Silvano Canarrutto[1]
Probabilmente è sempre esistita, nell’ambito dei conflitti che hanno scandito la storia, quella serie di comportamenti che tendono a veicolare, verso più o meno determinati gruppi umani quelle informazioni, notizie o sensazioni capaci di influenzarne la percezione del mondo e quindi il comportamento.
Tra questi vanno ricompresi, ad esempio, i cimieri posti sugli elmi dei combattenti sin dall’antichità, tesi a far apparire il guerriero più prestante di quello che era in realtà e quindi intimorire l’avversario allo scopo di diminuirne la fiducia in sé stesso e quindi la determinazione a combattere.
E’ peraltro sintomatico che tali tipi di ornamenti sopravvivono tutt’ora nelle divise storiche di militari, quali il colbacco od il pennacchio portati dalle uniformi di rappresentanza di taluni reparti o anche il diffuso ricorso alle spalline, tutti accorgimenti che fanno apparire il militare più prestante di quanto egli effettivamente sia.
Effetti simili erano e sono ricercati da canti o dalle urla di guerra, ma tra essi vanno anche ricompresi il rumore generato dal ritmato battere dello sfollagente contro lo scudo di plastica, effettuato dai componenti i Reparti antisommossa preposti all’ordine pubblico prima “della carica” nel corso delle manifestazioni di piazza.
Comportamenti più articolati possono anche portare alla vittoria nel confronto tra due volontà, senza che vi sia necessità di ricorrere alla forza, come peraltro evidenziato da Sun Tzu già diversi secoli prima di Cristo, o diminuire a tal punto la determinazione a combattere di reparti o Paesi da minarne l’efficienza bellica nel loro complesso. Anche a livello del singolo, si osserva che un militare che, torto o ragione, è convinto di dover morire nell’immediato futuro, è probabile metterà in opera comportamenti tali da favorirne l’effettiva morte in combattimento oppure, all’opposto, l’autolesione o la diserzione.
Nel complesso, si tratta di attività poste in essere quindi sia nei confronti delle forze proprie od amiche allo scopo di rafforzarne la volontà di combattere che nei confronti di forze indecise o neutrali, per influenzarne in senso favorevole il loro comportamento che nei confronti delle forze opponenti per diminuirne l’efficacia bellica. Nel primo caso si fa riferimento alla necessità di tutelare la coesione dei Reparti o dello strumento militare nel suo complesso, anche attraverso la repressione di taluni comportamenti, statuita dai codici penali militari e dai regolamenti di disciplina militare, ma soprattutto attraverso la valorizzazione di quei simboli e valori tipici della comunità d’appartenenza quali possono essere le tradizioni nazionali, la difesa dei diritti fondamentali, le radici religiose, le tradizioni militari, la fiducia nelle proprie capacità, ecc.
Nel caso di attività poste in essere nei confronti di forze avversarie, si opera nel senso di ottenere l’effetto opposto e va evidenziato che, ove ciò sia coronate da successo, viene conseguita una significativa diminuzione delle perdite umane in entrambi gli schieramenti, proprio per effetto della minor determinazione a combattere venuta a crearsi in una delle fazioni.
Ciò era noto sin dall’antichità, come evidenziato da Flavio Vegezio nelle “Istituzioni militari dei romani” (378 d.c), ove veniva indicato come fosse ritenuto di particolare rilievo riuscire a minare la fedeltà dei soldati nemici per portarli alla diserzione, che risultava di maggior effetto sull’avversario rispetto alla loro uccisione in combattimento.
A partire dal XIX secolo, tali tipologie di attività vengono progressivamente ricomprese nella propaganda, terminologia introdotta per estensione della locuzione latina de propaganda fide, denominazione dell’organizzazione del Vaticano preposta all’indirizzo delle attività missionarie ed assume il significato odierno di “azione intesa a conquistare il favore o l’adesione di un pubblico sempre più vasto mediante ogni mezzo idoneo ad influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse[2]”.
