Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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martedì 30 dicembre 2008

I Lettori ci scrivono

Riceviamo in Redazione la seguente lettera che pubblichiamo

Egregio Dr. Coltrinari
Ritengo di esserci conosciuti a Caserta, in occasione di un incontro con l’Associazione Internati e Guerra di Liberazione, comunque mi presento:
sono Corvino Giovanni Battista, classe 1922 appartengo a quelli d’Aosta ’41sono stato promosso sottotenente il 15 febbraio 1942. Ho partecipato con il Battaglione “Val Cismon”del 9° Reggimento Alpini della Divisione “Julia”, come comandante di plotone fucilieri alla campagna di Russia, sono stato ferito in combattimento il 28 dicembre 1942 al famoso quadrivio insanguinato di Selenij-Yar. Nel 1952 mi è pervenuta una Medaglia di Bronzo al Valor Militare per il fatto d’armi del 28 dicembre. L’8 settembre, sempre con il “Val Cismon” ero nell’alta Val d’Isonzo, zona slava. Dopo i vari ripensamenti decisi di scendere al Sud. Ad Ancona fui catturato dai tedeschi e dopo 15 giorni di prigionia nella caserma Cialdini, paventando di essere internato, riuscii a fuggire, e dopo varie peripezie il 13 ottobre attraversai le linee tra Guglionesi e Montenero di Bisaccia (Termoli).
Ripresentatomi al Sud sono stato uno dei primi ufficiali ad appartenere,dopo l’8 settembre, ad un gruppo di Alpini denominato “Reparto Esplorante Alpini” poi divenuto Battaglione “Taurinense” ed infine “Battaglione Piemonte”. Con il Battaglione “Piemonte” sempre come comandante di plotone fucilieri, 3 Compagnia I Plotone ho partecipato alla Guerra di Liberazione. Il 29 maggio 1944 a Madonna del Canneto sono stato decorato di una Medaglia di Bronzo sul campo.
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Ebbene, leggo su “Il Secondo Risorgimento d’Italia” e le varie pubblicazioni sulla guerra di Liberazione, ma devo constatre che in realtà viene dato poco risalto ad avvenimenti di notevole importanza. E’ pur vero che l’8 dicembre 1843, solo dopo 3 mesi dalla resa incondizionata, vi è stato a Montelungo, con il I Raggruppamento Motorizzato, l’inizio ed il battesimo di fuoco della partecipazione italiana alla guerra di Liberazione, tra lo scetticismo degli Anglo-americani, pertanto rimane una data storica, anche se la volontà di riscatto degli italiani era stata dimostrata lo stesso 8 settembre a Porta San Paolo dai Granatieri di Sardegna. La battaglia di Montelungo, come Lei sa, meglio di me; non diede risultati eclatanti per vari motivi ( scarsa preparazione morale e materiale, scarso equipaggiamento, improvvisazione, condizioni atmosferiche proibitive) per cui gli Anglo-americani continuarono ad essere scettici. Dovettero trascorrere oltre 3 mesi perché venisse concessa un’altra prova. Ciò avvenne il 31 marzo 1944, con la conquista, da parte degli Alpini del Battaglione “Piemonte” di Monte Marrone, con azione frontale, ritenuta impossibile dagli Anglo-americani che dagli stessi avversari tedeschi, ma maggiormente stupì la difesa di Monte Marrone dall’attacco dei tedeschi il 9-10 aprile (notte di pasqua).Furono questi gli episodi che convinsero gli Anglo-americani sulla validità e necessità di avere gli Italiani al loro fianco. Infatti il I raggruppamento Motorizzato fu ampliato e denominato Corpo Italiano di Liberazione e dopo il comportamento nell’avanzata sul settore Adriatico fino alla linea Gotica. Il C.I.L. fu ampliato e trasformato in Gruppi da Combattimento, armato ed equipaggiato con materiale inglese ed inserito nella primavera del 1945 fino alla fine del Conflitto.
Io credo perché non mettere in risalto che l’Esercito Italiano, nato a Montelungo ha avutoi il suo consolidamento nelle terre dell’Alto Molise, sulle Mainarde perché le date del 31 marzo e 9 e 10 aprile 1944 non vengono mai citate.
La storia deve sapere tutta la verità, il vero con tributo alla Guerra di Liberazione dell’Italia è stato dato dalle truppe regolari italiane, inserite a Montelungo l’8 dicembre 1943 e consolidatesi nell’alto Molise sulle montagne delle Mainarde, a Mnte Marrone il 31 marzo ed il 9 e 10 aprile 1943. Ritengo che sarebbe doveroso ogni volta che si cita Montelungo 8 dicembre 1943, si affianchi Monte Marrone 31 marzo e 9 e 10 aprile 1944.
Mi scusi per quanto Le ho scritto, sperando di trovarLa d’accordo, nel mentre mi è gradita l’occasione per cordialmente salutarLa.
Foggia 12 luglio 2008.

