’iniziativa fa seguito alla creazione da parte dell’organo associativo, la rivista “il Secondo Risorgimento d’Italia” scaricabile dalla pagina web http://www.secondorisorgimento.it/rivista/sommari/quadrosommari.htm, di una collana di volumi, di cui il sesto della serie “Salvare il salvabile” ha costituito il filo conduttore del seminario nonostante esso sia ancora in fase avanzata di pubblicazione, ma ancora in bozze di stampa e non in libreria.
La tesi sostenuta dal volume è fortemente innovativa, se pure non originale in assoluto come ipotesi, comunque sotto il profilo del “quadro indiziario” di fonti documentali ad essa convergenti appare articolata e ben argomentata, come mai in precedenza, nel delineare uno scenario in cui una fazione, se non il vertice politico militare del tempo nel suo complesso, aveva intrapreso le trattative armistiziali con il fine ultimo di adescare, in perfetto accordo con la Germania ancora alleata, gli angloamericani in una trappola, in un inganno strategico volto a sfruttare le informazioni scambiate in sede di trattative per ributtarli in mare e magari riconquistare la Sicilia che Hitler il 19 luglio a Feltre aveva descritto come la futura Stanlingrado della coalizione nemica.
Il piano ipotizzato nel volume di prossima pubblicazione e commercializzazione non avrebbe però funzionato all’atto pratico per il crollo del fronte interno che il regime aveva sottovalutato, nonostante a seguito dell’avvicendamento di Mussolini con Badoglio il 25 luglio avesse dovuto ricorrere al metodo del bastone (forti misure di ordine pubblico) e della carota, proclamando la caduta del fascismo, sia pure con l’instaurazione di un governo militare e non della democrazia pre regime.
Ai giovani studiosi (età media 30 anni) che hanno partecipato al seminario il direttore e coordinatore Massimo Coltrinari aveva solo fornito uno spunto di approfondimento, senza neppure fare loro leggere, per non influenzarli, il relativo capitolo del volume “Salvare il salvabile”. Il risultato delle loro ricerche è stato sorprendente, in particolare per quanto riguarda una delle argomentazioni a sostegno della tesi di “inganno strategico” secondo la quale la cosiddetta “fuga da Roma” fu un semplice trasferimento a Chieti, dove nel requisito Palazzo Mezzanotte si era cominciato a mettere in piedi una sorta di comando supremo prima che gli eventi, sfuggiti di mano, portassero ad un cambio di programma e l’imbarco sulla corvetta “Baionetta” per fare rotta verso Brindisi e formalizzare quella resa, che avrebbe dovuto invece, secondo l’ipotesi del libro, fungere da specchietto per le allodole. Numerosi gli elementi aggiuntivi frutto di una ricerca condotta in loco, rispetto quelli già riportati in “Salvare il salvabile”, nel senso del potere e delle istituzioni del tempo.
Perora non possiamo dire di più, se non che, in particolare le relazioni relative ai reparti italiani impiegati all’Estero e colti dall’armistizio oltremare, hanno disegnato uno scenario che è difficile immaginare.
Nel congedarci, Massimo Coltrinari ci informa che una analoga due giorni di più ampio respiro si terrà a Roma il 9 e 10 aprile prossimi. Non dispera in quei giorni di avere in mano le prime copie definitive del libro.
Giorgio Prinzi

martedì 9 marzo 2010


Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea
nelle province di Biella e Vercelli "Cino Moscatelli"
Aderente all'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia
"Ferruccio Parri"
13019 Varallo - via D'Adda, 6 - tel. 0163-52005; fax 0163-562289istituto@storia900bivc.it
http://www.storia900bivc.it



In occasione del Giorno del Ricordo 2010, l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli "Cino Moscatelli" ha pubblicato, grazie a Regione Piemonte, Comitato della Regione Piemonte per l'affermazione dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana, Provincia di Biella, Comunità montana Valsesia e Fondazione Crt, Arrivare da lontano. L'esodo istriano, fiumano e dalmata nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, di Enrico Miletto (2010, pp. 288, € 15,00).
Il volume raccoglie un approfondito lavoro di ricerca che con rigore metodologico e grande passione l’autore ha svolto attingendo sia alle fonti archivistiche e documentarie, sia a un significativo numero di interviste raccolte presso i protagonisti dell’esodo.
È un equilibrato intreccio tra i ricordi personali, gli album di famiglia e i documenti ufficiali, gli articoli di giornale, le illustrazioni dell’epoca, da cui emergono le condizioni degli esuli in un territorio in precario equilibrio tra sentimenti di collettiva diffidenza e di soggettiva umanità.
Enrico Miletto nell’analisi della realtà vercellese ritrova le dicotomie della più complessa storia dell’esodo costituita da dolore e gioia, disperazione e speranza, rifiuti e umiliazioni, accoglienza e solidarietà (dalla prefazione di Gianni Oliva).

Enrico Miletto vive e lavora a Torino.
È ricercatore all’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”, alla Fondazione Vera Nocentini e collaboratore dell’Isrsc Bi-Vc.
Autore di saggi, ricerche e volumi collettanei sulle tematiche della Torino industriale, dell’emigrazione e della seconda guerra mondiale in provincia di Torino, si occupa da tempo delle vicende legate al confine orientale d’Italia, con particolare riferimento all’esodo giuliano-dalmata.
Ha pubblicato: “Sotto un altro cielo. Donne immigrate a Torino: generazioni a confronto” (Torino, Angolo Manzoni, 2004); “Con il mare negli occhi. Storia, luoghi e memorie dell’esodo istriano a Torino” (Milano, Franco Angeli, 2005); “Istria allo specchio. Storia e voci di una terra di confine” (Milano, Franco Angeli, 2007).Ha lavorato alla produzione di testi teatrali ed è sceneggiatore dei documentari “Vanchiglia-Torino: storie di ieri” (2003), “L’odore della gomma” (2005) e “Radio Singer” (2009).