Tali attività, messe pesantemente in atto nel secolo scorso con i più svariati mezzi soprattutto dai regimi totalitari (gli appassionati di filatelia ricorderanno, ad esempio, la serie di francobolli “propaganda di guerra”, edita dall’Italia nel 1942) ha però anche portato a manipolazioni tali della realtà talmente evidenti da far conseguire alla parola stessa un connotazione negativa: emblematica in tal senso l’esclamazione “è tutta propaganda”.
Sotto il profilo militare, oggi si preferisce ricorrere alla dizione “operazioni psicologiche”, che si pongono l’obiettivo di influenzare o modificarne il comportamento di determinati gruppi d’individui in senso favorevole alle proprie forze convogliando loro informazioni appositamente selezionate oltrechè “confezionate” proprio in funzione del gruppo da raggiungere, riservando semmai e talvolta impropriamente il termine “propaganda” a quella analoga sfera d’attività posta in essere dalla Forza opponente.
Le attività realizzate nell’ambito delle operazioni psicologiche possono per certi versi essere paragonate a quelle condotte da un’azienda per collocare sul mercato un determinato prodotto o da un partito per guadagnare il favore degli indecisi durante la campagna elettorale.
Peraltro, uno dei pilastri delle operazioni psicologiche è la presentazione di dati e attività reali o veritieri, non tanto per considerazioni di carattere etico ma piuttosto per non correre il rischio di bruciare la credibilità dell’intero sistema e quindi la possibilità di influenzare il comportamento del “target” selezionato.
Si tratta in sostanza del principio della pubblicità ingannevole, che però raramente trae in inganno più di volta, specie in un mondo ove le informazioni posso essere confermate o contraddette da vari osservatori, ma soprattutto distribuite a milioni di utenti con una velocità inimmaginabile sino a pochi anni fa: ad esempio, una foto digitale “scattata” con il proprio telefonino, può essere trasmessa praticamente in tempo reale a qualsiasi rete televisiva e diffusa via satellite sull’intero pianeta.
Non va dimenticato che proprio la velocità dei mezzi di comunicazione e la loro capillare diffusione costituiscono sia la forza di un moderno sistema decisionale, in quanto se consente tempestive decisioni al variare delle situazioni e quindi la gestione attiva degli eventi, sia l’intrinseca condizione di vulnerabilità, proprio per la capacità di influenzare il comportamento anche del proprio personale, ivi compreso quello coinvolto nella catena decisionale.
In tale quadro, le operazioni psicologiche non utilizzano il così detto “hard power” ossia la violenza fisica, ma ne possono trarre spunto per enfatizzare l’effetto psicologico che ogni azione bellica indubbiamente genera nei confronti dei soggetti coinvolti, proprio allo scopo di determinare nei riguardi dell’audience selezionato specifici e determinati comportamenti.
Sotto tale premessa, quindi, famose attività condotte in passato in ambito nazionale, aventi come protagonista Gabriele D’Annunzio nel corso della prima guerra mondiale con il rilascio di volantini durante il volo su Vienna o nel corso del forzamento della baia di Buccali e che indubbiamente portarono a reazioni da parte del vertice militare austriaco, potrebbero oggi non essere etichettabili quali “operazioni psicologiche”. Ciò non tanto per lo scarso rilievo ai fini della condotta della guerra, quanto per la mancanza di un ben determinato “effetto atteso” pianificato a priori.
L’approccio che invece probabilmente ha conseguito nei conflitti tradizionali i migliori risultati è stato quello che ha combinato gli effetti psicologici sui combattenti derivanti da azioni militari “hard power” (quali, ad esempio, il ricorso a bombardamenti condotti sia attraverso mezzi aerei che con l’artiglieria) con la diffusione d’informazioni attuata attraverso la distribuzione volantini, l’utilizzo di trasmissioni radio e altoparlanti portati in prossimità delle linee, attività queste ultime appartenenti alla sfera delle operazioni psicologiche.
