Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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giovedì 17 luglio 2008

Monte Marrone e Montelungo

Riceviamo, daGiovanni Battista Corvino, combattente in Russia e della Guerra di Liberazione la seguente lettera che pubblichiamo:

Egregio Dr. Coltrinari
Ritengo di esserci conosciuti a Caserta, in occasione di un incontro con l’Associazione Internati e Guerra di Liberazione, comunque mi presento:
sono Corvino Giovanni Battista, classe 1922 appartengo a quelli d’Aosta ’41sono stato promosso sottotenente il 15 febbraio 1942. Ho partecipato con il Battaglione “Val Cismon”del 9° Reggimento Alpini della Divisione “Julia”, come comandante di plotone fucilieri alla campagna di Russia, sono stato ferito in combattimento il 28 dicembre 1942 al famoso quadrivio insanguinato di Selenij-Yar. Nel 1952 mi è pervenuta una Medaglia di Bronzo al Valor Militare per il fatto d’armi del 28 dicembre. L’8 settembre, sempre con il “Val Cismon” ero nell’alta Val d’Isonzo, zona slava. Dopo i vari ripensamenti decisi di scendere al Sud. Ad Ancona fui catturato dai tedeschi e dopo 15 giorni di prigionia nella caserma Cialdini, paventando di essere internato, riuscii a fuggire, e dopo varie peripezie il 13 ottobre attraversai le linee tra Guglionesi e Montenero di Bisaccia (Termoli).
Ripresentatomi al Sud sono stato uno dei primi ufficiali ad appartenere,dopo l’8 settembre, ad un gruppo di Alpini denominato “Reparto Esplorante Alpini” poi divenuto Battaglione “Taurinense” ed infine “Battaglione Piemonte”. Con il Battaglione “Piemonte” sempre come comandante di plotone fucilieri, 3 Compagnia I Plotone ho partecipato alla Guerra di Liberazione. Il 29 maggio 1944 a Madonna del Canneto sono stato decorato di una Medaglia di Bronzo sul campo.
^^^^^
Ebbene, leggo su “Il Secondo Risorgimento d’Italia” e le varie pubblicazioni sulla guerra di Liberazione, ma devo constatre che in realtà viene dato poco risalto ad avvenimenti di notevole importanza. E’ pur vero che l’8 dicembre 1843, solo dopo 3 mesi dalla resa incondizionata, vi è stato a Montelungo, con il I Raggruppamento Motorizzato, l’inizio ed il battesimo di fuoco della partecipazione italiana alla guerra di Liberazione, tra lo scetticismo degli Anglo-americani, pertanto rimane una data storica, anche se la volontà di riscatto degli italiani era stata dimostrata lo stesso 8 settembre a Porta San Paolo dai Granatieri di Sardegna. La battaglia di Montelungo, come Lei sa, meglio di me; non diede risultati eclatanti per vari motivi ( scarsa preparazione morale e materiale, scarso equipaggiamento, improvvisazione, condizioni atmosferiche proibitive) per cui gli Anglo-americani continuarono ad essere scettici. Dovettero trascorrere oltre 3 mesi perché venisse concessa un’altra prova. Ciò avvenne il 31 marzo 1944, con la conquista, da parte degli Alpini del Battaglione “Piemonte” di Monte Marrone, con azione frontale, ritenuta impossibile dagli Anglo-americani che dagli stessi avversari tedeschi, ma maggiormente stupì la difesa di Monte Marrone dall’attacco dei tedeschi il 9-10 aprile (notte di pasqua).Furono questi gli episodi che convinsero gli Anglo-americani sulla validità e necessità di avere gli Italiani al loro fianco. Infatti il I raggruppamento Motorizzato fu ampliato e denominato Corpo Italiano di Liberazione e dopo il comportamento nell’avanzata sul settore Adriatico fino alla linea Gotica. Il C.I.L. fu ampliato e trasformato in Gruppi da Combattimento, armato ed equipaggiato con materiale inglese ed inserito nella primavera del 1945 fino alla fine del Conflitto.
Io credo perché non mettere in risalto che l’Esercito Italiano, nato a Montelungo ha avutoi il suo consolidamento nelle terre dell’Alto Molise, sulle Mainarde perché le date del 31 marzo e 9 e 10 aprile 1944 non vengono mai citate.
La storia deve sapere tutta la verità, il vero con tributo alla Guerra di Liberazione dell’Italia è stato dato dalle truppe regolari italiane, inserite a Montelungo l’8 dicembre 1943 e consolidatesi nell’alto Molise sulle montagne delle Mainarde, a Mnte Marrone il 31 marzo ed il 9 e 10 aprile 1943. Ritengo che sarebbe doveroso ogni volta che si cita Montelungo 8 dicembre 1943, si affianchi Monte Marrone 31 marzo e 9 e 10 aprile 1944.
Mi scusi per quanto Le ho scritto, sperando di trovarLa d’accordo, nel mentre mi è gradita l’occasione per cordialmente salutarLa. Giovanni Battista Corvino
Foggia 12 luglio 2008.
Rispondiamo:
Non si può non essere d’accordo con quanto scrive Covino. L’una nota che possiamo aggiungere è che la parola “rinato” riferita all’Esercito Italiano a Montelungo, non sembra, a nostro parere, appropriata. Rinascere significa nascere due volte. Per noi vi è una continuità, anche in presenza di una crisi armistiziale come quella dell’8 settembre, per le Forze Armate Italiane che rappresentano la continuità dello Stato. Questo concetto per noi si esplica nell’approccio che abbiamo adottato per la Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti, a cui rimandiamo.
Nel solco di quanto detto e proposto da Corvino, possiamo dire che il calendario Associativo per il 2009 sarà dedicato alla epopea di Monte Marrone e al Battaglione Piemonte. (redazionale)

Il Treno con le stellette: Il reggimento Genio Ferrovieri


di
Giovanni Cecini

L’uomo, in quanto “animale sociale”, ha connaturato l’istinto ed il desiderio di comunicare e quindi di allargare il suo spazio circostante. Nei secoli le invenzioni si sono succedute a ritmi sempre più incalzanti accrescendo, anche nel contesto relazionale e di mobilità, le occasioni per rendere l’essere umano più vicino o più lontano - a seconda dei casi - dai suoi simili.
Il “viaggio”, con i suoi connotati di scoperta, profitto economico, svago, ha ricoperto costantemente una centralità non da poco negli interessi e negli stimoli antropologici tanto che ancora oggi, benché tutto l’esplorabile sembra già noto, ci si spinge ancora oltre alla ricerca del perenne inesplorato.
Il treno, in epoca di satelliti e jet supersonici, potrebbe sembrare un po’ attempato, apparire lento e goffo ma proprio questa “anzianità di servizio” lo rende ancora più familiare a tutti, giovani ed adulti e oggetto per questo di spensieratezza e di gioia come di rispetto e di terrore, capace ancora di suscitare forti emozioni. La carrellata di episodi può spaziare a dismisura dal cinema alla letteratura fino a toccare le corde dei nostri ricordi personali: dalla paura degli ingenui spettatori del cinematografo che si rintanarono dietro le poltrone della sala alla prima dei fratelli Lumiére, alle risa provocate dal duo Troisi-Benigni alle prese con un Leonardo da Vinci macchinista di un improbabile locomotiva del “quasi 1500”, dal mistero di Agatha Christie sul lussuoso Orient Express fino ad un qualsiasi addio all’amata magari con fazzoletto bianco in una nebbiosa stazioncina di provincia. Tutti tasselli di un grande mosaico chiamato più semplicemente: treno, ferrovia, binario. Ecco quindi che in questa ottica ormai forse nessuno fa più caso alla prima metà dell’800 in cui “il cavallo di ferro” faceva i primi passi e rappresentava qualcosa di innovativo e per questo incerto, perché ancora in embrione tra gli “alambicchi” dei vari Seguin, Stephenson, Bayard.
Ovviamente anche le istituzioni militari in tutto il mondo, compresero ben presto l’utilità della nuova macchina e la fecero loro, rendendo gli spostamenti di truppe e materiali - e di conseguenza le guerre - più dinamici e veloci. In Italia, il Corpo militare del Genio Ferrovieri ebbe origine ufficialmente come “Brigata” nel 1873, in stretto contatto con lo sviluppo stesso dell’invenzione “treno”, ma esercitò la sua maturazione nel periodo della Prima Guerra Mondiale, quando la mobilitazione di massa per lo sforzo bellico imponeva parallelamente un adeguato impiego dei trasporti per uso militare. In questo frangente, per le sue peculiarità, la ferrovia si rivelò subito la regina delle comunicazioni anche per scopi bellici, dopo che da decenni aveva guadagnato la scena mondiale non solo surclassando il cavallo, la carrozza e la nave, ma creando intorno a sé una sorta di mito formatosi negli anni alimentato dal fascino delle locomotive sbuffanti o dei panorami sfuggenti dei finestrini.
Il Corpo partecipò a tutte le campagne e operando nei vari i teatri operativi occupandosi non solo del trasporto di truppe e merci militari, ma anche della progettazione e costruzione di intere linee ferroviarie, ponti e quant’ altro fosse necessario per il regolare traffico su ferro, fornendo quell’apporto logistico indispensabile per la normale ed eccezionale sopravvivenza dei rifornimenti militari in pace ed in guerra. Il suo particolare contributo, per esempio nell’ultimo conflitto mondiale, è stato assiduo ed efficace al seguito dei nostri soldati impiegati in Africa orientale e settentrionale, in Albania, in Provenza, in Grecia, in Jugoslavia ed in Russia. Ovunque questo corpo “tecnico” - per certi aspetti nascosto agli occhi dei più - si è distinto, ricoprendo quella indispensabile funzione spartiacque tra il ferroviere ed il combattente, autentica spina dorsale dello stesso Regio Esercito.
Dal 1975 l’unità è costituita come Reggimento atipico, che dipende per l'impiego ferroviario nazionale dall'Ispettorato Logistico dell'Esercito e dal Comando delle Forze Terrestri - COMFOTER Genio per quello "Fuori Area" (attività internazionale). Retto da un colonnello il personale è volontario; risulta ordinato suo su un Battaglione Armamento e Ponti (impegnato nella costruzione e nella manutenzione di strade ferrate) con sede a Castel Maggiore in provincia di Bologna ed un Battaglione Esercizio (impegnato appunto nella conduzione stessa dei treni) con sede ad Ozzano dell’Emilia, sempre in provincia di Bologna, trasferitosi dal 2001 dalla precedente sede di Torino presso la Caserma “Cavour”.