Il volume è in vendita nella sede dell’Istituto a Varallo, in via D’Adda, 6 e nelle migliori librerie. È possibile acquistarlo anche tramite il book shop nel sito web dell’Istituto.

sabato 16 gennaio 2010

FIRENZE
23 OTTOBRE 2008
Soldati Italiani sulla Linea Gotica
Intervento
Massimo Coltrinari

Il quesito che ha posto il gen. Poli, ovvero rispondere alla domanda: perché i tedeschi si sono difesi su un simulacro di linee difensive nell’alta pianura romagnola e non nella valle del Po o sulle Alpi, trova il suo primo fondamento di risposta in alcune considerazioni che si possono fare analizzando il comportamento della Germania nella gestione della crisi armistiziali Italia del settembre 1943.
La Germania era ben conscia che l’Italia, nella primavera del 1943 non aveva i mezzi per continuare la lotta ed il fascismo, sia come regime che come movimento, aveva, come ben nota lo Zangrandi, aveva esaurito ogni sua energia. Fu un crollo prima che materiale psicologico e motivazionale. Nessuno in Italia era più in grado, anche volendo, di sostenere Mussolini e questo è dimostrato dall’azione dei gerarchi, che poi divennero i “traditori” del 25 luglio ed alcuni fucilati a Verona l’11 gennaio 1944, da un Tribunale Speciale della Repubblica Sociale Italiana. I piani tedeschi per assorbire l’uscita dell’Italia della guerra erano pronti da tempo. Hitler e l’OKW avevano già preordinato questa uscita creando due comandi, quello di Rimmel nella Italia settentrionale e quello di Kesserling nell’Italia meridionale, considerando persa in partenza l’Itala Centro meridionale tanto che fin dall’agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla 10a Armata del generale Vietinghoff. La difesa avanzata del fronte meridionale della Germania era sugli Appennini, mentre quella vera e propria doveva svolgersi sulle Alpi, da sempre il baluardo meridionale del mondo germanico. Lo stesso comportamento di Rommel nei giorni postarmistiziali, e di tantissimi altri tedeschi in Italia, era orientato a questo. Tutto era preordinato, ma come al solito i piani non corrisposero alla realtà
La Germania fu sorpresa dalle modalità dell’uscita dell’Italia, anche lei si fece trovare impreparata nei dettagli e nel contingente ad affrontare la situazione. In questa incertezza, ebbe gioco in modo oltre il preventivato l’azione del maresciallo Kesserling, che si trovo ad agire d’iniziativa senza il controllo dell’OKW e di Hitler. La prima mossa fu quella di bloccare la via di Fiumicino e il progetto Reale di raggiungere la Sardegna. Poi vi è tutta la vicenda della fuga a Pescar-Brindisi, da parte del vertice governativo-militare italiano, aspetto questo estremamente controverso in cui non si vuole entrare, che diede a Kesserling il grande vantaggio di agire senza l’opposizione delle forze armate italiane. Che le forze italiane non si opposero ai tedeschi non avendo ordini dall’alto è un dato oggettivo e questo lo si ebbe per 48 ore. Badoglio, giunti a Brindisi emana alle ore 11 del 11 settembre 1943 da Radio Bari. Vi furono episodi isolati, grandi moralmente, eccezionali per la prospettiva futura e per la dignità di noi italiani, ma Kesserling ebbe modo di non solo conseguire il risultato che si era promesso, ovvero quello di recuperare e salvare il maggior numero dei soldati tedeschi stanziati nella Italia centro meridionale. Ma riuscì anche ad ottenere di più, ovvero quello di contrastare e contrattaccare le forze alleante che stavano sbarcando in continente.
Kesserling occorre ricordarlo, riuscì a ritardare l’avanzata dell’8a Armata britannica, fino quando necessario per portare in salvo la 15ma Divisione Granatieri Corazzati e la 16ma Divisione Corazzata che l’8 settembre 1943 si trovavano in Calabria; ad impadronirsi quasi senza colpo ferire di Roma, ed ad assicurare il possesso per 8 mesi: a contenere la testa di ponte di Salerno per il tempo necessario a costituire una posizione difensiva continua dall’Adriatico al Tirreno, la linea Reinhardt, che nel settore occidentale s’impegnava sulla stretta di Mignano. Proprio in uno dei convegni organizzati dalla Associazione combattenti della Guerra di Liberazione, da parte del gen. Boscardi si sostenne la tesi, ben documentata, che se non ci fossero stati i combattimenti di Porta San Paolo le divisioni tedesche impegnate dagli Italiani a Roma sicuramente sarebbero giunte in tempo a Salerno e influire positivamente sull’andamento dello sbarco dal punto di vista tedesco.
Ancora maggiore sarebbero stati i risultati positivi qualora Hitler e l’OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due divisioni richieste fin dal mese di agosto. Queste divisioni avrebbero potuto giungere in forze in molto meno di sei giorni. Ma all’indomani dell’annuncio dell’armistizio con l’Italia già l’8a Armata stava avvicinandosi a Potenza e la 7a divisione corazzata (britannica) e la 3a divisione (statunitense) la testa di sbarco. La battaglia per la testa di ponte sarebbe durata più a lungo ma nella sostanza, a Salerno, il risultato non sarebbe, con l’intervento di queste due divisioni da terra, probabilmente cambiato. La differenza si sarebbe fatta sentire poco più tardi. Kesserling avrebbe potuto resistere a sud di Napoli ed essere in grado di tenere quell’importante porto e gli aeroporti di Foggia finché l’inverno non fosse intervenuto in suo soccorso. Sempre nel campo delle probabilità, quello che sarebbe stato e non fu, con la resistenza di Kesserling a sud di Napoli, i capi di stato maggiore britannici avrebbero perduto la causa e gli statunitensi avrebbero preso il definitivo sopravvento nelle decisioni. La decisione di Kesserling di ritirarsi sul Volturno attirò gli alleati come una calamita e creò quella situazione che il gen. Marschall aveva sempre temuto. Sarebbero stati i tedeschi a tenere impegnate il maggior numero di divisioni alleate e non viceversa.
Questo, sommato agli errori tattici dei Comandi Alleati, quali la scelta sbagliata delle località di sbarco, la punta della Calabria e la zona di Salerno, troppo a sud per aggirare le possibili difese tedesche, (uno sbarco a nord di Roma, ancorché fuori dalla copertura aerea, in presenza di una scarsa presenza aerea tedesca, era un rischio calcolato che poteva essere corso), e dalla mancata realizzazione della sorpresa, che condussero una campagna lenta frammentaria ed indecisa, permise a Kesserling di tenere il più possibile a sud di Roma, e non di Napoli, il fronte tedesco. Sempre un successo.
Le difese dell’Appennino tosco-romagnolo, che dovevano essere investite e tenute per un breve periodo nel settembre- ottobre 1943, furono raggiunge dagli Alleati solo a settembre-ottobre 1944, 12 mesi dopo del preventivato e , con il sopraggiungere dell’inverno, non furono superate.
Nel quadro generale della campagna d’Italia, quindi, queste difese rappresentano il migliore rapporto tra costo ed efficacia. Se da una parte esse assorbirono 10 divisioni che potevano essere utilizzate sul fronte occidentale e affittire le difese del vallo atlantico, dall’altra furono il minor presso da pagare per tenere gli alleati lontani dalla Germania, in attesa che la decisone sull’esito della guerra si palesasse sul fronte orientale.