Non si può non essere d’accordo con quanto scrive Covino. L’una nota che possiamo aggiungere è che la parola “rinato” riferita all’Esercito Italiano a Montelungo, non sembra, a nostro parere, appropriata. Rinascere significa nascere due volte. Per noi vi è una continuità, anche in presenza di una crisi armistiziale come quella dell’8 settembre, per le Forze Armate Italiane che rappresentano la continuità dello Stato. Questo concetto per noi si esplica nell’approccio che abbiamo adottato per la Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti, a cui rimandiamo.
Nel solco di quanto detto e proposto da Corvino, possiamo dire che il calendario Associativo per il 2009 sarà dedicato alla epopea di Monte Marrone e al Battaglione Piemonte. (redazionale)

sabato 13 dicembre 2008

Gli Autieri nell'Esercito Italiano

Gli Autieri sono gli eredi diretti, oggi, di chi, nei secoli passati fino a Napoleone si sono occupati di utilizzare, in vario modo quella grande invenzione che è la ruota e quindi dei trasporti. Con Napoleone, questo grande retaggio che discende dalle Legioni di Roma fini agli eserciti settecenteschi, ha un salto di qualità, passando dal singolo impiego del carriagio ad un complesso omogeneo, ovvero la istituzione del Treno di Artiglieria, voluto per rendere più mobile questa arma. Si formalizzava anche nel campo operativo una organizzazione già esistente negli eserciti europei e nell’Esercito Piemontese di Vittorio Amedeo II, in particolare: il Treno di Provianda ove Provianda discende dal termine tedesco proviand = vettovaglie, ovvero la colonna di rifornimenti che seguiva l’Armata.
Con l’introduzione del Treno, abbiamo nell’ordinamento il Corpo Treno; con la costruzione delle strade ferrate, nella seconda meta del 1800, il passo dalla ferrovia alla strada fu breve.
La mobilità sul campo di battaglia, non è più affidata solamente alle gambe degli uomini ed al traino animale, ma assume una combinazione ed evoluzione tecnologica che, di sfida in sfida, ancora oggi è in essere.
L’invenzione del motore a scoppio e la realizzazione dell’automobile, sul finire del 1800, non poteva rimanere estraneo allo strumento bellico. Preso atto del momento di transizione, uomo e mezzo meccanico, rappresentato dalla bicicletta, che potenzia l’elemento umano come propulsore ma non lo supera, con l’automobile si passò definitivamente al binomio uomo-motore.
Nel 1903 il Ministro della Guerra acquista, in via sperimentale, due Automobili, e le assegna alla Brigata Ferrovieri del Genio, costituendo un “Nucleo di Sottufficiali Macchinisti”, nucleo che, che dopo le eccellenti prove date nelle Manovre del 1905 viene trasformato il Sezione Automobilistica (100 uomini fra ufficiali e truppa).
Nel 1910 il Nucleo da vita al Battaglione Automobilisti del Genio, ordinato su due compagnie, una di stanza a Roma e una di stanza a Torino, alle dirette dipendenze del Comando Supremo.
Sempre nel 1910 vi fu il primo grande acquisto di automobili, per un totale di 450 esemplari. Ormai si era usciti dalla fase di sperimentazione e si era passati alla fase di impiego.
Nella guerra Italo Turca il Battaglione Automobilistico costituì inizialmente il Parco automobilisti di Tripoli, poi quello di Derna e di Bengasi.
Negli anni 1912-1913 si ha un crescente sviluppo della componente automobilistica, più frenata da esigenze di bilancio che da reali situazioni di impiego.
L’Italia entra nella 1° guerra mondiale con una disponibilità complessiva di 400 autovetture, 3400 autocarri, ambulanze ed autobus, 150 trattrici, 1500 motocicli. Una disponibilità accettabile ma che, visto l’evolversi della guerra, diviene subito insufficiente, subendo un processo di obsolescenza sempre più rapido. Oltre alla componente materiale, la stessa sorte tocca alla dottrina ed alle relative istruzioni di impiego. Sul piano strettamente operativo di impiego, passati i primi mesi di guerra, tutti si rendevano conto dell’utilità del Servizio Automobilistico, fugando ogni ulteriore dubbio e sciogliendo le ultime riserve.