In tal senso, un esempio di successo è sicuramente quello riportato dall’ organizzazione adottata per l’esecuzione delle “psyops” da parte dall’Esercito americano nel corso della guerra per la liberazione del Kuwait, ove fu attuato un approccio per “building blocks” che come noto, culminò con la resa senza combattere di circa 100.000 soldati dell’Iraq.
Più nel dettaglio, il “Rapporto al Congresso degli Stati Uniti” dell’aprile 1992 sulla guerra del Golfo evidenzia l’utilizzo massiccio di volantini (29 milioni di copie) attraverso cui furono veicolati messaggi ad intensità crescente. All’inizio l’accento fu posto sui principi di “pace e fratellanza”, successivamente l’enfasi fu spostata sulla data del 15 gennaio, fissata dalle Nazioni Unite quale limite per il ritiro dal Kuwait. Con l’inizio dei bombardamenti fu posto l’accento sull’abbandono dei propri mezzi o dei sistemi d’arma, in quanto costituivano il vero bersagli delle incursioni. Ciò era talvolta unito alla notifica del prossimo bombardamento della specifica unità e sulla opportunità di disertare od arrendersi, ponendo l’accento sul trattamento umano che avrebbero ricevuto e sui comportamenti da tenere per un avvicinamento alle forze della coalizione il più possibile sicuro.
Oltre all’utilizzo dei volantini, furono organizzate trasmissioni radio per fornire ai militari dell’Iraq notizie sull’andamento delle operazioni, messaggi di contrasto alla propaganda di regime oltre, ovviamente, all’incoraggiamento alla resa ed alla diserzione.
Le attività furono completate attraverso l’esteso utilizzo di altoparlanti ad alta potenza, distaccati presso ciascuna unità di manovra sino a livello brigata che diffondevano analoghi messaggi.
Ovviamente, la lingua utilizzata per “i prodotti” delle psyops (volantini e trasmissioni di informazioni via radio o tramite gli altoparlanti) era l’arabo ed i contenuti erano studiati e predisposti da appositi team composti anche sociologi, psicologi, ecc .
Ma anche la NATO ha fatto ricorso ad operazioni psicologiche sia durante lo schieramento della forza d’implementazione (IFOR), successivamente denominata di stabilizzazione (SFOR) in Bosnia Herzegovina, che in occasione della crisi nel Kossovo.
Nel primo caso le operazioni, formalmente denominate “IFOR Information Campaign”, hanno primariamente teso ad informare sia la popolazione che le fazioni antagoniste sulla missione assegnata alla forza NATO allo scopo di prevenire non volute interferenze che potessero sfociare nell’uso non necessario della forza.
Successivamente fu posto l’accento sul rispetto degli accordi di pace stipulati a Dayton, sulle capacità militari della Forza schierate, idonee anche per imporre eventualmente la pace, sulla “robustezza” delle regole d’ingaggio in vigore e per invitare la popolazione a cooperare. In sostanza, era stata diffuso il messaggio che la NATO, differentemente dalle precedenti azioni di peace keeping condotte nel territorio della ex Jugoslavja e culminate con le stragi di Sebrenica, disponeva sia delle capacità che della volontà di adempiere alla propria missione anche attraverso l’uso della forza.
Anche durante la crisi del Kossovo sono state condotte simili attività sia attraverso la diffusione di volantini (oltre 100 milioni di copie diffuse sul territorio d’operazioni) che di mirate trasmissioni radio tese a sminuire l’efficacia della “propaganda” Serba diffusa dalla Televisione di Stato. Come noto, quest’ultima emittente, che probabilmente si è rivelata come il più efficace sistema d’arma contraereo a disposizione della Serbia per la sua capacità di impatto sull’opinione pubblica occidentale e quindi sulla libertà d’azione dei vertici militari della NATO, fu comunque oggetto di specifica azione di bombardamento (attività che non è ricompresa nelle operazioni psicologiche).