Le difese sull’Appennino tosco-emiliano tennero e sarebbero state più produttive se Hitler non avesse insisto nella sua fissazione della difesa ad oltranza e della manovra di arresto.
Quando Kesserling cedette il comando a Vietinghoff il 9 marzo 1945 era chiaro che gli alleati stavano per sferrare una offensiva su larga scala.Vietinghoff non era Kesserling e non godeva delle simpatie presso Hitler come il maresciallo. Non ebbe la forza di convincere Hitler ad autorizzarlo a passare dalla manovra di arresto alla manovra in ritirata, da fiume a fiume e negò anche l’arretramento sul PO, proposto il 14 aprile, che segnò la fine della difesa tedesca in Italia. Quanto il 20 aprile 1945 questa autorizzazione giunse era ormai troppo tardi.
Quindi alla domanda posta dal generale Poli: perché i tedeschi si sono difesi sull’Appennino tosco-emiliano e non sul Po o sulle Alpi, si può rispondere in un modo che quanto detto ne traccia già le linee guida: I tedeschi si sono difesi in Italia già dall’8 settembre il più a sud possibile, consci che la Germania doveva avere il tempo per vincere la guerra in Russia,. Perché era lì che la guerra si decideva.
Ogni linea in Italia era una linea di difesa di arresto temporaneo e in qualche caso con la possibilità di reazioni dinamiche, tutte brillantemente sfruttate. Se Kesserling fosse rimasto in Italia ed agito per manovrare in ritirata sicuramente le forze tedesche avrebbero passato il Po in modo più o meno ordinato e si sarebbero attestate sulle Alpi, ove le avrebbero raggiunti la notizia della resa, su posizioni organizzate a difesa.
La campagna dei tedeschi in Italia, quindi conclusasi con la capitolazione, fu sotto il profilo tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Non si può dire altrettanto della campagna d’Itala dei Comandi Alleati, che come già accennato la condussero tra errori e incapacità.
La campagna d’Italia fu la cartina di tornasole del dissidio tra Statunitensi e Britannici. I primi volevano, ed ottennero, di adottare una strategia diretta, ovvero concentrare tutte le forze sul fronte francese, da aprire al più presto, e puntare il più velocemente su Berlino e porre fine alla guerra; i secondi cultori della strategia indiretta volevano attaccare si dalla Francia ma anche dall’Italia, per puntare su Vienna e raggiungere il cuore d’Europa nel più breve tempo possibile. Il risultato di una campagna condotta male e con risultati scarsi e deludenti.
A chi giovò maggiormente, ai tedeschi o agli Alleati?. Per la Germania la campagna era stata una necessità assoluta. L’abbandono dell’Italia avrebbe consentito piena libertà di movimento agli Alleati sia in direzione della Francia che in quella dell’Austria e dei Balcani ed avrebbe offerto loro la disponibilità di basi aeree ravvicinate per bombardare la Germania meridionale e l’Austria e minacciare le vie di rifornimento e gli arroccamenti fra la fronte occidentale e quella orientale.
Per gli Alleati la campagna d’Italia fu una libera scelta per perseguire fini strategici rimasti, però, sulla carta. La tattica usata dagli alleati fu del tutto inadeguata, nonostante che non mancassero loro forze e mezzi aerei, navali ed anfibi per dare vita a manovre ampie e profonde che eludessero o riducessero gli sforzi frontali. Sul piano tecnico-militare, perciò, mentre i tedeschi raggiunsero nel corso dell’intera campagna il massimo risultato conseguibili in quella situazione, gli Alleati non ottennero quanto virtualmente avrebbero potuto e offrirono,tutto sommato, un saggio scadente , non già del valore dei loro soldati, ma della loro abilità manovriera. Ma portavano la Libertà e la Democrazia, ed ovunque furono accolti come liberatori. Commisero errori strategici e tattici addirittura grossolani, e conclusero vittoriosamente la campagna solo per la loro schiacciante superiorità materiale. Ma avevano dalla loro il nuovo, il futuro, il fatto che combattevano contro il regime del genocidio, e questo diede loro tutto l’appoggio della popolazione in cui operavano, quella italiana.
Questi gli aspetti della Campagna d’Italia da parte di Eserciti estranei a noi italiani, Campagna d’Italia che occorre sempre differenziare dalla guerra di Liberazione, che intendiamo come secondo risorgimento d’Italia nell'approccio che abbiamo adottato[1].


Dato infine che questo è un convegno dedicato ai soldati italiani sulla linea gotica occorre a questa relazione fare una postilla, che va oltre la domanda posta dal gen. POLI. Un convegno dedicato ai militari Italiani sulla linea gotica non può dimenticare quei soldati italiani che come prigionieri cooperatori erano inquadrati nelle Unità da combattimento britanniche e statunitensi, nella ISU e nelle BTU. L’esempio della testa di ponte di Anzio è troppo noto. Se si parla di gruppi di Combattimento, di salmerie da combattimento, di tutto e di più, occorre rammentare anche questi soldati che, occorre ricordare erano sotto giurisdizione alleata e non italiana, ma che al momento della fine della guerra, nella smobilitazione alleata, senza soluzione di continuità ritornarono sotto giurisdizione Italia e furono coloro che, ricevendo tutto il materiale che gli alleati ci lasciarono diedero vita alle Forze Armate del dopoguerra. La loro azione meriterebbe una maggiore attenzione almeno da parte nostra.