I problemi dettati dalle esigenze di guerra sono pressanti: il Comando Supremo, per fronteggiarle, crea la Sezione Automobilistica “ presso l’Intendenza Generale e gli Uffici Servizi presso i Corpi di armata” . Saranno questi i primi organi tecnici automobilistici dell’Esercito Italiano.
Nel luglio del 1916 venivano costituiti i primi “Autogruppi”, ognuno in grado di trasportare un Battaglione di Fanteria. E’ del 16 luglio 1915 il primo Caduto del servizio Automobilistico: per superare il ponte di Pietris, sull’Isonzo, distrutto, si passò a guado, sotto l’osservazione di osservatori nemici posti su palloni frenati. Al ritorno la colonna, che aveva assolto il compito di rifornire le prime linee ripassò accanto al ponte di Pietris e fu fatta segno ad un nutrito fuoco di artiglieria, che colpì a morte l’autiere Emilio Vanetto da Padova.
E veniamo alla battaglia degli Altipiani, o come definita dal nemico, la Spedizione Punitiva. Questa grande offensiva nemica stava per consegnare il suo obiettivo, ovvero giungere in pianura attraverso l’altipiano di Asiago, alle spalle della fronte Giulia. La reazione del Comando Supremo, per sventare questo pericolo, fu pronta: utilizzando l’autoparco di riserva, in 4 giorni, utilizzando 974 autocarr,i furono trasportati 15432 uomini del XIV e del X Corpo d’Armata e relativi equipaggiamenti dal fronte isontino e carnico agli Altipiani, superando distanze di 200-250 Km e con punte di 350 Km. I conduttori si trovavano nella condizione di rimanere al volante dei loro autocarri per oltre 48 ore consecutive, facendo la spola fra la Carnia e gli Altipiani.
L’offensiva nemica fu fermata e questa rimane una delle più belle pagine degli Autieri.
Il Corpo Automobilistico, con il procedere della guerra, cresce di anno in anno con il dilatarsi degli incarichi e dei compiti. Sul finire del 1916 comprendeva già 800 Ufficiali e 20.000 tra Sottufficiali e truppa; nel 1917 1500 ufficiali e 60.000 autieri, con un parco automezzi di 1450 autovetture, 15.700 autocarri, 850 trattrici, 5000 motocicli.
Caporetto non fu disastroso, come si potrebbe immaginare, per il Corpo, rispetto agli altri Corpi logistici: andarono perduti, sui 15700 autocarri in dotazione “solo 3000 autorcarri” ed un terzo delle trattrici; questo salvataggio dei mezzi fu uno dei fattori della ripresa e di resistenza, anche per il fatto che gli organi di sostegno del Servizio Automobilistico erano tutti, prima dell’offensiva, posti al di qua del Piave.
Nel 1918 il Corpo fu potenziato ancora: nonostante le perdite, si hanno 20000 autovetture, 21500 autocarri, 900 trattrici e 5400 motocicli. Il Corpo comprendeva 2500 Ufficiali e 100.000 uomini di truppa.
La battaglia del Solstizio nel giugno del 1918, durante la quale gli austro-ungarici furono definitivamente respinti e quella di Vittorio Veneto ebbero esito favorevole anche per l’impegno degli autieri, e fu la vittoria.
E a questa vittoria contribuirono anche i reparti automobilistici impegnati in Albania e Montenegro, che operarono in quelle zone impervie ponendo le premesse della presenza italiana nell’altra sponda dell’Adriatico e delle gesta del secondo conflitto Mondiale
La prima guerra mondiale,quindi, fu la consacrazione dell’automobile, come la II Guerra Mondiale fu per il mezzo aereo e la figura dell’autiere entro nel retaggio della tradizione militare italiana.
Il Corpo ne uscì potenziato e moltiplicato, sia uomini che mezzi, con un retaggio di valore, onore e sacrificio oltre che di dedizione di tutto rispetto.


