Alle ore 17 del 3 settembre 1943 sotto una tenda alzata negli uliveti della piana vicino all'abitato di Cassibile, nella Sicilia appena conquistata, i delegati italiani del Governo Badoglio, firmarono, dopo una complicata trattativa, l'Armistizio cosiddetto "Corto", con cui si poneva termine alla guerra fascista dichiarata il 10 giugno 1940. Era la constatazione della sconfitta, dopo 39 mesi di sconfitte in tutti i fronti. Se per gli Italiani iniziavano giorni tremendi che chiamiamo Guerra di Liberazione, per gli alleati la sconfitta di uno dei Paesi dell'Asse significò l'aggravarsi dei loro profondi dissidi in tema di come continuare a condurre la guerra.
La loro fu una strategia che, in virtù dei contrasti, ridusse il fronte italiano ad un fronte secondario, a tutto vantaggio di quello francese, con conseguenze deleterie per l'Italia, trasformata in un campo di battaglia fino al maggio 1945
F. D. Roosewelt, Presidente degli Stati Uniti |
Nelle righe che seguono una nota sula genesi di questa strategia:
La popolazione italiana ha sempre accolto, dal settembre 1943 alla fine della guerra, le truppe alleate, a prescindere dalla loro appartenenza, con ammirazione ed entusiasmo, vedendo il loro arrivo come la fine di un incubo e l’inizio di un periodo di vita materiale e morale, migliore.
La convinzione di tutti
gli Italiani, a quel tempo, era che la alleanza delle Nazioni Uniti, gli
Alleati come venivano chiamati, era
solida, granitica, potente, invincibile.
In realtà, al vertice
della organizzazione militare alleata, sul piano strategico, dalla fine della
conquista della Sicilia e per tutta la durata della Campagna d’Italia,
esistettero tra Statunitensi e Britannici profonde divergenze in tema
strategico, ovvero come condurre la guerra in Europa e, conseguentemente , in
Italia.
Wiston Churchill Primo Ministro britannico |
Queste divergenze
portarono a dolorose e significative sconfitte sul piano strettamente tattico,
come l’arresto della offensiva sul Sangro, le prime tre battaglie per Cassino,
e lo sbarco sul litoraneo pontino, solo per citare quelle dell’autunno 1943 –
primavera 1944.[1]
Nel maggio-giugno 1944,
superato l’ostacolo di Cassino e conquistata Roma, mentre le truppe alleate
sbarcavano in Normandia, le divergenze strategiche in Italia fra Statunitensi e
Britannici, molto gravi fino a quel momento, raggiunsero il massimo. Il pomo
della discordia consisteva nella attuazione, o meno, della operazione “Anvil”,
ovvero lo sbarco nel sud della Francia, in sostegno e supporto a quello che era
già stato effettuato con successo in Normandia. Per “Anvil” i quesiti a cui si
doveva rispondere erano: deciso lo
sbarco, quante forze vi si dovevano impiegare? Da dove si dovevano prendere
queste forze? Chi avrebbe alimentato le successive operazioni di penetrazione
in profondità? La risposta a questi interrogativi non facevano che acuire i
contrasti fra i due Stati Maggiori, contrasti che erano la diretta conseguenza
delle differenti vedute strategiche tra gli
Alleati.
Gli Statunitensi, un
volta che l’Italia era stata sconfitta e costretta ad uscire dalla guerra,
settembre 1943, e resisi gli Alleati padroni delle rotte del Mediterraneo, non
ritenevano utile impegnare ulteriori forze nel scacchiere italiano. Essi
rimanevano, in tema di strategia, fermi alla loro convinzione che, per
conseguire la vittoria finale, ci si doveva concentrare sull’obiettivo
principale, perseguirlo con il massimo della concentrazione degli sforzi nel
momento e nel punto decisivo, limitando al massimo, se non per operazioni
diversive, di inganno e sussidiarie, ogni operazione su obiettivi collaterali.
Questa strategia era direttamente discendente dalla loro politica che voleva
essere distante da quello che loro consideravano antiquati poteri politici
europei e vedevano con diffidenza e circospezione il colonialismo britannico in
tutte le sue forme. In più non volevano essere coinvolti in operazioni nel
centro Europa né tantomeno nell’Europa Orientale, impegno che consideravano
solo un sperpero di risorse e di vite umane. Il loro desiderio era quello di
terminare il più velocemente possibile la guerra in Europa e concentrarsi
totalmente contro il Giappone.