[1] Coltrinari M., La Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti 1943-1945, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2010

mercoledì 6 gennaio 2010

Gruppi di Combattimento
Poggibonsi non dimentica la Guerra di Liberazione

Venerdì 8 gennaio ricorre il 65° anniversario della partenza dei gruppi di combattimento Centootto i poggibonsesi che aderirono al nuovo esercito italiano, tutti quanti decorati con le croci al merito Ricorre venerdì 8 gennaio il 65° anniversario della partenza dei volontari di Poggibonsi per i gruppi di combattimento del nuovo esercito di Liberazione nazionale. Furono 108 i poggibonsesi che proprio l’8 gennaio 1945 partirono e che ricevettero, a liberazione finita, le Croci al Merito. Alla fine si ebbero 4 feriti e due morti, un volontario decorato con la medaglia di bronzo al Valor Militare e tre con la croce di guerra al Valor Militare.Il gruppo dei poggibonsesi comprendeva alcuni antifascisti perseguitati durante il Ventennio, i partigiani che già avevano combattuto alla macchia, e anche alcuni giovani minorenni che cercavano di alterare la data di nascita per essere arruolati. Dopo essere stati selezionati al centro di raccolta di Cesano di Roma vennero destinati ad integrare i gruppi di combattimento “Cremona”, “Friuli”, “Legnano”, “Mantova” e “Piceno”, dove svolsero la loro missione fino alla fine della guerra.In tutta l’operazione fu importante il ruolo svolto dall’Amministrazione Comunale di allora, sia sotto il profilo organizzativo sia per quanto riguarda il sostegno morale attraverso il massimo appoggio dato non solo all’iniziativa ma anche a tutte le famiglie dei ragazzi che partivano.Da ricordare come, nel 1983, i soldati del gruppo di combattimento “Cremona” siano stati insigniti della cittadinanza onoraria di Alfonsine (Ravenna), decorata con la medaglia d’argento della Resistenza, per aver liberato la città.
Una ricerca in corso
Il caso della Torpedinieria Rosolino Pilo
(chiunque avesse uleriori notizie o documenti in merito può contattare la Redazione della Rivista "Il Secondo Risorgimento d'Italia, e mail risorgimento23libero.it)
Egregio Dott. Coltrinari ,