Operazioni psicologiche sono state condotte sia per la campagna dell’Afghanistan che per la successiva operazione di liberazione dell’Iraq ove sono stati effettivamente conseguiti determinati risultati a livello tattico o a livello locale. Peraltro continuano a sussistere difficoltà per la scarsa “attitudine” del mondo arabo in generale e delle popolazioni direttamente coinvolte nei confronti degli USA.
Non va peraltro sottaciuto che il cittadino qualunque del mondo arabo tende ad accomunare Occidente, Alleanza atlantica e Stati Uniti in una visione neo – imperialista anche in virtù del recente passato di taluni paesi europei – tra cui l’Italia – che hanno fatto in passato uso di armi di distruzione di massa nei suoi confronti, in cui l’asserita democrazia è un valore solo se il partito eletto è favorevole agli USA, contrari ai diritti del popolo palestinese e rivolti semmai a favore di Israele che indebitamente occupa anche Gerusalemme, città santa per l’Islam, ecc. ecc.
Sono percezioni che sicuramente non concorrono al successo delle operazioni militari in atto in Iraq ed Afghanistan, in cui l’Italia non è un attore di secondo piano.
Ci si ponga nei panni del comandante di turno che deve farsi accettare dalle locali comunità per espletare la missione assegnatagli e quindi comunicare con le stesse non solo attraverso i vertici, ma anche verso “la base”, atteso che la stessa è raggiunta da una serie d’informazioni usualmente presentate in maniera non benevole nei confronti dell’occidente in genere e talvolta false, veicolate sia attraverso i media (al jazeera in primis) che dal tam tam costituito dalle predicazioni nelle moschee.
In tale ambito va collocata la determinazione del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito di costituire un reggimento devoluto all’effettuazione di operazioni psicologiche, ossia capace di generare quei team da distaccare presso le unità di manovra e quindi attrezzando le F.A. nazionali con una capacità che è in via di generale sviluppo in ambito NATO proprio in virtù delle esperienze maturate nei Balcani e in corso di consolidamento in Iraq ed Afghanistan.
Occorre peraltro evidenziare che anche la mancanza della capacità di condurre operazioni psicologiche può avere effetti controproducenti anche in altri teatri: un esempio in tal senso può essere individuato nella crisi dell’Albania del 1997. Secondo taluni osservatori la crisi fu aggravata proprio dal modo in cui fu trasmessa l’informazione da parte dei canali TV nazionali, ricevuti in gran parte dell’Albania con il consueto uso di iperboli descrittivi della situazione locale (definita senza controllo, crisi gravissima, incapacità di gestione, totale collasso delle forze dell’ordine, ecc).
Tali informazioni, unite ad una visione dell’Italia basata sull’informazione pubblicitaria tarata e confezionata ad uso del consumatore italiano, sicuramente più attrezzato nei confronti delle sirene pubblicitarie, ha contribuito a rafforzare nel cittadino albanese la convinzione ad emigrare nell’ Amerika posta giusto dall’altra parte dell’Adriatico, ponendo in crisi soprattutto l’area pugliese.
In tal senso, forse, un’opportuna operazione psicologica, basata sull’effettiva realtà ma con un linguaggio maggiormente “tarato” sulla realtà sociale dell’Albania avrebbe forse potuto contribuire a ridurre il flusso migratorio (per confronto, gli albanesi che raggiungevano il territorio nazionale erano denominati “profughi” dai media, parola che riveste però ben altre connotazioni in materia di diritto d’asilo) e forse ad evitare l’adozione dello stato d’emergenza, per certi versi culminato con la tragedia della collisione fra la Corvetta Sibilla della Marina Militare e l’Unità albanese Kati Raider.
Peraltro, l’Italia allora non disponeva di reparti preposti all’esecuzione di operazioni psicologiche e la storia non si realizza con i se o con i ma…..però puo’ costituire un’esperienza da valorizzare per il futuro.
[1] Studioso di problemi geostrategici. Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia e Medaglia d’Argento al merito di Marina.
[2] Da Il dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Giancarlo Oli, ed. Le Monnier
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