Il dopoguerra, negli anni venti, fu complesso, pieno di contraddizioni, conflitti e tensioni. Si doveva passare da una economia di guerra a una economia che permettesse alla Nazione di godere dei frutti di tanti sacrifici. Le soluzioni adottate non furono all’altezza delle aspettative e molte illusioni caddero. L’Esercito subì questa situazione e gli “ordinamenti” si seguirono uno dietro l’altro, ove le innovazioni, spesso, furono più deleterie di quanto esisteva. Fino al 1925 vi furono cambiamenti repentini, non assorbiti dalla forza armata, ma assimilati non senza contrasti e conflitti.
Poi tutto si stabilizzò e dal 1925 per gli anni seguenti si andò verso una più attenta attività ordinativa.
Nel 1926 si ha l’istituzione del “Servizio Amministrativo Militare”; nel 1930 la costituzione del Ispettorato del Servizio Automobilistico.
Le Regie Patenti datate 13 luglio 1933 assegnarono il motto al Corpo, attribuito a Gabriele D’Annunzio, “FERVET ROTAE – FERVET ANIMI”
Il 27 dicembre 1935, con il Decreto legge n. 2171, vi è la costituzione del Corpo Automobilistico, con ruolo autonomo, a cui poi nel marzo del 1936, seguì l’assegnazione del fregio e delle mostrine.
Con questo ordinamento si affrontò il ciclo delle guerre di rafforzamento della posizione di grande Potenza dell’Italia: Spagna, Etiopia, Albania, nonché il mantenimento e l’occupazione e il controllo dei territori coloniali in Libia e in Somalia. Il corpo fu sempre presente, assicurando il Servizio pur nella sempre precarietà della situazione contingente.
La seconda Guerra Mondiale fu affrontata con lo spirito di sempre : devozione e presenza. La campagna delle Alpi occidentali fu per gli autieri breve, ma dura. I risultati, per il corto periodo della campagna, dal 17 giugno al 24 data dell’armistizio con la Francia (dal 10 al 17 giugno Mussolini aveva ordinato di rimanere sulla difensiva) non furono eclatanti. Le fotografie e l’iconografia dell’epoca, peraltro, riportano lunghe fila di automezzi incolonnati per impervie strade di montagna, con un tempo invernale ancorché si operasse nel mese di giugno, segno delle condizioni difficili in cui gli Autieri erano chiamati ad operare.

In Africa Orientale la dichiarazione di guerra aggiunge una preoccupazione in più. E’ noto che la conquista di Addis Abeba, il 5 maggio 1936, non significò la fine della guerra a Negus. Finita la guerra, in Etiopia, per gli italiani iniziò una guerriglia che dal 1936 al 1941 procurò oltre 7000 morti e migliaia di feriti, contro i 700 della guerra stessa. Una situazione simile si sta svolgendo sotto i nostri occhi in questi giorni ed anche oggi, come allora, gli autieri sono i più esposti alla guerriglia, ai colpi di mano, alle imboscate.
La mancanza di controllo del territorio costò la vita a tantissimi autieri costretti a percorre strade insicure e adatte ad ogni tipo di imboscata. L’Impero, e l’A.O.I, è indifendibile per mancanza di collegamento con la madre patria. L’epilogo, eroico si ha nel maggio del 1941 con la resa del Duca di Aosta sull’Amba Alagi.