Ovviamente in tempo di pace, a maggior ragione nel secondo dopoguerra, i militari del Reggimento, si sono occupati della costruzione e manutenzione del sistema ferroviario italiano per scopi civili, fornendo all’intero Paese un contributo rilevante di slancio “unificante” e ricchezza economica dopo i tristi anni di miseria e distruzioni provocati dalla guerra.
In questa ottica nazionale, il Reggimento Genio Ferrovieri continua a mantenere uno stretto rapporto di collaborazione con le Ferrovie dello Stato (attualmente RFI, Trenitalia e Italferr) anche per fronteggiare i danni alla rete ferroviaria italiana provocati da possibili eventi calamitosi. Acquisita anche in questo ambito una elevata esperienza, ormai la sinergia tra organi militari e civili dello Stato rappresenta la vera carta vincente per fronteggiare al meglio i disastri naturali, quali terremoti e inondazioni, che tanto sconvolgono non solo il territorio in quanto tale, ma soprattutto la quotidianità delle popolazioni coinvolte. Ecco quindi uno dei più importanti contribuiti alla Nazione, quel valore sociale che si espleta sia nell’ordinario che nelle situazioni straordinarie, dove solo l’alta qualificazione professionale può velocemente normalizzare lo stato di crisi.
Il Reggimento addestra i militari volontari - e fino alla riforma delle Forze Armate anche i militari di leva - ed è incaricato di eseguire la manutenzione ordinaria e straordinaria dei raccordi ferroviari militari; provvede al montaggio di piani caricatori militari scomponibili per incrementare le capacità di carico e scarico delle stazioni ferroviarie; costruisce ponti metallici stradali e ferroviari; e per decenni ha fornito, in rinforzo alle Ferrovie, volontari capistazione, macchinisti, deviatori-manovratori ed operai all’armamento.
A ciò si aggiunge l’ attività all’estero che il corpo svolge a seguito delle missioni umanitarie degli organismi internazionali. Ecco quindi la presenza dei suoi uomini e delle sue strutture in Bosnia, in Kosovo, in Eritrea ed in Albania. Questi interventi hanno trovato il plauso dell’opinione pubblica e dato enorme credito al soldato come portatore e costruttore di pace. Proprio la funzione di “costruire” vie di comunicazione e quindi di creare velocemente ciò che è andato distrutto o che era mancante, umanizza ancora di più gli appartenenti al Corpo, percepiti dal cittadino come armati solo di solidarietà e di professionalità. Questo ultimo requisito – e non va dimenticato – è sempre stato un elemento distintivo del corpo, proprio perché anche nel periodo della leva non si limitava a addestrare superficialmente per pochi mesi giovani obbligati al servizio militare, ma creava, assolvendo una vera e propria scuola professionale di elevato livello, quello spirito giusto di alto valore sociale che poteva permettere, attraverso rafferme, uno sbocco lavorativo altamente qualificato da spendere sia in ambito militare che civile.