faccio seguito alla mia telefonata del 7 ottobre scorso e la ringrazio peraver prestato attenzione alle mie richieste di chiarimento circa alcune vicende accadute il 25 settembre 1943 sulla torpediniera Rosolino Pilo.
Ho letto con molto interesse e passione la sua relazione “Albania: il caso della Perugia e della Brennero”, inserito in Annali del Dipartimento di Storia 2/06 – Università Tor Vergata di Roma.
Devo rilevare con piacere che nel paragrafo 2.5, “La reazione tedesca e l’imbarco per l’Italia”, sono narrate con una certa dovizia di particolari le vicende accadute ad alcuni reparti della Brennero nei giorni 25 e 26 settembre 1943, nonché alcuni episodi avvenuti a bordo della nave Rosolino Pilo.
Le comunico che il sottoscritto, unitamente all’amico Leoni, si è da diversi anni prodigato per raccogliere documenti e testimonianze circa la nota impresa, che oppose eroicamente il 25 settembre 1943 l’equipaggio del R. Pilo al picchetto di scorta tedesco che presidiava la nave. Questo gesto è ricordato anche da lei nel paragrafo 2.5 unitamente ad una breve sintesi della lotta tra i nostri marinai e i soldati tedeschi anch’essi imbarcati.
La informo inoltre che mio padre Francesco e lo zio di Leoni furono entrambi arruolati nella regia marina e imbarcati sulla torpediniera Pilo. Lo stesso signor Leoni ha avuto modo di partecipare a numerosi raduni (4: Casalmaggiore, Bari, Cremona, Chiavari) dei reduci della regia torpediniera e raccogliere direttamente ricordi e testimonianze di quei tragici giorni del 1943.
Il desiderio di far conoscere e di tramandare l’impresa dall’equipaggio del Rosolino Pilo contro la scorta armata tedesca, hanno sicuramente animato, unitamente alle volontà di alcuni reduci, gli sforzi miei e del signor Leoni a questa ricerca che dura oramai da circa otto anni. Tra l’altro, il sottoscritto e il capitano Leoni siamo entrambi ufficiali di complemento in congedo e facciamo parte rispettivamente delle sezioni U.N.U.C.I di Agrigento e di Cremona.
Desidero raccontarle di seguito e in sintesi quanto emerge dalla documentazione e soprattutto dalle testimonianze in mio possesso circa i giorni 25 e 26 settembre 1943, in modo da contribuire a chiarire quanto da lei scritto nel paragrafo 2.5 sul Cap. Pagan della III batteria del 558° gruppo semovente della divisione Brennero.
Per brevità ometto la cronistoria dell’odissea della torpediniera, che ha inizio subito dopo le 18.30 dell’otto settembre 1943, ora alla quale il vice comandante del Pilo apprende “segretamente” dal capo R.T. di bordo della notizia dell’Armistizio, già diramata a più riprese da Radio Londra. Le peripezie dell’equipaggio di quei giorni sono oramai note quasi con cadenza oraria fino al 10 settembre 1943, giorno del furibondo conflitto a fuoco che l’equipaggio del Pilo, unitamente a quello della torpediniera Missori e del P.fo Marco, mosse nel porto di Durazzo contro le postazioni armate tedesche.
Riguardo a questi eventi, le testimonianze dei reduci, le memorie di Faggioni (MAVM) e il diario autografo dall’allora S. Ten. di Vascello Giovanni Buizza (MBVM), vice comandante della torpediniera, confermano e completano sostanzialmente la ricostruzione fatta dall’Ufficio Storico della M.M. in alcune sue note pubblicazioni su quanto avvenuto in quei giorni nella base di Durazzo. L’evolversi di questi episodi, con particolare riferimento alla Div. Brennero, sono da lei minuziosamente ampliati nel paragrafo 2.1 della relazione sopra citata con nuovi altri contributi di ricerca storica, anche riguardo al mancato intervento nel porto di Durazzo della nostra artiglieria in supporto al già ricordato conflitto a fuoco della mattina del 10 settembre.
Per brevità trascuro vari episodi accaduti nei giorni successivi al 10 settembre 1943, tra i quali il saccheggio del Pilo da parte delle truppe tedesche e l’insensato tentativo di fuga in barca a remi organizzato da alcuni marinai della torpediniera. Riguardo a quest’ultimo episodio, secondo la testimonianza di uno dei reduci che partecipò alla fuga, è sostenuta l’ipotesi che i fuggiaschi furono salvati dalla rappresaglia tedesca da una formazione di “ribelli” albanesi e da alcuni militari italiani, che avevano già con loro fraternizzato.
L’imbarco della Brennero inizia, secondo la testimonianza del reduce Nicola Trovatello, nella tarda mattinata (alle 15.00 secondo il comandante del R. Pilo) del 25 settembre e prosegue per tutto il pomeriggio dello stesso giorno.
I piroscafi utilizzati furono, secondo Faggioni, l’Italia e l’Argentina, nonché l’incrociatore ausiliario Arborea che doveva ricoprire anche il ruolo di unità di scorta. Il convoglio, costituito da cinque navi, parte in direzione di Trieste intorno alle 19.00 del 25 con l’Arborea in testa e con ai lati la torpediniera Missori (verso la costa) e la torpediniera Pilo (verso il mare aperto). Secondo il nocchiere del Pilo Michele Russo il convoglio era invece formato da sette navi, tra le quali sicuramente cinque piroscafi, oltre alle due torpediniere. Quanto sostiene l’anziano reduce sul numero dei piroscafi non si può escludere e potrebbe corrispondere a verità. Infatti, nel porto di Durazzo si trovavano anche il Brumer e il Marco, che potevano essere entrambi utilizzati dai tedeschi. Quest’ultima ipotesi confermerebbe quanto lei scrive nella sua relazione, anche se l’Ufficio Storico della Marina nella sua ricostruzione sostiene che il convoglio era formato da otto navi.
L’animata discussione (lei scrive di richiesta di delucidazioni) tra i due ufficiali della Brennero e il generale della stessa divisione è raccontata molto dettagliatamente nelle memorie del comandante Faggioni. Questo episodio è parte integrante del paragrafo relativo ai preparativi della partenza del Pilo per Trieste, inserito nella relazione scritta nel 1973 dallo stesso comandante della torpediniera. Pare sia stato lo stesso Faggioni a sedare quella lite e ad accogliere sulla sua nave alcuni di questi militari dell’esercito, che stavano per essere dimenticati dal loro generale “in terra straniera”. Questi soldati, provenienti da due battere lontane da Durazzo, erano giunti a piedi al porto, dopo aver percorso numerosi chilometri. La lite o la richiesta di delucidazioni tra il generale e i due ufficiali, purtroppo, non è ricordata da nessuno dei testimoni oculari da me contattati, ma è sicuramente accaduta.
Gli ufficiali comandanti queste due batterie si divisero e s’imbarcarono con i loro uomini sulle torpediniere Pilo e Missori, che erano navi gemelle ed affiancate all’ancoraggio al molo. Riguardo a questi eventi, posso azzardare l’ipotesi che il capitano Pagan fu imbarcato sul Missori. Il tenente Fera della divisione Brennero, che lei indica nello stesso paragrafo 2.5, fu invece verosimilmente sistemato a bordo del Pilo.