In Libia, nel settembre del 1940 si lancia la offensiva contro Sidi El Barrani. E’ l’inizio delle offensive e delle controffensive in Africa Settentrionale, in cui rifulse tutto il valore degli autieri. Nel deserto la vera forza operativa erano le ruote per arrivare al combattimento e poi il cingolo per risolverlo a proprio favore. E gli autieri furono sempre i protagonisti, riuscendo a trarre il massimo profitto dai mezzi in dotazione, mezzi che, seppure scarsi, in mano di uomini decisi spesso suscitarono l’ammirazione dello stesso nemico.
La battaglia di El Alamein segnò l’inizio dell’ultima ritirata, conclusasi in Tunisia ove nel maggio, con la rese delle truppe al comando del gen. Messe terminò la nostra avventura africana. Una avventura che vide gli autieri sempre protagonisti. Sintesi di questa partecipazione una fotografia conservata all’Ufficio Storico dello SME: si vede una colonna di autocarri, carichi di preziosi rifornimenti. La didascalia recita: “autocolonna che è partita e non è mai più ritornata”. Questa foto con la didascalia è stata recentemente pubblicata a corredo della storia degli Autieri in Africa. Vi si aggiunge alla didascalia: “A quale episodio si riferisce? Di quante altre autocolonne si può dare della stessa definizione? “ Ecco la sintesi in queste didascalie del sacrificio, della dedizione degli Autieri in Africa.
Altro fronte che non si può dimenticare, la Russia. Non solo per la tragica ritirata, ma per tutto quello che si è svolto prima dal luglio 1941 al novembre 1943. Sono le immense distese della pianura russa che videro l’impegno degli Autieri, che sono costretti all’utilizzo di materiale vario, spesso di requisizione, speditivi: nonostante tutto il compito fu assolto. Poi l’offensiva invernale nemica travolse tutto e tutti e rimase solo il ricordo e le polemiche di quella tragedia, polemiche incentrate sul fatto che in quelle immense distese non si poteva andare con i normali criteri, ma con una componente motorizzata di altissimo spessore. Omaggio indiretto agli Autieri ed alla loro funzione.
Con la guerra portata sul suolo metropolitano, la campagna in Sicilia, la caduta del governo Mussolini, l’armistizio in quella tragica e rovente estate del 1943, arriva anche per gli Autieri il momento delle scelte: che cosa fare all’indomani dell’armistizio: è l’inizio della guerra di liberazione.
Guerra, quella di liberazione, in cui gli italiani, tutti, lottarono per un futuro migliore, che si può articolare in cinque fronti: quello del sud, con il pronto riscatto di Montelungo poi il C.I.L. ed i Gruppi di Combattimento, quello del nord con il fronte delle formazioni partigiane, quello dell’internamento in Germania, ovvero la resistenza del reticolato con oltre 600.000 militari italiani internati, quello delle unità italiane all’estero, in Albania, in Grecia, in Jugoslavia in cui i soldati italiani si unirono alla formazioni locali di resistenza, e per tutti basta ricordare Cefalonia, ed infine quello, sempre dimenticato, della prigionia di guerra in cui i nostri soldati, divenuti cooperatori, contribuirono allo sforzo bellico contro la coalizione hitleriana.
Tutti fronti che sono componenti della guerra di liberazione e che rappresentano la matrice della nostra repubblica, in cui furono sempre presenti, in posizione di rilievo, gli Autieri.

Un episodio fra gli innumerevoli che si possano citare. Albania 1943. All’indomani dell’Armistizio , il 104° Autoreparto di stanza a Durazzo dovette decidere: o eseguire gli ordini di portarsi a Bitolj per successiva destinazione ovvero l’internamento in Germania, oppure prendere una decisione difficile: salire in montagna ed unirsi ai partigiani e iniziare a combattere i tedeschi, con tutto quello che significava. Il comandante del 104° Autoreparto, ten. Col. Mosconi decise di salire in montagna ed unirsi al Comando Italiano Truppe alla Montagna, al comando del gen. Azzi, ove erano già il ten. col. Zignani, il col. Raucci ed altri ufficiali.
Un episodio che raccontato oggi può anche sembrare banale, ma che dimostra che al momento delle scelte gli Autieri seppero trovare quella strada, la più difficile, che portò, dopo sacrifici, rinunce e lotte alla libertà, di cui noi oggi, loro eredi, ne godiamo ampiamente.

Il dopoguerra è sotto i nostri occhi: l’impegno nelle calamità naturali: l’Alluvione del Polesine, il disastro del Vajont, l’alluvione di Firenze del 1966, in cui la Caserma Perrotti divenne il centro di tutte le attività per il soccorso agli alluvionati, il terremoto del Friuli del 1976, il Terremoto dell’Irpinia, la diga di Tesero, la Valtellina. Tutte calamità naturali che videro gli autieri presenti.
Come presenti sono nelle missioni di pace: Libano, Somalia, Mozambico, Bosnia, Albania, Kosovo, ed ora Irak ed Asfganistan. Ormai la spina dorsale, non solo logistica, di queste missioni è data dagli autieri, che la recente trasformazione ordinativa ha elevato a rango di Arma combattente.
Gli ordinamenti, dal treno di provianda all’autocolonna, al reggimento trasporti e di manovra cambiano, ma lo spirito dell’Autiere resta, come fattore determinate del raggiungimento del successo.