venerdì 4 luglio 2008

Battle groups. Una realtà Europea

I Battle groups devono essere considerati come il tentativo dell’Unione europea di ritagliarsi il giusto ruolo da protagonista nell’attuale sistema politico internazionale, dotandosi di uno strumento fondamentale per rispondere adeguatamente alle moderne crisi regionali, le quali hanno imposto una rivoluzione delle forze armate.
Il rilancio dell’Unione europea come soggetto politico, tuttavia, passa per la costituzione concreta di un attore unitario e credibile. Gli sforzi dell’Unione nella politica estera, di sicurezza e di difesa sono tangibili, anche se poco pubblicizzati. Il paradosso è proprio nella continuità dell’affermazione ufficiale di una politica di difesa espressa solo in termini di possibilità[1] e la costituzione di una struttura istituzionale deputata alla gestione di una politica di difesa comunitaria. Dal marzo 2000, il Comitato politico e di sicurezza, composto da funzionari di rango ambasciatoriale, si occupa periodicamente della Pesd e costituisce il referente politico immediato per il controllo a livello strategico delle operazioni; il Comitato militare, composto dai Capi di Stato Maggiore, è l’organo tecnico-consultivo dell’architettura difensiva europea e guida, approvandone i lavori, lo Stato Maggiore, gruppo di esperti militari deputati alla cura del Concetto operativo[2] e dell’Operation Plan[3]. Questa struttura a rete ha, al vertice, il Consiglio degli Affari generali e relazioni esterne, riunione dei Ministri degli Affari esteri e all’occorrenza della Difesa dei paesi comunitari, impegnata nell’articolazione nel dettaglio delle linee guida in materia fornite dal Consiglio europeo.
In questa dimensione, i Battle groups stabiliscono il contrappunto operativo dell’Unione.
Essi, quindi, rispondono alla positiva provocazione dell’Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza, Javier Solana, il quale ha sintetizzato in una domanda il punto nodale del problema: “Now, can you imagine a Europe that is just a Europe of dialogue and common positions and no action?[4]
Universale concetto di unità operativa sul terreno, i Battle groups dell’Unione europea traducono le esigenze politiche, strategiche e operative di questa misteriosa entità.
Il progetto comunitario, infatti, aspira alla realizzazione di tredici Battle groups, composti da 1.500 unità ciascuno. Nel progetto originario, questi force packages sono combined - nove di essi saranno multinazionali e quattro nazionali[5] – ma non joint, perchè inizialmente si costituiranno solo componenti terrestri, con un supporto aereo e navale[6] ad hoc. Questa composizione minimalista è indicativa del gap creato tra la loro reale natura e le aspettative riposte nelle forze e l’ampio ventaglio d’operazioni che esse sono chiamate ad assolvere. La cifra distintiva dell’azione dei Battle groups risiede proprio in quest’ultimo punto, poiché esse servono dai noti compiti di Petesberg alle più innovative stand alone e initial entry and rapid response.
Se nel 1992, lo shock dell’inefficienza europea nell’Ex Yugoslavia aveva portato al progetto della Rapid Reaction European Force[7] per servire il pacchetto di Petesberg, l’insieme delle missioni umanitarie e di soccorso, di peace keeping e di peace making, oggi le attuali crisi, come l’operazione Leonte ha dimostrato, hanno bisogno di forze pronte e immediatamente dispiegabili. I Battle groups rendono, quindi, possibili le moderne azioni dell’Unione europea, oltre ad aver ereditato le missioni precedenti. Questo è accaduto perchè il concetto del fuori area è, notevolmente, mutato; infatti, la sicurezza nel proprio territorio, oltre a non corrispondere più alla difesa del proprio territorio, ha imposto una dilatazione degli spazi e moltiplicato le modalità degli interventi. La sicurezza delle aree di interesse o di confine e la possibilità che le crisi regionali si propaghino, internazionalizzandosi, ha spinto gli Stati europei a legittimare interventi fuori dal loro confine e a passare dalle semplici e passive missioni di peace keeping di prima generazione, con l’interposizione fra forze di Stati in lotta, alle crisis management operations. Queste ultime modulano l’intervento, comprendendo tutto l’arco temporale di una crisi, dal suo prepararsi, al suo insorgere fino al ripristino di una condizione di stabilità solida e durevole, svolgendo la missione mentre la crisi è in corso[8].
Le missioni dei Battle groups sono il puntello delle nuove crisis response operations, ma hanno un’altra natura. Essi vengono attivati nella fase iniziale di una crisi, quando un conflitto è già in corso e l’intervento esterno può tentare solo la carta del possibile. Le stand alone, infatti, raccolgono l’insieme delle operazioni da svolgere nel brevissimo o breve termine e sono finalizzate al raggiungimento di un obiettivo particolarissimo[9], mentre l’initial entry and rapid response circoscrive pacchetti di operazioni volte a prepare un intervento in un teatro di crisi in cui essa è al massimo del suo potenziale e solo un atto di forza può separare le parti in conflitto e permettere a un’eventuale missione di peace making. I battle groups sono, quindi, forze “first in, first out”, le prime a spiegarsi nel terreno, compiere la missione assegnata e uscire, lasciando lo spazio a forze stabili.
Quest’articolato approccio è modellato sulle moderne crisi, nelle quali è necessario ponderare l’intervento in ordine della complessità e dello stadio della crisi stessa, passando da una situazione in cui stabilità e pace devono essere ripristinate - peace making – a una in cui esse, già acquisite, devono essere conservate – peace enforcing. I Battle groups sono, quindi, una moderna necessità manifestata in passato con la Forza di Reazione rapida; tuttavia dopo il fallimento di quest’ultima, ci si è resi conto che una forza più piccola e maggiormente reattiva, quindi, realisticamente attivabile nell’arco di cinque giorni, avrebbe meglio coniugato le moderne necessità di risposta alla crisi con le reali forze che i paesi membri dell’Unione erano disposti a fornire.
Nel Vertice di Le Tuquet, del febbraio 2003, Francia e Gran Bretagna si preoccuparono d’offrire un aggiornato e critico punto della situazione, sostenendo la costituzione di forze di terra, aria e mare, ad alta prontezza operativa in grado di dispiegarsi in cinque-dieci giorni dalla chiamata del Consiglio; tuttavia, solo nell’Headline Goal 2010[10] quest’ambizione si concretizzò in un progetto dettagliato.
Il bisogno di fronteggiare minacce dalla natura sfaccettata, ha portato l’Unione europea a dotarsi di strumenti per affrontare la crisi all’inizio, durante il suo sviluppo e nella fase del post conflitto. I Battle groups sono predisposti alla risoluzione della prima, costituendo, come abbiamo già sottolineato, pacchetti di forze per la risposta rapida con Combat Support and Combat Service Support[11].
L’Unione dovrà, quindi, agire in un framework internazionale, servendo con maggior prontezza le richieste dell’Onu e stabilendo con la Nato una partnership paritaria e trasparente, grazie agli accordi di Berlin plus[12] e all’istituzionalizzazione di una cellula di Comando esclusivamente comunitaria all’interno di Shape.
E’ necessaria una parentesi sull’Operation Centre, attivo dal 1° gennaio 2007. Questo costitusce il riferimento degli Headquarters nazionali per le missioni comunitarie, svolte sia in quanto Unione europea che in collaborazione con la Nato. In realtà, nonostante l’innovazione rappresentata, questo prototipo di Headquarters è arrivato come un regalo dopo l’ostacolo posto alla costituzione di uno esclusivamente europeo, del quale si era già scelta la sede di Tervuren.
Tuttavia,“these high readiness joint packages may require tailoring for a specific operation by the Operation Commander. They will have to be backed up by responsive crisis management procedures as well as adequate command and control structures available to the Union. Procedures to assess and certify these high readiness joint packages will require to be developed.”
L’Unione europea sta, quindi, cercando non solo di dotarsi di uno strumento autonomo e credibile, ma pretende un riconoscimento ufficiale. Il Full Operational Capability consiste in una certificazione di questa credibilità operativa, ottenibile con il superamento di una serie di prove di qualità[13], come il collegamento fra gli Headquarters e i livelli operativi, per ottenere l’assegnazione di missioni.