Furono di certo imbarcati sul Pilo tra i 20 e i 35 uomini (su questo numero le testimonianze sono discordanti) di una delle due batterie unitamente al sottotenente che li comandava. Verosimilmente, questo sottotenente dell’esercito, trattasi del tenente Fera da lei citato sempre nel paragrafo 2.5. Il tenente Fera (o qualche suo parente), secondo i ricordi del signor Leoni, partecipò presumibilmente al raduno dei reduci della torpediniera Rosolino Pilo, celebrato a Bari il 29 settembre del 1985.
Apprendo con sorpresa dai fatti da lei narrati relativi alla torpediniera Pilo dei suggerimenti dati dal capitano Pagan al comandante Faggioni riguardo al colpo di mano contro le sentinelle tedesche, che potevano essere facilmente sopraffatte in quanto in numero molto esiguo.
Il sopra citato capitano della Brennero, secondo quanto mi è dato conoscere, non risulta essere stato presente a bordo del Pilo. Questo emerge anche dai racconti dei testimoni oculari, dalle memorie di Faggioni (che avrebbe riconosciuto sicuramente un capitano) e dai contatti telefonici avuti di recente con gli ultimi reduci oggi viventi, che escludono sicuramente per quel giorno la presenza di un capitano dell’esercito a bordo della torpediniera. Non posso però tralasciare di riferirle che, secondo la testimonianza dell’allora sotto capo silurista Antonio Mallozzi (CGVM), alcuni militari dell’esercito imbarcati sul Pilo indossavano un abbigliamento accomodaticcio e tale da non poterne in alcuni casi essere individuati chiaramente i gradi.
Le confermo però con certezza che un militare dell’esercito (ufficiale secondo alcuni, sergente per il comandante Faggioni) collaborò con i marinai della torpediniera ad annientare le due sentinelle tedesche che presidiavano la zona di poppa della nave. Purtroppo, il militare della Brennero, nell’oscurità e nella grande confusione che si era creata durante la lotta, fu scambiato per uno dei nemici e involontariamente colpito da alcuni pugni.
L’azione, contro la scorta armata tedesca, scocca poco prima della mezzanotte del 25 al segnale convenuto di sirena antisommergibile. La scelta dell’ora e del tipo di segnale avevano uno scopo ben preciso: disorientare le sentinelle con l’avvistamento di un inesistente sommergibile inglese e disporre, al momento del cambio della pseudo guardia degli italiani, di un più consistente numero di marinai all’intorno dei militari tedeschi, almeno tre italiani per ogni tedesco.
Per brevità tralascio, anche in questo caso, le numerose testimonianze di alcuni di coloro che parteciparono alla lotta contro il picchetto di vigilanza tedesco, che aggiungono molti particolari inediti al racconto redatto dall’ammiraglio G. Tullio Faggioni e alla relazione storica della Marina. Purtroppo, i principali autori del piano d’azione sono tutti deceduti da moltissimi anni ad eccezione forse dell’ex pugile romano Carlo Bossi (MBVM classe 1922), allora sottocapo telemetrista sul Pilo, che malgrado le ricerche avviate su molti fronti non riesco né a rintracciare né a sapere che fine abbia fatto.
Il gruppo organizzatore del colpo di mano studiò tutto nei minimi dettagli, escogitando un curioso espediente che distrasse dalle loro consegne i soldati tedeschi a poppa e a prua. Più difficile fu il compito di chi fu destinato ai tedeschi posizionati in controplancia, dove vi era il comandante del picchetto germanico. Il sottufficiale tedesco fu affrontato con prontezza dal calabrese Filippo Malaspina (MBVM), che nel corpo a corpo gli sottrasse la pistola e gli sparò. Particolarmente drammatici sono i racconti sui tre tedeschi che opposero una minima resistenza e che volarono di peso in mare. Altrettanto commoventi sono i racconti sui quattro giovanissimi tedeschi fatti prigionieri e poi pietosamente medicati. Le tracce dei quattro tedeschi catturati si perdono, purtroppo, già a Brindisi subito dopo il loro sbarco. L’ultimo a vederli fu il sottocapo meccanico Valeriano Busardò di Como che diede una sigaretta ad uno di loro, mentre guardava i prigionieri discendere dal Pilo su un motoscafo per essere consegnati ad un Tenente di Vascello italiano.
Il Rosolino Pilo, ormai libero, abbandona il convoglio e fa rotta verso il sud dell’Albania in direzione di Capo Linguetta per eludere le eventuali ricerche dei tedeschi e attraverso il Canale d’Otranto giunge in vista del porto di Brindisi “in piena luce solare … “ il 26 settembre 1943.
Le ricompense al valore militare a riconoscimento dell’impresa contro il picchetto tedesco sono: medaglia d’argento per il comandante del Rosolino Pilo, Giuseppe Tullio Faggioni, medaglia di bronzo per l’ufficiale in 2a, Giovanni Buizza, il guardiamarina Mario Puglielli, il Capo Ernesto Savassi, il S.Capo Carlo Bossi e il marinaio Filippo Malaspina, seguono sedici croci di guerra al valore per altrettanti membri dell’equipaggio.
Riguardo ai fatti accaduti sull’incrociatore ausiliario Arborea (Cap. di fregata Filippo De Palma) e di cui lei fa cenno nello stesso paragrafo 2.5, posso riferire molto poco.
Riguardo invece alla scorta del convoglio, che doveva essere assicurata anche da alcuni aerei e motosiluranti, pare che le cose siano andate diversamente. La formazione navale, secondo la testimonianza del Signor Mallozzi, fu seguita nelle prime ore di navigazione da un bimotore tedesco che poi si allontanò, ma le motosiluranti non si videro per nulla.
L’esempio del Pilo non fu seguito da nessuna delle navi del convoglio, anche se vi erano concrete possibilità di riportare l’intera formazione navale nell’Italia liberata.
Le posso inoltre confermare che già a bordo del Pilo non fu facile trovare un accordo. Molti membri dell’equipaggio erano contrari ad un’azione di forza contro la scorta tedesca e non fu cosa semplice pervenire ad un compromesso con coloro che consideravano prioritario raggiungere il nord dell’Italia. Lo stesso Faggioni in un primo tempo aveva dubitato sulle concrete possibilità di riuscita dell’azione e diede il suo consenso solo dopo aver appreso che avevano dato la disponibilità un congruo numero dei suoi uomini.
Auspico di conoscere notizie più precise sul Cap. Pagan della divisione Brennero, e mi auguro di poter condividere e confrontare eventuali testimonianze o documenti in suo possesso per meglio fare una memoria il più possibile obiettiva dei fatti accaduti sulla nave Pilo il 25 e il 26 settembre 1943.
Resto in fiduciosa attesa di una Sua gradita risposta e di notizie complementari al nostro comune e condiviso desiderio di lasciare ai posteri documenti quanto più possibile attendibili, circostanziati e veritieri.
Col desiderio, spero reciproco, di poter ancora collaborare insieme, molto cordialmente la saluto.