martedì 9 dicembre 2008

GUERRA E PACE NEL XXI SECOLO

Antonio Pelliccia

Ancora una volta è soffiato impetuoso il vento di guerra che ha indotto filosofi, scienziati, psicologi e teologi a interrogarsi nuovamente sull’origine di questo fenomeno sociale che B. Croce definì una febbre che periodicamente scorre nelle vene degli uomini, inducendoli a lottare per sopraffarsi l’un l’altro e per uccidersi.[1]
Tra i maggiori, James Hillman sostiene che la guerra è una sfida per la psicologia, forse la prima delle sfide a cui la psicologia deve rispondere. Nel suo libro si era posto lo scopo di “scoprire i miti, la filosofia e la teologia della psiche profonda della guerra”..[2]Ma la sua sconsolante conclusione è stata che “la guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipica del cosmo. E’ un’opera umana e un orrore inumano e un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere. Possiamo aprire gli occhi su questa terribile verità e, prendendone coscienza, dedicare tutta la nostra appassionata intensità a minare la messa in moto della guerra…” [3]
Venticinque anni fa anch’io mi dedicai allo studio dell’essenza della guerra, perché ero convinto che esso fosse fondamentale e necessario per la ricerca dei nuovi orientamenti dottrinali[4]che volevo
intraprendere. Un’indagine provocata principalmente dall’osservazione che la lotta nell’aria, dal punto di vista teorico, aveva incontrato formidabili ostacoli al suo sviluppo: non ultimo l’incapacità della dottrina di guerra aerea di adeguarsi con la stessa rapidità alla vertiginosa evoluzione dell’aviazione militare.
Nell’accingermi a questo interessante e difficile lavoro, non trascurai le molte cause, individuate da Gaston Bouthoul,[5]che s’oppongono all’inda
gine scientifica del fenomeno bellico. Ne cito le due più importanti: la pseudo evidenza della guerra, dovuta al fatto che tutti presumiamo di conoscerla e l’illusionismo giuridico, vale a dire l’illusione che Diritto Internazionale, Trattati e Convenzioni possano evitarla.
Le principali teorie che esaminai non m’illuminarono molto sulla sua essenza anzi, la contraddittorietà e l’esasperazione della tecnica impiegata dagli “strateghi scientifici” nei loro ragionamenti, scrissi, mi sembrarono dispute tra professori di logica. Convinti d’aver sostituito gli strateghi militari e di possedere conoscenze e rigore
intellettuale che questi non avrebbero, gli analisti civili avevano
finito, infatti, per combattersi a vicenda per la supremazia della logica classica o di quella matematica.
La mia indagine mi fece concludere che la risposta alla domanda sulla natura del fenomeno bellico andasse ricercata nella moderna interpretazione del pensiero filosofico di Clausewitz. Tale, infatti, lo considerò Benedetto Croce il quale scrisse che “Solo la unilaterale e povera cultura degli ordinari studiosi di filosofia, il loro inintelligente specialismo, per così dire, del costume loro li tengono indifferenti e lontani da libri come questo del Clausewitz, che essi stimano di argomento a loro estraneo e inferiore, laddove in effetto contengono indagini che entrano, e in modo assai concreto, nel vivo di taluni problemi filosofici…”[6]In particolare, dopo un approfondito studio della sua filosofia della guerra, e in seguito a lunga meditazione sulle ragioni che l’avevano indotto a enunciare la nota concezione dualistica del fenomeno, mi convinsi che la risposta era proprio nella risoluzione di quel dualismo: guerra assoluta e guerra reale. Cosa che feci ispirato dalle seguenti parole dello stesso Clausewitz: “Se la guerra fosse una manifestazione completa, indisturbata, assoluta di forza,quale dovremmo dedurla dalla pura astrazione allora, dall’istante in cui la politica le ha dato vita, si sostituirebbe a essa come qualcosa di assolutamente indipendente, l’eliminerebbe, seguendo soltanto le proprie intrinseche leggi, come l’esplosione d’una mina non più suscettibile d’essere guidata dopo che è stato appiccato il fuoco alla miccia”.[7]Queste parole, la differenza che Croce fa tra “violenza” e “forza”(l’una “distruggitrice” e l’altra “costruttrice”) e altre considerazioni mi fecero pervenire alla conclusione che la guerra assoluta è un fenomeno prettamente teorico che, con l’attuale elevato grado di civiltà dei popoli, difficilmente accadrà (con la riserva posta dallo stesso Clausewitz della sempre possibile ascesa agli estremi indipendentemente dalla volontà umana). Posso perciò sostenere che è possibile prendere in considerazione la dissociazione della violenza dal fatto empirico della guerra e considerarla unica logica che consenta l’applicazione della razionalità clausewitziana e che contenga gli elementi etici che permettono il controllo di un eventuale conflitto armato. Quello, soprattutto, che il danno al nemico deve trovare il limite logico e morale “nell’esclusione di quel danno che colpisce ciò che è sacro del pari per il nostro nemico e per noi, ciò che, perdendosi, diminuisce lui e noi, e anzi noi più di lui, quando della perdita siamo stati gli autori e su noi ne prendiamo l’odio e l’onta”.[8] Al riguardo Luigi Russo sostiene, similmente, che la lotta deve svolgersi entro i limiti del contenuto etico di cui un popolo è capace e di cui una nazione s’investe, per la sua educazione, civiltà e potenza. Se si varcano quei limiti si viola anche il momento dell’utilità politica della lotta. Non solo, ma accade che “i trionfi valgono sconfitte quando il loro frutto consiste in lamenti e nello sconfinato odio del mondo”.[9] Questi concetti sono validi soprattutto oggi che il progresso delle armi e dei mezzi bellici, nonostante la loro maggiore letalità, consente di tornare alla guerra tra forze armate e non tra nazioni senza limiti alla violenza, com’era stato teorizzato da Giulio Douhet e da Erich Ludendorff[10]e com’è avvenuto nella seconda guerra mondiale e, prima ancora, in quella d’Etiopia e di Spagna.