Non è un caso, quindi, che i paesi responsabili della realizzazione del progetto stesso dei Battle groups abbiano sviluppato e messo a disposizione i propri nazionali Operational Headquarters[14] all’interno dei quali pianificare e coordinare a livello strategico le missioni. Per questo motivo sono state individuate nazioni con funzioni di Point of Contact, cioè referenti e responsabili della condotta delle missioni stesse. Tuttavia, se un Headquarters nazionale non fosse disponibile, l’Operation Centre colmerebbe questo vuoto.
La centralità dell’Headquarters può essere compresa solo se la sua funzione viene inserita nel complesso dell’architettura politica attivata in caso di crisi.
Innanzitutto, deve essere approntata una valutazione comunitaria della crisi, un’analisi politica finalizzata alla definizione dell’azione comune; questo documento, definito Crisis management concept, viene realizzato dal Segretariato Generale, il quale lo trasmette successivamente al Comitato politico e di sicurezza e al Comitato militare perchè svolgano la loro funzione consultiva per correggere il documento mentre viene preparato. Il CMC funziona da pezza d’appoggio per la produzione del Military Strategic Options, studio militare di carattere tecnico finalizzato alla ponderazione di tutti gli aspetti dell’operazione, dalle forze necessarie ai rischi. Il Comitato Militare si occupa della sua realizzazione e del suo invio al Comitato politico e di sicurezza che ne valuta l’opportunità politica e lo trasmette al Consiglio europeo. Dopo il giudizio di quest’ultimo, il Comitato militare si occupa dell’approntamento dell’Initiating Military Directive, piano di dettaglio delle operazioni. L’approvazione del Comitato politico e di sicurezza conclude questo complesso iter politico.
Dopo questo ciclo, si apre la fase della definizione dei piani militari nella quale l’European Military Staff si dedica allo sviluppo del Conops e dell’Oplan, secondo quanto precedentemente descritto.
Quest’elaborato flusso è indubbiamente razionale e di garanzia per tutti i paesi; tuttavia, esso è soggetto a una dilatazione dei tempi, soprattutto in caso di mancato accordo, impensabile per operazioni da lanciare in cinque giorni.
Ai paesi membri dell’Unione è, quindi, richiesta una disponibilità per un progetto tutto europeo, da affiancare alla già esistente Nato Response Force. La situazione internazionale decritta non poteva spingere l’unica organizzazione in grado, almeno attualmente, di difendere i suoi membri, a costituire forze di reazione rapida. I Battle groups dell’Unione, quindi, devono affermarsi e trovare uno spazio per evitare una duplicazione di forze, impossibile da sostenere per i paesi europei e destinata a portarli a una fatale scelta, in cui la Nato risulterebbe vincente.
La Nrf è una realtà solida e maggiormente strutturata rispetto ai Battle groups europei[15] e serve le stesse operazioni. E’, quindi, comprensibile il timore di formare con i Battle groups europei una forza aggiuntiva e per questo inutile o improduttiva. Per evitare il ritorno di un moderno monito delle 3D, la Nato e l’Unione hanno istituito un gruppo di contatto, impegnato ad armonizzare le forze. Non si deve dimenticare la complessa mappatura delle appartenenze dei paesi membri della Nato e dell’Unione europea. Senza considerare il caso di paesi membri di entrambi, alcuni sono membri dell’Unione, ma non della Nato oppure altri ne sono semplici osservatori o hanno sviluppato rapporti di collaborazione in attesa d’acquisire la membership. Questa condizione ha sempre creato non pochi problemi per la definizione di una stabile collaborazione, soprattutto per la diffusione d’informazioni riservate che oggi porterebbero a una paralisi dell’attività o alla costituzioni di fazioni nella stessa organizzazione!
Intanto, comunque, i Battle groups sono una realtà funzionante.
Solo il 5% dei due milioni di militari appartenenti ai paesi membri dell’Unione europea è utilizzato per missioni comunitarie; nonostante questo dato irrisorio, in questo momento, circa 70 mila soldati dell’Europa comunitaria, sono impiegati in missioni decise dall’Unione.
Dalla Repubblica democratica del Congo alla Moldova, da Rafah alla Bosnia Erzegovina, dal Fyrom al Kosovo, l’Unione europea è presente con le proprie forze. Questi interventi sono stati caratterizzati da successi e fallimenti, soprattutto per la mancata concessione di mandati precisi.
L’Operazione Concordia è stata svolta con successo, permettendo di dare attuazione agli Accordi di Orhid, dimostrando la produttività dell’Unione europea anche quando i Battle groups non erano ancora stati attivati. Se, successivamente, l’Unione ha dimostrato ancora la sua incisività con operazioni autonome svolte con propri assets[16], perchè non concedere ai Battle groups europei già costituiti la conduzione dell’operazione in Libano?
L’Unione deve, quindi, superare gli ostacoli politici al suo interno, le diffidenze degli stessi paesi membri per comunitarizzare la politica di difesa e colmare i vuoti indicati, soprattutto nella realizzazione di un Headquarters autonomo e nello snellimento delle procedure decisionali. Solamente questi passi permetteranno di superare la diffidenza che ancora aleggia sull’operato dell’Unione e permetteranno a questo soggetto di allineare la sua struttura politica alle sfide moderne imposte dal mantenimento della sicurezza e della stabilità internazionale. ( Fabiana Galassi; fabiana_galassi@hotmail.com)
[1] Dal Trattato di Maastricht alla Costituzione europea, infatti, si può tracciare una linea di continuità che porta l’acquisizione della politica di difesa come competenza esclusiva dell’Unione solo possibile, ma non certa.
[2] Conops è il piano d’impiego delle forze nel tempo e nello spazio per il conseguimento dell’end state.
[3] L’Oplan è il piano dettagliato delle operazioni sul campo.
[4] Conferenza sulla politica europea di sicurezza e difesa, Berlino, 29 gennaio 2007.
[5] Italia, Gran Bretagna, Spagna e Francia hanno annunciato la loro volontà di cosituire gruppi autonomi.
[6] Il raggio d’azione delle operazioni fuori area dei Battle groups, è stato fissato a 6.000 kilometri da Bruxelles. Se la forza di questo strumento sta nel rapido dispiegamento, come non prevedere una disponibilità d’arei e navi per permettere alle truppe di stabilirsi sul terreno dopo quindici giorni dalla chiamata, trasportando tutto l’equipment di cui hanno bisogno per la missione? In più, l’Unione europea non dispone di un proprio tessuto industriale ed è, quindi, totalmente dipendente dalle forniture dei paesi membri, i quali hanno essi stessi problemi di disponibilità, fra l’attesa di un rinnovo del loro arsenale - come l’A400M - e il gioco a incastro dato dal leasing.
[7] La costituzione di una forza di 50/60.000 unità, ripartite in 15 brigate, disponibili in 60 giorni e in grado di rimanere sul terreno per almeno un anno, non doveva far approdare a un prototipo di Forze Armate europee. Prevista nel Headline goal 2003, documento programmatico del Consiglio di Helsinki del dicembre 1999, la Frr avrebbe dovuto stimolare una risposta tutta europea alle crisi, dotando l’Unione di uno strumento militare autosufficiente con un adeguato C2I, punto debole degli Stati europei.
[8] Per questo motivo definire una data d’uscita dei contingenti è praticamente impossibile.
[9] Le non combat evacuation operations – neo – costituiscono l’esempio più comprensibile. Queste operazioni finalizzate all’evacuazione del personale dello Stato operante in un territorio in cui è scoppiata una crisi, hanno bisogno di essere eseguite rapidamente e danno la misura d’azione improntate al conseguimento del risultato e conclusa con il suo raggiungimento.
[10] Documento ufficiale del Consiglio europeo del giugno 2004.
[11] Queste categorie ordinano funzioni che permettono lo svolgimento delle missioni, anche in condizioni estreme. La prima raccoglie la moderna Eletronic Warfare mentre la seconda fornisce un supporto con servizi come il Cimic, la componente medica e l’ausilio geografico.
[12] In base a quest’accordo, l’Unione europea ha potuto sviluppare missioni comunitarie, sfruttando gli assets della Nato.
[13] Finora due Battle groups l’hanno ottenuto, quello composto da Germania, Olanda e Finlandia e quello franco-belga.
[14] Gli Headquarters disponibili sono finora quello britannico di Noorthwood, quello francese di Mont-Valérien, quello greco di Larissa, il tedesco a Postdam e l’italiano Coi, a Roma.
[15] E’ sufficiente pensare alla grandezza di 9.500 unità, servite da una stabile componente joint e forze speciali, e con un Headquarters e un Saceur stabili.
[16] Ovviamente, il riferimento è all’operazione Artemis nella RDC, dove un supporto alla Monuc dell’Onu nella zona dell’Ituri, è stata svolta dell’Unione, sostanziando gli Accordi di Cotonou.