Vittorio Pavone tel. 0922 595946 - e-mail: c.leonardi@alice.it

Comunico anche la e-mail del Signor Leoni: cesare.leoni@e-cremona.it
Alpini e Gebirgsiager a Monte Marrone
– sessantaquattro anni dopo –
Sergio Pivetta

Non era la prima volta che ritornavo a Monte Marrone, ma è stata sicuramente una delle più belle. Anche perché, più anni passano, più si avvicina il giorno nel quale salirò a quota 1770 per l’ultima volta. Perché a quota 1770 c’è la croce voluta e piantata, trent’anni dopo, nel 1975, dagli Alpini del btg. Piemonte, sulle trincee dove ci eravamo battuti, con onore, nel 1944, contro i Gebirgsiager austriaci, bavaresi e altoatesini della Divisione alpina “Edelweiss”.
E perché questa volta, a 64 anni da quei tragici eventi, c’è stata una stretta di mano, lassù, sotto la croce, tra un vecchio reduce del btg. Piemonte ed un giovane Ufficiale della Edelweiss.
Ieri avversari, oggi in pace, sulle stesse cime rocciose dove ci battemmo duramente, abbiamo onorato e ricordato insieme quei ragazzi che su quelle trincee, nel 1944, hanno lasciata la vita.
Si ricordano spesso, di quei giorni, i due combattimenti di Montelungo nei quali, su mille attaccanti, allievi ufficiali dei Bersaglieri e fanti del 67°, perdemmo – tra morti, feriti e dispersi – quasi metà degli effettivi.
Si parla meno invece di Monte Marrone, dove le perdite furono limitatissime. Dimenticando che mentre a Montelungo i nostri ragazzi vennero mandati all’assalto, dopo una giornata trascorsa sotto la pioggia, completamente allo scoperto; a Monte Marrone, allo scoperto erano gli attaccanti avversari. E mentre a Montelungo, levatasi d’improvviso la nebbia che nascondeva le postazioni nemiche, fanti e bersaglieri furono colti di sorpresa dal fuoco delle loro mitragliatrici, tanto che 18 giovani di una delle nostre squadre d’assalto vennero falciati in fila indiana ancora con il fucile a spall- arm, a Monte Marrone accadde l’opposto. Sbucarono dal bosco in tuta mimetica bianca, la notte di Pasqua, il 10 aprile 1944, alle 3.15 del mattino (lo ricordo come fosse ieri perché ero di sentinella, molto più a sinistra, sulla trincea più avanzata della 2° compagnia) a 15 metri dal camminamento della 1° compagnia. Ma i nostri alpini, allertati dai campanelli posti sui reticolati e dallo scoppio di alcune mine si gettarono – aiutati da un furibondo contrassalto a bombe a mano e raffiche di mitra da parte degli esploratori della 3° compagnia, subito accorsi – contro di loro, costringendoli a ripiegare precipitosamente, lasciando sul terreno le armi pesanti (mitragliatrici e tromboncini). E dappertutto, le scie di sangue dei feriti che avevano portato con loro.
Più alcuni “camerati” i quali, nascostisi nella boscaglia durante lo scontro, vennero fuori, all’alba, con le mani in alto.
Mentre i loro reparti – oltre alle perdite subite dal primo gruppo di attaccanti, in parte saltati sulle mine, in parte falciati dai nostri mitra – ne perdettero un numero imprecisato, ma sicuramente molto elevato del secondo e terzo scaglione d’assalto che – fermati da un furibondo, infernale fuoco d’arresto – non riuscirono nemmeno a farsi sotto.
Dov’eravamo noi della 2° non tentarono nemmeno di avvicinarsi, perché attaccare, completamente allo scoperto, su un ripido pendio, non meno di 300 metri e per giunta abbondantemente innevato (in alcuni punti la neve superava i due metri) sarebbe stata pura follia. Ma anche alla seconda la situazione non era allegra, costretti come fummo a scavalcare le postazioni per proteggerci, in contropendenza, dai proiettili della nostra artiglieria che, in parte, anziché screstare, si abbattevano su di noi. E ci andò bene perché ne fecero le spese solo le nostre tende, ridotte a brandelli.
Chi sicuramente se la passò male furono invece il secondo e terzo scaglione dei nostri avversari, sui quali le artiglierie italiane e polacche rovesciarono migliaia di colpi, fino a fondere alcuni pezzi. Bisogna dire, in proposito, che mentre, nella guerra all’italiana, i rifornimenti arrivavano, quando arrivavano, a singhiozzo, gli americani facevano affluire ogni giorno un numero di munizioni prestabilito. Che venissero poi consumate o meno, non faceva conto. Cosìcchè, accanto ai nostri cannoni si erano accumulate vistose piramidi di proietti. E quella mattina lo spettacolo, da sotto, era apocalittico: Monte Marrone illuminato a giorno.
E se noi lassù non ce la spassavano molto bene, per le due grosse formazioni tedesche di rincalzo il concerto fu sicuramente terrificante. Quanti erano e quante le perdite da loro subite non è mai stato stabilito con certezza. Unico dato certo è che quando, a fine maggio, ad attaccare con successo fummo noi, le loro retrovie erano disseminate di croci.
Li inseguimmo fino in Val del Canneto, dove gli alleati – temendo che gli italiani del C.I.L. puntassero su Roma – ci fermarono, trasferendoci dal fronte della 5° Armata americana a quello dell’8° Inglese. Loro , con le divise stirate e pulite, a Roma; noi, con le divise grigio – verdi lacere e sporche, a risalire l’Italia, combattendo, sul fronte Adriatico.
Perché quello che ancor oggi non è a tutti noto è che la partecipazione del nostro Esercito alla Campagna d’Italia 1943 – 1945 si articolò in tre fasi:

- il 1° Raggruppamento Motorizzato, che operò dal dicembre 1943 al marzo 1944 con una forza iniziale di 5.000 uomini che, alla conclusione del ciclo operativo, aveva raggiunto i 10.000 effettivi;
- il Corpo Italiano di Liberazione che combattè dall’aprile all’agosto 1944 con un ordinamento corrispondente a quello di un Corpo d’Armata ed una forza di quasi 30.000 uomini;
- i sei Gruppi di Combattimento, in realtà vere e proprie Divisioni di fanteria, dei quali 4, il “Cremona”, il “Friuli”, il “Folgore” e il “Legnano”, con una forza complessiva superiore a 50.000 uomini, operarono dal gennaio al maggio 1945;
- otto Divisioni Ausiliarie, con una forza che raggiunse, nel 1945, le 200.000 unità. Tre di queste, la 210^, la 212^ e la 228^, operarono al diretto seguito delle Armate alleate combattenti.

In tale contesto, grande risalto ebbe il contributo operativo dei nostri Alpini i quali, con l’occupazione e la successiva difesa di Monte Marrone, baluardo roccioso di 1770 metri ritenuto inattaccabile dai tedeschi ed inespugnabile dagli alleati, si imposero all’attenzione ed al rispetto di tutti i belligeranti.