Russo considera la guerra un fenomeno intrinseco alla realtà umana, una categoria metafisica per cui tutta la vita è lotta, come lotta perenne con se stesso è la vita dell’individuo. Fuori della lotta, secondo lui, non c’è che l’eraclitea putredine, la dissoluzione, la morte. La rinunzia pseudo-cristiana a lottare, nella vita individuale, si risolve nell’inerzia e nella morte morale dell’individuo che è peggiore di quella fisica. Per le nazioni si risolve nel suicidio spirituale che può portarle a diventare pura espressione geografica. [11] Alla concezione crociana si aggiunge quella di Sigmund Freud: “la guerra è dovuta alle inesorabili tendenze distruttive che ciascuno di noi si porta dietro dalla nascita…alle pulsioni di morte,[12].” Il famoso psicoanalista espose questa tesi anche in una lettera in risposta a quella che Albert Einstein gli aveva inviato nel 1931 e nella quale gli aveva chiesto se ci fosse un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra. Nello stesso tempo lo scienziato, di fronte“all’amara costatazione dell’inestirpabilità dei loro istinti aggressivi”, aveva suggerito una soluzione organizzativa di tipo coercitivo come, per esempio, l’istituzione di un organismo politico soprannazionale delegato a risolvere i conflitti tra gli Stati.[13] Freud riconobbe che questa soluzione potesse essere capace di prevenire le guerre a patto, però, che quell’organismo, a differenza della Società delle Nazioni, fosse dotato di una propria e adeguata forza militare capace d’imporre le proprie decisioni. Del pari convenne con Einstein che non “c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini”[14]e concluse con una nota ottimistica, con la speranza “utopistica” che un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti catastrofici di un altro conflitto armato avrebbero posto fine alle guerre nel futuro. Le guerre degli anni Trenta-Quaranta dimostrarono che quella speranza era stata effettivamente utopistica.
Su queste teorie s’innesta il pacifismo che, secondo Russo, nel XIX Secolo si è gonfiato ambiziosamente a religione, a nuova filosofia dei popoli e si è acuito in seguito alle guerre. E’ una pretesa che, aggiunge, oltre a far diventare il pacifismo falso e assurdo, lo deforma quando pretende di eliminare la categoria metafisica della guerra.[15]E’ velleitario quando si appella alla natura pacifica dell’uomo che, come abbiamo visto prima, pacifico non è; è falso quando è mosso da fini politici.
Un noto giornalista, recentemente, ha scritto che “la pace è il difficile equilibrio fra divergenti e antagonistiche idee di convivenza e di sicurezza”,[16]presenti nelle relazioni internazionali. La guerra, perciò, sarebbe provocata dalla rottura di quell’equilibrio e sarebbe un modo unilaterale e violento di realizzarne un altro. Secondo lui la diplomazia dovrebbe essere lo strumento di pacifica composizione delle controversie internazionali.
Per “fortuna” lo sviluppo delle armi e la paura per gli effetti calamitosi di una guerra nucleare hanno reso ancor più irrazionale il ricorso alla forza e hanno provocato il ripudio della guerra sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, sottoscritto da quasi tutte le nazioni. Proposito che, purtroppo, non è stato rispettato in molte occasioni in varie parti del mondo, convalidando così le tesi pessimistiche di Freud e di Croce. Oggi s’odono gli stessi discorsi e i medesimi appelli per la pace del passato. Giovanni Paolo II ricordò che la Carta dell’ONU ripudia la guerra come strumento della politica e tuttavia Egli l’ammise “come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni…”[17]