giovedì 3 luglio 2008

Missioni Fuori Area, Peace Support Operations ed i Soggeti Internazionali




Capire, quando si interviene in un conflitto, se si porta veramente la pace o si curano gli interessi degli Stati partecipanti



Che cosa intendiamo per “Missioni fuori area”. E’ un approccio sostanzialmente erede del conflitto bipolare e della guerra fredda, quando i due blocchi, che si estendevano per tutta l’Eurasia e la parte settentrionale del continente americano, controllavano le rispettive aree di influenza, attraverso le proprie organizzazioni sovranazionali di difesa, la Nato ed il Patto di Varsavia. In queste aree ogni sovvertimento dell’ordine e della legge era contrastato e controllato “in primis” dalla Nazione egemone (la Superpotenza) nel caso in specie USA o URSS, e poi dalla coalizione di Stati a loro referenti. Così per l’area sovietica i conflitti sorti come la rivolta nella Germania Orientale del 1953, quella in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 furono tutti repressi dalla potenza egemone. In occidente la contestazione giovanile del ’68 fu assorbita dalle classi al potere.
Ogni intervento era “in area” e, pena lo scoppio di un conflitto generale, mai “fuori dell’area di influenza”. Se un conflitto scoppiava in aree fuori dalla sfera di influenza, le due Superpotenze si combattevano per “interposta persona”, ovvero sostenevano le due parti in conflitto in modo o diretto o indiretto con aiuti e mezzi.
Nel momento in cui, nel 1989 la URSS porta a termine il suo processo di implosione, viene meno una delle due Superpotenze che controlla la propria area di influenza e si creano aree in cui si può intervenire senza che si scateni un conflitto generale. Si hanno, quindi, interventi volti al ristabilimento della pace e della sicurezza che introducono il concetto di “Fuori Area”, ovvero interventi fuori da quella che fino ad allora era considerata la sfera di influenza di una Superpotenza; essendone rimasta in essere una sola, questa non può essere che l’Alleanza Atlantica e la sua organizzazione di difesa, ovvero la Nato. Da organizzazione difensiva che si contrapponeva al Patto di Varsavia, la Nato si trasforma sia concettualmente che territorialmente.
Alla fine degli anni novanta in ambito Nato è stato superato il concetto di “Area” e di “Fuori Area”, in quanto oramai ogni intervento è possibile senza che vi sia un equilibrio da rispettare come al tempo della guerra fredda. Al concetto di “missioni fuori area” si sostituisce quello di Crisis Response, (risposta alle Crisi) concetto che tende ad includere tutte le iniziative possibili in risposta alle crisi, compreso l’intervento militare. Questo concetto, che poi non è altro che la dottrina strategica Nato, a metà degli anni novanta, viene sostituito dal concetto ancora in essere, ovvero quello che e le forze Nato sono chiamate ad operare lì dove richiesto.
Se la Nato si è data una propria dottrina, e quindi per i Paesi Nato può non sussistere il concetto di “area” o di “fuori area” in quanto la Nato è sostanzialmente una organizzazione di Stati “regionale” e non globale, occorre introdurre un concetto per le Organizzazioni di Stati a carattere Globale, ovvero occorre dare una dottrina agli interventi in aree di conflitto all’ONU. La ragione di questa esigenza è da ricercarsi nel fatto che le operazioni sono divenute così complesse che è difficile poter definire come in passato in modo non equivoco che tipo di missione si sta compiendo, ovvero se effettivamente si interveniva per ristabilire la pace o per altri scopi. Di fronte alla sovrapposizione delle esigenze e dei compiti, all’affiancarsi di vari soggetti giuridici, si è giunti ad una definizione onnicomprensiva della missione, non caratterizzandola in modo specifico, ma inquadrandola in un ampio spettro.
E’ stato introdotto, quindi, il concetto di Peace Support Operations, ovvero quelle operazioni che non riguardano la difesa del territorio e dello spazio aereo nazionale e non sono di carattere bellico dichiarato. Il principio di Peace Support Operations ( P.S.O.), discende dall’approccio strategico in essere negli anni ottanta che va sotto il nome di Military Operation Other Than War (MOOTW), ovvero con questo approccio si raccoglie un ampio spettro di attività nel quale le capacità di una forza militare vengono utilizzate per scopi diversi da quello che si può definire “fisiologico”, cioè a dire l’impiego di una forza contro un avversario nel corso di un conflitto o di una guerra, con l’accordo o meno delle parti in conflitto. Quindi una definizione di Peace Support Operations può essere quella in cui si ha l’invio di personale militare, di polizia e civile, sotto comando di una entità giuridica sopranazionale o nazionale per mantenere fuori da scontri e/o conflitti, Stati e/o Comunità mentre sono in corso attività di mediazione per condurre le parti verso una soluzione negoziale e lo schieramento del personale internazionale viene comunque svolto con il consenso delle parti coinvolte, o meno, e per un periodo limitato.
Le caratteristiche delle Peace Support Operations devono rispettare alcuni criteri minimi, che sono in rapida sintesi: a) il rispetto reciproco cioè lo stabilimento di una mutua relazionalità positiva tra la forza e la pace quale che sia la sua natura/dipendenza e le/a parti/e in causa; b) imparzialità nell’assolvimento del compito; c) l’unicità di comando dei contingenti di truppa impiegati; d) credibilità dell’azione con le modalità di applicazione del mandato; e) uso limitato e ragionato della forza con il concetto di “minima proporzionalità”; f) relazionalità chiare, come lo stabilimento di punti di informazione e comunicazione con la/e parte/i, per evitare malintesi soprattutto a danno del/i contingente/i.
Il concetto di “Fuori Area”, peraltro rimane di attualità se si considerano, i soggetti, Organizzazioni sovranazionali o di Stati o altri soggetti, che prendono iniziative di supporto alla pace e di risposta alle crisi in essere “fuori” dai propri limiti istituzionali o in aree “esterne” alla propria zona di influenza e di interesse.[1] E’ necessario quindi vedere chi può organizzare come soggetto le Peace Support Operations e chi, mascherandosi dietro di esse, perseguire propri interessi.
Da un punto di vista strettamente giuridico le Peace Support Operations sono e possono essere organizzate, condotta e gestiste sotto l’egida:
a) Della Comunità Internazionale nella sua globalità
b) Da Organizzazioni di Stati a carattere “Regionale”
c) Da Organizzazioni Sub Regionali (o panregionali o transregionali)
d) Da una Coalizione di Stati costituita ad hoc (Multinazionale) ( La Pace di Alcuni)
e) Da uno Stato singolo ( La Pace di uno solo)