Il Comandante della V Armata USa in Italia gen. Clark |
I Britannici, di contro,
adottavano anche in questa guerra la loro tradizionale strategia indiretta e
pragmatica, ovvero, per le operazioni terrestri, la strategia del Debole verso
il Forte. Era una strategia che aveva dato, al momento in cui la Gran Bretagna era
stata chiamata a combattere potenze continentali, copiosi frutti, primi fra
tutti la vittoria su Napoleone un secolo mezzo prima. Partendo dal principio
che la Gran Bretagna
non aveva forze terrestri paragonabili a quelle della Germania, la Gran Bretagna
riteneva necessario ed utile attaccare la periferia della potenza nemica, cioè
tedesca, cercare di creare discordie fra la coalizione nemica (l’Asse
italo-tedesco), porre il blocco navale[2] ed
attenderne gli effetti; intensificare i bombardamenti aerei, minare il fronte
interno nemico, evitare ogni scontro diretto di vaste proporzioni in cui si
sarebbero arrischiate le relativamente poche forze terrestri; tutto in attesa
di assestare, al momento e luogo opportuno, il colpo risolutivo finale, che
avrebbe dato la
vittoria. Questa strategia era anche in gran parte
giustificata dal ricordo ancora vivissimo della carneficina della Prima Guerra
Mondiale, il cui solo pensiero faceva abortire ogni progetto di attacco
diretto.
Con l’uscita dell’Italia
dalla guerra, e severamente impegnata dalla Unione Sovietica, la Germania stava
iniziando a cedere; basta attendere il momento opportuno e la vittoria sarebbe
stata conseguita. Non erano necessari sbarchi in Francia: tutte le forze
dovevano essere tenute in Italia, da cui, crollata la Germania, sarebbero state
indirizzate su Vienna ed il centro Europa a fermare e contrastare l’avanzata
sovietica.
Lo scontro tra queste
due opposte visioni strategiche era costante. Nel giugno 1944, quando
conquistata e superata Roma, e le truppe Alleate entravano nelle Marche, si
avvicinava sempre più il momento di decidere. I termini del problema
strategico-operativo erano chiari: o proseguire speditamente verso Nord e,
superati gli Appennini, arrivare alle Alpi, avendo conquistato la Pianura Padana ,
oppure destinare le migliore forze presenti in Italia alla operazione “Anvil”,
cioè lo sbarco in Provenza, sottraendole naturalmente al fronte italiano. La
disputa su questi termini, aggravata dal fatto che le forze sottratte al fronte
italiano dovevano essere sostituite e si balenava quello che i Britannici non
volevano nemmeno prendere in considerazione, ovvero armare ed equipaggiare
forze italiane, alterava ed avvelenava tutti i rapporti fra Alleati. La disputa
su questa questione e le decisioni conseguenti avrebbero condizionato le
operazioni in Italia nell’estate 1944 ed anche dopo.[3]
[1] Questi temi sono stati dibattuti al
convegno “Gli Alleati da Salerno ad Anzio” tenutosi il 24 gennaio 2004 alla
sala delle Conchiglie di Villa Adele ad Anzio organizzato dalla Associazione
Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di
Liberazione (A.N.R.P., coordinato e presieduto dal Prof. Enzo Orlanducci.)
[2] In campo marittimo la Gran Bretagna
attuava la strategia del Forte verso il Debole, con l’obiettivo finale quello
di “strangolare” la potenza continentale, privandola di ogni aiuto esterno.
Questa strategia, nel 1943, stava per essere messa fortemente in crisi
dall’azione dell’arma sottomarina tedesca, a un passo dal divenire vincitrice
della Battaglia dell’Atlantico. La Gran Bretagna , senza gli aiuti statunitensi e
quelli provenienti dal resto dell’Impero, aveva risorse per poco più di un mese
di sopravvivenza.
Tratto da M. Coltrinari "Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona", Roma, Università la Sapienza casa Editrice Nuova Cultura 2014, pag. 350 capi. I Pa. 1
(info: www.storiainlaboratorio.blogspot.com)
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