PIVETTA Sergio
Alpino del btg. Piemonte

lunedì 4 gennaio 2010

La Direzione di "Il Secondo Risogimento d'Italia"

Riceviamo questa e mail e, come comunicato all'interessato, la pubblichiamo su questo blog

"Al Presidente della Associazione Nazionale Combattenti Guerra di Liberazione Marco Lodi
leggendo sull’ultimo numero del “ SECONDO RISORGIMENTO D’ITALIA “ la Sua lunga relazione 2008 ed i programmi per il 2009, speravo di trovare qualche accenno al Gr.Comb.to “CREMONA” con il quale io sono entrato in linea sul Senio il 14 Gennaio 1945 – quale comandante di uno dei plotoni anticarro da 6 libbre del 22° Regg.Ftr. – ed ho partecipato il 10 Aprile all’offensiva finale con la Colonna Zanussi, che ha liberato per primo il paese di Alfonsine, che nel dopoguerra mi ha onorato della sua cittadinanza onoraria.
Negli ultimi giorni delle operazioni anzi il mio plotone è stato assegnato in appoggio alla 28° Brigata Partigiana comandata da Arrigo Boldrini (Bulow) nella avanzata da Alfonsine fino a Chioggia. Questi avvenimenti sono più dettagliatamente descritti nel fascicoletto di mie memorie, che invio a parte, incoraggiato a ciò dal Vostro invito a raccogliere le testimonianze dei protagonisti.
Nella sua relazione è citato il decorato di M.B.V.M. Prof. Lorenzo Lodi (forse Suo Padre?) del Gr.Comb.to “ FRIULI”: questa Divisione era già in Corsica, al tempo dell’armistizio, con la “CREMONA”, e successivamente, sempre a fianco della stessa, insieme sulla Linea Gotica.
Invio copia della presente per conoscenza al Presidente della nostra Sezione di Milano, Gen.C.A. Luigi Morena, che a sua volta era con il G.C. “LEGNANO” nel Btg.Alpini “ Piemonte” , e che nei giorni della liberazione di Bologna ha meritato una Medaglia d’argento V.M., e che Lei forse avrà già avuto occasione di conoscere. Purtroppo a Milano siamo rimasti ormai in pochi superstiti di quei tempi così lontani (lui è del 1917 ed io, che talvolta faccio il portabandiera della Sezione, del 1918).
Avrei piacere di conoscere il Vs. programma di iniziative per il 2010, disposto a partecipare ad esse in quanto ciò fosse possibile.
Ringraziando in anticipo, invio i più cordiali saluti
Erminio Gardelli, Ten:Col. T.O.
20010 POGLIANO MIL.SE (MI)
Via Bellini 4, tel. 02,93549783
L'annuncio di un convegno del 2004
Misconosciuto per decenni, il tema ella Prigionia di Guerra è venuto alla ribalta in queste settimane a seguito delle vicende del conflitto irakeno. Fra gli specialitsti il tema della Prigionia di guerra era all’attenzione in quanto il conflitto nei Balcani (1992-1995) aveva riproposto temi e comportamenti che sembravano ormati assegnati al passato, con l’apertura di campiti di concentramento per bosniaci con trattamenti che ricordano da vicino quelli della seconda guerra mondiale. La vicenda dell’abbattimento delle torri gemelle, l’11 settembre 2001, ha indotto un grande Paese come di Stati Uniti a travalicare le convenzioni in essere sulla Prigionia in genere pur di assicurare la propria sicurezza. Quanto sta accadendo a Guantano Bay né è una dimostrazione. A margine del conflitto in Afganistan contro i talebani e ora in Irak si sono riproposti comportamenti sul trattamento dei Prigionieri che offendono la nostra civiltà ela nostra coscienza civile.
L’Istituto di Storia e Scienze Militari Europee, in essere per volontà della Associazione Nazionale Reduci, ha promosso una Tavola Rotonda per martedì 8 giugno 2004 ore 17 all’Auditorium Cavour Piazza Adriana 3 a Roma sul tema “I Prigionieri di Guerra e le Convenzioni Internazionali”. Interverranno il Prof. Antonello Bigini, ordinario di Storia dell’Europa Orientale e la Prof.ssa Maria Rita Saulle, ordinario di Diritto Internazione, entrambi della “Sapienza” di Roma che tratteggeranno gli aspetti storico- ordinativi e giuridici della Prigionia e del suo impatto nei conflitti e nella conduzione e conseguenze dei conflitti stessi. Interverrà inoltre il sen. Gen.Umnerto capotto, Vice Presidente della Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, già Prigioniero di guerra ad El Alamein e diretto testimoni di questo aspetto della guerra.
Per sottolineare come il fenomeno della prigionia si all’attenzione presso gli specialiti dei conflitti sarà presentato l’11° volume del Quaderni della ANRP dal titolo “I prigionieri di Guerra nella Storia d’Italia”, che rappresenta lo strumento di veicolazione di ricerche e studi e pubblicazioni iniziate nel 1995. Ricerche che hanno interessato, oltre la prigionia in genere nelle sue strutture ed articolazioni, anche nelle sue forme, come l’Internamento e la Deportazione, e hanno spaziato nelle vicende della Prigionia Militare Italiana, sia dei conflitti postunitari e della Prima guerra Mondiale, come pure della Seconda guerra Mondiale, come la prigionia in mano agli Stati Uniti, ai Francesi e nei territori Francesi, alla Gran Bretagna, alla Unione Sovietica e negli altri paesi coinvolti nel conflitto, in un quadro generale di ricerca che considera la Prigiona del 1943-1945, come uno dei fronti della Guerra di Liberazione Nazionale, accanto all’azione del Regno del Sdu, al movimento partigiano al nord, all’internanento in Germania, alla resistenza dei militari italiani all’estero e, appunto, alla prigionia.
Saranno presenti di autori, Dott Massimo Coltrinari, Prof. Anna maria Isastia e Porf. Enzo Orlanducci che da oltre dieci hanno approfondito, in numerevoli convegni e seminari di studi, il tema della prigionia militare nell’assunto che lo studio di questo aspetto dei conflitti, nei suoi risvolti giuridici, economici, sanitari, politici, umanitari, possa abbassare il livello di violenza in generale, di violenza bellica in particolare nei conflitti stessi, elevando il tasso di sicurezza per le persone non direttamente coinvolte e, in ultima analisi, come strumento indiretto per il mantenimento ed il rafforzamento della pace.