Vediamo in breve e nel pratico chi sono questi soggetti.
Primo Caso: Le P.S.O. gestite e volute della Comunità Internazionale nella sua globalità:
Dall’indomani dell sconfitta Napoleonica i sistemi di controllo e mantenimento della pace dell’ordine furono La Santa Alleanza (1815 –1848), sostituita nel 1856 e fino al 1914 dal Concerto delle Nazioni ( o degli Ambasciatori). All’indomani del Primo Conflitto Mondiale vi su “La Pace dei Vincitori” che durò poco (1919-1925) sostituita dalla “Società delle Nazioni (1925-1945). Dopo il Secondo Conflitto Mondiale si ha l’ Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) (1945 –2006 ed oltre) con tre periodi distinti: il periodo d’oro 1945-1961; il periodo dei veti incrociati (1962-1989) il periodo del caos e delle sconfitte (1989 – 2006 ed oltre)
Secondo Caso: Le P.S.O. gestite e volute della Comunità Internazionale con Organizzazioni di Stati a carattere “Regionale”.
In questo caso i soggetti sono, ad esempio, Il Commonwealth, L’OAU ( Organization of Africa Unity), La Lega degli Stati Arabi (LAS – Leaugue of Arab States), OSCE – Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, La Comunità Europea – l’Unione Europea, La Comunità degli Stati Indipendenti, L’OAS (Organization of American States), L’OIC ( Organization of Islamic States) ecc. Ovvero da Organizzazioni di Stati che si prefiggono di prevenire, gestire e risolvere conflitti in determinate parti del globo con proprie e distinte peculiarità.
Terzo Caso: Le P.S.O. gestite e volute della Comunità Internazionale con Organizzazioni di Stati a carattere “Sub Regionali ( o panregionali o transregionali)
Queste Organizzazioni raccolgono gruppi di Stati all’interno di una specifica area geografica e che operano per il mantenimento della pace all’interno dell’area geografica stessa.

Ma il mantenimento dell’equilibrio o della pace acquisita possono essere anche parte integrante della politica di uno Stato Sovrano che agisce nel proprio e nell’interesse proprio di alcuni Stati, al di fuori delle Organizzazioni Sopranazionali, siano esse globali, regionali o subregionali. La potenza di uno Stato è tale che le missioni per il mantenimento della pace sono organizzate e gestiste nell’ambito della politica di quello Stato, che può scegliere se agire da solo, oppure coinvolgendo altri Stati in una coalizione, di cui però lo Stato proponente rimane il leader indiscusso. In questo caso le operazioni per il sostegno della pace non dispongono del mandato giuridico di una organizzazione internazionale non essendo promosse da un soggetto giuridico internazionale. Giuridicamente, anche se agiscono sulla falsariga di quelle messe in atto su mandato o sotto l’egida di organismi internazionali, hanno un profilo minore e molti le considerano delle sottocategorie delle operazioni per il sostegno della pace, essendo evidente che l’interesse che sottendono ad esse promana da uno o più Stati.
In questo caso si possono avere:

Quarto Caso: Le P.S.O. gestite e volute da Una Coalizioni di Stati, fuori dalla Comunità Internazionale.
Per fare degli esempi, partendo dal passato, Cina 1904, la nota rivolta dei Boxers, con l’assedio dei quartieri delle ambasciate occidentali a Pechino che si protrasse per oltre due mesi, Honduras 1923, Spagna 1936-1939, Alessandretta 1937, Tangeri 1923, Ecuador /Perù I 1941, Ecuador/Perù II 1955, Ecuador/Perù III 1981, Ecuador/Perù IV, MOMEP I 1995, Ecuador/Perù IV MOMEP II 1997, Corea NNSC – (Neutral Nations Supervision Commission), Corea NNRC/NCF ( Neutral Nations Repatriation Commission) (Neutral Custodial Force), Birmania, ICSC/Indovina – 1954, ICCS/Vietnam – 1973, ICCS/ICSC II - 1989, IOTN/Nigeria 1967, SSM/SFM – Sinai 1976, MF&0 (Multinational Force & Observer), MNF I e II Libano,Yemen 1994, Sri Lanka 1995, Ulster, Filippine, Repubblica Centroafricana/MISAB-Cosab, Congo, Albania /FMP Forza Multinazionale di protezione, Grenada, Angola, Moldova/Transnistra, Mozambico, TIPH1 – Hebron Temporary International Presence in Hebron 1994, TIPH II - Hebron Temporary. ed altre. Un elenco di sigle[2] che può continuare, ma che serve a capire la complessità del problema in cui è facile, pescando in questa difficoltà, presentare una missione di pace per quello che non è o viceversa.

Quinto Caso: Le P.S.O. gestite e volute da un singolo Stato, fuori dalla Comunità Internazionale
L’esempio che si può fare è l’intervento della Svizzera all’indomani del primo conflitto mondiale. Neutrale nel conflitto, la Svizzera varò un programma di aiuti umanitari e di stabilimento di regolari traffici commerciali alle neonate Repubbliche dell’Europa Centro Orientale. In quanto i convogli ferroviari attraversarono zone sconvolte da disordini e conflitti, si decise di farli scortare dall’Esercito. Altro esempio, l’intervento della Gran Bretagna a Cipro nel 1954-1955, l’intervento Belga nella crisi del Ruanda-Urundi del 1955

Negli interventi in aree di crisi, quanto si avviano delle Peace Support Operations è essenziale individuare il soggetto giuridico internazionale che le gestiscono; il concetto di “fuori area” può essere utile per comprendere l’entità e la fenomologia del conflitto; il tutto è finalizzato per capire quali siano i reali interessi che si stanno difendendo se quelli enunciati per prevenire, ripristinare e ricostruire la pace oppure per perseguire interessi che con la pace non hanno nulla a che fare.

[1] Durante il periodo della crisi (1992-1995) nella ex-Jugoslavia, ad esempio, L’ONU ricevette a più riprese, date le difficoltà esistenti, l’offerta di invio di contingenti di truppa da parte della OIC (Organization of Islanic Conference) e della LAS (League of Arab States). Per ragioni di opportunità queste offerte furono lasciate cadere. Se fossero state accettate questi contingenti di Organizzazioni Regionali, avrebbero operato “fuori area”.
[2] Una ampia descrizione delle missioni del passato e del presente è in Magnani E., Il mantenimento della pace dal XIX al XXI secolo, in Supplemento alla Rivista Marittima, a. CXXXI n. 4 ( aprile 1988).

mercoledì 2 luglio 2008

Le Peace Supports Operations

Come si interviene. I Diversi tipi di Missione


Per il mantenimento della pace e della sicurezza fra gli Stati, oppure il ripristino della pace e della sicurezza in aree destabilizzate da conflitti, la Comunità Internazionale intraprende azioni, che possono essere tutte racchiuse nel concetto di Peace Support Operations. Questo concetto si materializza sul terreno attraverso realizzazioni operative che vengono comunemente definite “missioni” Scopo di questa nota è quello di definire e comprendere i diversi tipi di “missioni nell’ambito della Peace Supports Operations e le varie combinazioni che tra loro possono interagirsi.
Premessa ad ogni tipo di definizione e il concetto che le missioni sono calibrate in base al tipo di intervento che è richiesto, e quindi hanno un diverso tipo di intensità. Da quelle più blande, via via si aumenta il grado di intensità dell’intervento fino ad un culmine, cioè l’uso vero e proprio della forza, quando non vi sono altre possibilità per ottenere un minimo di sicurezza.
Ogni tipo di “missione” deve avere, quindi, dei parametri comuni, che indichiamo sommariamente: la definizione e nome della “missione”; lo scopo della “missione” chiaro ed inequivocabile, periodo storico in cui si deve svolgere e l’aspetto giuridico entro cui la missione si deve attuare. Senza questi parametri si è al di fuori del concetto di “missione” a sostegno delle Peace Support Operations..
Vediamo quali tipi di missione possono essere definiti, tenendo presente che la materia è in costante evoluzione, sia concettualmente che in dottrina. Iniziano con la “missione” detta Di Buoni Uffici (Fact-finding). L’ONU, e in genere le altre organizzazioni Regionali o sub Regionali, svolgono tutta una serie di operazioni per raccogliere informazioni, monitorare, avere elementi di decisione riguardo una particolare situazione in una determinata area. In pratica sono gli occhi e le orecchie dell’ONU, o della Organizzazione che le ha promosse. La loro composizione e durata varia in funzione della complessità della situazione, toccando questioni politiche, militari, tecniche, elettorali, umanitarie. Strutturalmente sono composte prevalentemente da personale dell’ONU, o della Organizzazione che le ha promosse, anche se possono essere guidate da Personalità di spicco estranee all’ONU stesso. Queste “missioni” di Buoni Uffici operano in un quadro preparatorio per una missione di osservazione o di una vera e propria Peace Support Operations. Esempio: Nell’ aprile 1966 una missione di fact-finding ha visitato il paese della Nigeria per controllare la situazione politica e di sicurezza in vista di una missione di sorveglianza elettorale. Possono seguire missioni di Azioni di Capi Missione, Rappresentanti e Inviati Speciali, Inviati e Rappresentanti Personali, Amministratori provvisori : L’ONU dispone per la sua azione di investigazione politica, diplomazia preventiva e buoni uffici di strumenti che sono accanto alle vere e proprie Peace Support Operations: ovvero i Rappresentanti e gli Inviati Speciali e Personali. Non esiste una gerarchia specifica per queste figure: l’unico dato che le accomuna e che si tratta di personalità di grande esperienza e che godono la figura del Segretario Generale. Esempio: In Yugoslavia dal 1991 al 1993 ha operato come L’Inviato Speciale del Segretario Generale l’americano Cyrus Vance, con lo scopo di riportare la pace in quelle aree secondo le risoluzione dell’ONU. Oltre che in presenza di conflitti, vi possono anche essere eventi come disastri naturali, carestie, epidemia ecc. che impongono di intervenire non solo con le armi. Abbiamo quindi missioni di Assistenza Umanitaria Il concetto di Assistenza Umanitaria è chiaro: occorre portare aiuto da parte della Comunità Internazionale, a popolazioni che ne hanno bisogno a seguito di situazioni che hanno portato per cause diverse al collasso e che hanno messo in discussione la sopravvivenza stessa delle popolazioni colpite. L’esempio classico è l’attività dell’UNRRA, United Nations Reconstrution and Rehabilitation Admistration che svolse il suo lavoro dal 1945 al 1947 nei Paesi Europei sconvolti dalla seconda guerra mondiale. Accanto alle operazioni di Assistenza Umanitaria vi sono le varie missioni di soccorso internazionale avviate a seguiti di disastri naturali o emergenze civili. In questo quadro occorre citare la mobilitazione internazionale di assistenza umanitaria in Estremo Oriente nel 1979 a favore del flusso di rifugiati vietnamiti che a bordo di piccoli battelli ( i Boat people) cercavano di raggiungere le nazioni vicine. L’Italia partecipò a questa operazione inviando l’8° Gruppo Navale composto dalle navi “Vittorio Veneto”, “Andrea Doria” e “Stromboli” che recuperarono e diedero assistenza a centinaia di profughi.
Rientrando nell’alveo diplomatico-militare si deve citare la missione di “Diplomazia Preventiva” (Preventive Diplomacy). Siamo ancora in una fase in cui il peggio può accadere ma non si è manifestato e lo si vuole evitare. Sono azioni tese ad impedire l’accendersi di una crisi o ad allontanarne gli effetti, e si materializzano in negoziati, nella mediazione, nella conciliazione, in azione di buoni uffici e nell’arbitrato.
I tipi di “missioni” seguenti sono quelle classiche relative all’intervento nel quadro delle Peace Supports Operations. Utilizziamo la dizione anglosassone in quanto ormai sono entrate nell’uso comune
Missione di “Peace making”: consiste nell’insieme di attività nelle quali sono presenti iniziative diplomatiche e di mediazione per convincere le parti coinvolte in un conflitto in corso (sia esso intestatale o intrastatale) a raggiungere una forma di accordo.
Missione di “Peacekeeping” consiste, in presenza del fatto che non sono altre possibilità di soluzione del conflitto nell’ invio di personale militare di una terza parte, generalmente sotto l’egida di una Organizzazione Internazionale, che a volte può essere rappresentato da un gruppo di Stati graditi dai contendenti, quale garanzia di una intesa minima già raggiunta tra i contendenti, in genere un cessate il fuoco o una tregua stabile.
A questo tipo di missione può seguire quella di “Peace building” che ha come obbiettivo la costruzione e ricostruzione delle condizioni di Pace e di sicurezza collettiva avendo come premessa, appunto, le attività di Peacekeeping; consiste in tutte quelle attività che consentono la ripresa delle condizioni di vita ordinaria (comprendono programmi di aiuto e ricostruzione economica, sociale, sanitario, educativo-scoalstica ecc.). Collegata alla “missione” di “Peacebuilding” vi è il concetto di “missione” “Nation Building”, ovvero insieme di azioni che la Comunità Internazionale pone in essere per ricostruire uno Stato quando esso si era completamente dissolto. Questa missione può articolarsi in “Nation Building diretto” (es. Somalia, Mozambico, Angola, Ruanda Cambogia) o in “Nation Building indiretto” quando in essere esiste una struttura organizzativa e amministrativa, ma lo Stato non può esercitare la sovranità (es. Albania degli anni ‘90). Sempre collegato al tipo di missione di “Peacebuilding” è il concetto di missione di “ Peacerestoring”, ovvero misure di fiducia reciproca, di buoni uffici e di mediazione protratti nel tempo in una determinata area.
La missione di “Post conflict peace building” presuppone un conflitto a larghe dimensioni, in genere di guerra classica, che prevede l’attuazione di tutte quelle attività che consentono la ripresa delle condizioni di vita ordinaria (comprendono programmi di aiuto e ricostruzione economica, sociale, sanitario, educativo-scolastica ecc.)
La missione di “Peace renforcement “ rappresenta il culmine delle possibilità di intervento da parte di soggetti esterni in un area di conflitto. Sono misure pesanti, che molti osservatori non credono opportuno inserirle nell’ambito delle Peace Support Operations in quanto questo tipo di missione è incentrato in un intervento in cui è previsto l’impiego della forza militare vero e proprio, spesso senza limitazioni o regole di ingaggio a maglie estremamente larghe. E’ chiaro che siano di fronte a casi estremamente gravi e solo metodi forti e draconiani possono permettere il ripristino della pace e della sicurezza nell’area di intervento.
Occorre fare cenno anche al tipo di missione che va sotto il nome di “Peace keeping by proxy - Delegatory Peacekeeping” che consiste nel proseguire le operazioni in essere nel momento in cui una organizzazione a carattere globale incarica una organizzazione regionale o una coalizioni di Stati appositamente formatasi per svolgere operazioni di pace in una determinata area. Il caso più eclatante di questo tipo di “missione” è quello in cui l’ONU uscì dalla diretta gestione delle operazioni sul terreno in Bosnia, passandone il compito alla Nato, la quale, dopo aver svolto un ruolo decisivo nello sbloccare la crisi, che sembrava avvitarsi senza fine su se stessa in un bagno di sangue, è entrata direttamente nella gestione della pace. Le forze dell’ONU furono sostituite da una forza multinazionale a comando ONU, la Implementation Force (Ifor), che poi, dal 20 dicembre 1996, divenne la Stabilization Force (Sfor) e dal 2005, la Nato passa la mano alla Unione Europea che da origine alla Operazione “Altea”.
Il quadro generale descritto del tipo di “ missione”, che sicuramente non è esaustivo della materia, può permettere di invitare il lettore a individuare nelle attuali missioni in atto il loro genere. Ad esempio l’invio delle forze organizzate dalla Unione Africana in Somalia, ed in particolare a Mogadiscio, a seguito dell’intervento dell’Etiopia a sostegno del governo federale e contro le Corti Islamiche per il ripristino della pace e della sicurezza può essere visto come una missione di “peacekeeping” oppure di “peace renforceement”.? La risposta non è semplice, dato il carattere estremamente complicato della situazione in Somalia. Alcuni commentatori propendono per il “peacekeeping” altri per il “peace renforceement”. Questa incertezza sottolinea il fatto che è sempre difficile dare esattamente delle definizioni in questo genere di materie. (coltrinari@tiscali.it)










martedì 1 luglio 2008

Le Psyco operations



Silvano Canarrutto[1]

Probabilmente è sempre esistita, nell’ambito dei conflitti che hanno scandito la storia, quella serie di comportamenti che tendono a veicolare, verso più o meno determinati gruppi umani quelle informazioni, notizie o sensazioni capaci di influenzarne la percezione del mondo e quindi il comportamento.
Tra questi vanno ricompresi, ad esempio, i cimieri posti sugli elmi dei combattenti sin dall’antichità, tesi a far apparire il guerriero più prestante di quello che era in realtà e quindi intimorire l’avversario allo scopo di diminuirne la fiducia in sé stesso e quindi la determinazione a combattere.
E’ peraltro sintomatico che tali tipi di ornamenti sopravvivono tutt’ora nelle divise storiche di militari, quali il colbacco od il pennacchio portati dalle uniformi di rappresentanza di taluni reparti o anche il diffuso ricorso alle spalline, tutti accorgimenti che fanno apparire il militare più prestante di quanto egli effettivamente sia.
Effetti simili erano e sono ricercati da canti o dalle urla di guerra, ma tra essi vanno anche ricompresi il rumore generato dal ritmato battere dello sfollagente contro lo scudo di plastica, effettuato dai componenti i Reparti antisommossa preposti all’ordine pubblico prima “della carica” nel corso delle manifestazioni di piazza.
Comportamenti più articolati possono anche portare alla vittoria nel confronto tra due volontà, senza che vi sia necessità di ricorrere alla forza, come peraltro evidenziato da Sun Tzu già diversi secoli prima di Cristo, o diminuire a tal punto la determinazione a combattere di reparti o Paesi da minarne l’efficienza bellica nel loro complesso. Anche a livello del singolo, si osserva che un militare che, torto o ragione, è convinto di dover morire nell’immediato futuro, è probabile metterà in opera comportamenti tali da favorirne l’effettiva morte in combattimento oppure, all’opposto, l’autolesione o la diserzione.
Nel complesso, si tratta di attività poste in essere quindi sia nei confronti delle forze proprie od amiche allo scopo di rafforzarne la volontà di combattere che nei confronti di forze indecise o neutrali, per influenzarne in senso favorevole il loro comportamento che nei confronti delle forze opponenti per diminuirne l’efficacia bellica. Nel primo caso si fa riferimento alla necessità di tutelare la coesione dei Reparti o dello strumento militare nel suo complesso, anche attraverso la repressione di taluni comportamenti, statuita dai codici penali militari e dai regolamenti di disciplina militare, ma soprattutto attraverso la valorizzazione di quei simboli e valori tipici della comunità d’appartenenza quali possono essere le tradizioni nazionali, la difesa dei diritti fondamentali, le radici religiose, le tradizioni militari, la fiducia nelle proprie capacità, ecc.
Nel caso di attività poste in essere nei confronti di forze avversarie, si opera nel senso di ottenere l’effetto opposto e va evidenziato che, ove ciò sia coronate da successo, viene conseguita una significativa diminuzione delle perdite umane in entrambi gli schieramenti, proprio per effetto della minor determinazione a combattere venuta a crearsi in una delle fazioni.
Ciò era noto sin dall’antichità, come evidenziato da Flavio Vegezio nelle “Istituzioni militari dei romani” (378 d.c), ove veniva indicato come fosse ritenuto di particolare rilievo riuscire a minare la fedeltà dei soldati nemici per portarli alla diserzione, che risultava di maggior effetto sull’avversario rispetto alla loro uccisione in combattimento.
A partire dal XIX secolo, tali tipologie di attività vengono progressivamente ricomprese nella propaganda, terminologia introdotta per estensione della locuzione latina de propaganda fide, denominazione dell’organizzazione del Vaticano preposta all’indirizzo delle attività missionarie ed assume il significato odierno di “azione intesa a conquistare il favore o l’adesione di un pubblico sempre più vasto mediante ogni mezzo idoneo ad influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse[2]”.
Tali attività, messe pesantemente in atto nel secolo scorso con i più svariati mezzi soprattutto dai regimi totalitari (gli appassionati di filatelia ricorderanno, ad esempio, la serie di francobolli “propaganda di guerra”, edita dall’Italia nel 1942) ha però anche portato a manipolazioni tali della realtà talmente evidenti da far conseguire alla parola stessa un connotazione negativa: emblematica in tal senso l’esclamazione “è tutta propaganda”.
Sotto il profilo militare, oggi si preferisce ricorrere alla dizione “operazioni psicologiche”, che si pongono l’obiettivo di influenzare o modificarne il comportamento di determinati gruppi d’individui in senso favorevole alle proprie forze convogliando loro informazioni appositamente selezionate oltrechè “confezionate” proprio in funzione del gruppo da raggiungere, riservando semmai e talvolta impropriamente il termine “propaganda” a quella analoga sfera d’attività posta in essere dalla Forza opponente.
Le attività realizzate nell’ambito delle operazioni psicologiche possono per certi versi essere paragonate a quelle condotte da un’azienda per collocare sul mercato un determinato prodotto o da un partito per guadagnare il favore degli indecisi durante la campagna elettorale.
Peraltro, uno dei pilastri delle operazioni psicologiche è la presentazione di dati e attività reali o veritieri, non tanto per considerazioni di carattere etico ma piuttosto per non correre il rischio di bruciare la credibilità dell’intero sistema e quindi la possibilità di influenzare il comportamento del “target” selezionato.
Si tratta in sostanza del principio della pubblicità ingannevole, che però raramente trae in inganno più di volta, specie in un mondo ove le informazioni posso essere confermate o contraddette da vari osservatori, ma soprattutto distribuite a milioni di utenti con una velocità inimmaginabile sino a pochi anni fa: ad esempio, una foto digitale “scattata” con il proprio telefonino, può essere trasmessa praticamente in tempo reale a qualsiasi rete televisiva e diffusa via satellite sull’intero pianeta.
Non va dimenticato che proprio la velocità dei mezzi di comunicazione e la loro capillare diffusione costituiscono sia la forza di un moderno sistema decisionale, in quanto se consente tempestive decisioni al variare delle situazioni e quindi la gestione attiva degli eventi, sia l’intrinseca condizione di vulnerabilità, proprio per la capacità di influenzare il comportamento anche del proprio personale, ivi compreso quello coinvolto nella catena decisionale.
In tale quadro, le operazioni psicologiche non utilizzano il così detto “hard power” ossia la violenza fisica, ma ne possono trarre spunto per enfatizzare l’effetto psicologico che ogni azione bellica indubbiamente genera nei confronti dei soggetti coinvolti, proprio allo scopo di determinare nei riguardi dell’audience selezionato specifici e determinati comportamenti.
Sotto tale premessa, quindi, famose attività condotte in passato in ambito nazionale, aventi come protagonista Gabriele D’Annunzio nel corso della prima guerra mondiale con il rilascio di volantini durante il volo su Vienna o nel corso del forzamento della baia di Buccali e che indubbiamente portarono a reazioni da parte del vertice militare austriaco, potrebbero oggi non essere etichettabili quali “operazioni psicologiche”. Ciò non tanto per lo scarso rilievo ai fini della condotta della guerra, quanto per la mancanza di un ben determinato “effetto atteso” pianificato a priori.
L’approccio che invece probabilmente ha conseguito nei conflitti tradizionali i migliori risultati è stato quello che ha combinato gli effetti psicologici sui combattenti derivanti da azioni militari “hard power” (quali, ad esempio, il ricorso a bombardamenti condotti sia attraverso mezzi aerei che con l’artiglieria) con la diffusione d’informazioni attuata attraverso la distribuzione volantini, l’utilizzo di trasmissioni radio e altoparlanti portati in prossimità delle linee, attività queste ultime appartenenti alla sfera delle operazioni psicologiche.
In tal senso, un esempio di successo è sicuramente quello riportato dall’ organizzazione adottata per l’esecuzione delle “psyops” da parte dall’Esercito americano nel corso della guerra per la liberazione del Kuwait, ove fu attuato un approccio per “building blocks” che come noto, culminò con la resa senza combattere di circa 100.000 soldati dell’Iraq.
Più nel dettaglio, il “Rapporto al Congresso degli Stati Uniti” dell’aprile 1992 sulla guerra del Golfo evidenzia l’utilizzo massiccio di volantini (29 milioni di copie) attraverso cui furono veicolati messaggi ad intensità crescente. All’inizio l’accento fu posto sui principi di “pace e fratellanza”, successivamente l’enfasi fu spostata sulla data del 15 gennaio, fissata dalle Nazioni Unite quale limite per il ritiro dal Kuwait. Con l’inizio dei bombardamenti fu posto l’accento sull’abbandono dei propri mezzi o dei sistemi d’arma, in quanto costituivano il vero bersagli delle incursioni. Ciò era talvolta unito alla notifica del prossimo bombardamento della specifica unità e sulla opportunità di disertare od arrendersi, ponendo l’accento sul trattamento umano che avrebbero ricevuto e sui comportamenti da tenere per un avvicinamento alle forze della coalizione il più possibile sicuro.
Oltre all’utilizzo dei volantini, furono organizzate trasmissioni radio per fornire ai militari dell’Iraq notizie sull’andamento delle operazioni, messaggi di contrasto alla propaganda di regime oltre, ovviamente, all’incoraggiamento alla resa ed alla diserzione.
Le attività furono completate attraverso l’esteso utilizzo di altoparlanti ad alta potenza, distaccati presso ciascuna unità di manovra sino a livello brigata che diffondevano analoghi messaggi.
Ovviamente, la lingua utilizzata per “i prodotti” delle psyops (volantini e trasmissioni di informazioni via radio o tramite gli altoparlanti) era l’arabo ed i contenuti erano studiati e predisposti da appositi team composti anche sociologi, psicologi, ecc .
Ma anche la NATO ha fatto ricorso ad operazioni psicologiche sia durante lo schieramento della forza d’implementazione (IFOR), successivamente denominata di stabilizzazione (SFOR) in Bosnia Herzegovina, che in occasione della crisi nel Kossovo.
Nel primo caso le operazioni, formalmente denominate “IFOR Information Campaign”, hanno primariamente teso ad informare sia la popolazione che le fazioni antagoniste sulla missione assegnata alla forza NATO allo scopo di prevenire non volute interferenze che potessero sfociare nell’uso non necessario della forza.
Successivamente fu posto l’accento sul rispetto degli accordi di pace stipulati a Dayton, sulle capacità militari della Forza schierate, idonee anche per imporre eventualmente la pace, sulla “robustezza” delle regole d’ingaggio in vigore e per invitare la popolazione a cooperare. In sostanza, era stata diffuso il messaggio che la NATO, differentemente dalle precedenti azioni di peace keeping condotte nel territorio della ex Jugoslavja e culminate con le stragi di Sebrenica, disponeva sia delle capacità che della volontà di adempiere alla propria missione anche attraverso l’uso della forza.
Anche durante la crisi del Kossovo sono state condotte simili attività sia attraverso la diffusione di volantini (oltre 100 milioni di copie diffuse sul territorio d’operazioni) che di mirate trasmissioni radio tese a sminuire l’efficacia della “propaganda” Serba diffusa dalla Televisione di Stato. Come noto, quest’ultima emittente, che probabilmente si è rivelata come il più efficace sistema d’arma contraereo a disposizione della Serbia per la sua capacità di impatto sull’opinione pubblica occidentale e quindi sulla libertà d’azione dei vertici militari della NATO, fu comunque oggetto di specifica azione di bombardamento (attività che non è ricompresa nelle operazioni psicologiche).
Operazioni psicologiche sono state condotte sia per la campagna dell’Afghanistan che per la successiva operazione di liberazione dell’Iraq ove sono stati effettivamente conseguiti determinati risultati a livello tattico o a livello locale. Peraltro continuano a sussistere difficoltà per la scarsa “attitudine” del mondo arabo in generale e delle popolazioni direttamente coinvolte nei confronti degli USA.
Non va peraltro sottaciuto che il cittadino qualunque del mondo arabo tende ad accomunare Occidente, Alleanza atlantica e Stati Uniti in una visione neo – imperialista anche in virtù del recente passato di taluni paesi europei – tra cui l’Italia – che hanno fatto in passato uso di armi di distruzione di massa nei suoi confronti, in cui l’asserita democrazia è un valore solo se il partito eletto è favorevole agli USA, contrari ai diritti del popolo palestinese e rivolti semmai a favore di Israele che indebitamente occupa anche Gerusalemme, città santa per l’Islam, ecc. ecc.
Sono percezioni che sicuramente non concorrono al successo delle operazioni militari in atto in Iraq ed Afghanistan, in cui l’Italia non è un attore di secondo piano.
Ci si ponga nei panni del comandante di turno che deve farsi accettare dalle locali comunità per espletare la missione assegnatagli e quindi comunicare con le stesse non solo attraverso i vertici, ma anche verso “la base”, atteso che la stessa è raggiunta da una serie d’informazioni usualmente presentate in maniera non benevole nei confronti dell’occidente in genere e talvolta false, veicolate sia attraverso i media (al jazeera in primis) che dal tam tam costituito dalle predicazioni nelle moschee.
In tale ambito va collocata la determinazione del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito di costituire un reggimento devoluto all’effettuazione di operazioni psicologiche, ossia capace di generare quei team da distaccare presso le unità di manovra e quindi attrezzando le F.A. nazionali con una capacità che è in via di generale sviluppo in ambito NATO proprio in virtù delle esperienze maturate nei Balcani e in corso di consolidamento in Iraq ed Afghanistan.
Occorre peraltro evidenziare che anche la mancanza della capacità di condurre operazioni psicologiche può avere effetti controproducenti anche in altri teatri: un esempio in tal senso può essere individuato nella crisi dell’Albania del 1997. Secondo taluni osservatori la crisi fu aggravata proprio dal modo in cui fu trasmessa l’informazione da parte dei canali TV nazionali, ricevuti in gran parte dell’Albania con il consueto uso di iperboli descrittivi della situazione locale (definita senza controllo, crisi gravissima, incapacità di gestione, totale collasso delle forze dell’ordine, ecc).
Tali informazioni, unite ad una visione dell’Italia basata sull’informazione pubblicitaria tarata e confezionata ad uso del consumatore italiano, sicuramente più attrezzato nei confronti delle sirene pubblicitarie, ha contribuito a rafforzare nel cittadino albanese la convinzione ad emigrare nell’ Amerika posta giusto dall’altra parte dell’Adriatico, ponendo in crisi soprattutto l’area pugliese.
In tal senso, forse, un’opportuna operazione psicologica, basata sull’effettiva realtà ma con un linguaggio maggiormente “tarato” sulla realtà sociale dell’Albania avrebbe forse potuto contribuire a ridurre il flusso migratorio (per confronto, gli albanesi che raggiungevano il territorio nazionale erano denominati “profughi” dai media, parola che riveste però ben altre connotazioni in materia di diritto d’asilo) e forse ad evitare l’adozione dello stato d’emergenza, per certi versi culminato con la tragedia della collisione fra la Corvetta Sibilla della Marina Militare e l’Unità albanese Kati Raider.
Peraltro, l’Italia allora non disponeva di reparti preposti all’esecuzione di operazioni psicologiche e la storia non si realizza con i se o con i ma…..però puo’ costituire un’esperienza da valorizzare per il futuro.

[1] Studioso di problemi geostrategici. Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia e Medaglia d’Argento al merito di Marina.
[2] Da Il dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Giancarlo Oli, ed. Le Monnier