Secondo Primavera Fisogni [18]quello dell’appello al dialogo è uno strano fenomeno: “Più si esorta al confronto, più ci si rende conto della difficoltà di tradurre quell’enunciato denso di aspettative e promesse in un evento che possa davvero favorire il confronto sociale, da un lato, e contenere i conflitti dall’altro, ponendosi come atto politico autenticamente efficace.”[19]
In vista della estrema possibilità ammessa dal Papa, le forze armate delle nazioni occidentali stanno adeguando le loro dottrine ai nuovi scenari di guerra e ai nuovi, sempre più sofisticati e potenti sistemi d’arma. La meccanizzazione, l’automazione e lo sviluppo dei mezzi aerei e spaziali hanno, tra l’altro, impresso alla guerra un dinamismo e una continuità operativa impensabile fino a qualche anno fa. Non vi sono più le pause forzate dovute all’oscurità, alle condizioni atmosferiche, all’esaurimento delle scorte di materiali essenziali che hanno caratterizzato i conflitti militari del passato. Il radar, i sistemi di visione notturna, i satelliti, gli elaboratori elettronici e il trasporto aereo le hanno eliminate e hanno inaugurato una vera e propria guerra tecnologica. Nello stesso tempo
consentiranno di colpire con estrema precisione obiettivi militari e di porre così limiti alla violenza. Le abbiamo ricordate queste novità appunto perché hanno fatto cadere anche le ragioni tecniche con le quali nel passato si giustificava l’impossibilità di distinguere i combattenti dai non combattenti.
Centocinquanta anni fa, l’ho ricordato più volte nel passato,[20]Giuseppe Collina preconizzò che l’Aeronautica sarebbe stata lo strumento idoneo per una nuova organizzazione sociale che avrebbe prodotto un’epoca di pace, di libertà, di dignità e di grandezza universale per tutta l’umanità. Secondo lui essa porterà alla riduzione degli eserciti e delle flotte, perché sarà una forza che dall’alto dominerà tutte le altre e sarà l’espressione della potenza militare di una nazione e il fattore principale di dissuasione degli Stati con mire aggressive. Nello stesso tempo sarà la dimostrazione della volontà di pace di una nazione e dei suoi propositi di difesa, perché uno Stato che non ha mire aggressive evita di munirsi di poderosi eserciti che sono gli unici idonei alla conquista territoriale. Infine l’Aeronautica “esterminerà dal mondo quel portento infernale chiamato guerra”.[21] Collina previde il gigantesco processo di sviluppo dell’uomo di pari passo o a causa di quello della scienza e della tecnologia e predisse che esso avrebbe determinato la realizzazione del vecchio sogno dell’Europa Unita e dell’unione poi di tutti i popoli sotto un unico governo che, solo, garantirebbe la pace.
La prima previsione si è avverata, anche se non ancora compiutamente; la seconda temiamo sia un’altra speranza utopistica.
[1] B. Croce, Ultimi Saggi, Laterza 1963
[2] J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2004
[3] Ibidem
[4] A.Pelliccia, Il Dominio dello Spazio, Ateneo & Bizzarri, Roma 1979
[5] G. Bouthoul, Le Guerre, Longanesi 1961
[6] B. Croce, Op. Cit.
[7] C. Clausewitz von, Della Guerra, Oscar Mondadori, 1978
[8] B. Croce, La Storia come pensiero e come azione, Laterza 1934, pag. 242
[9] L. Russo, Vita e disciplina militare, Le Monnier, Firenze 1934, pag.11
[10] G. Douhet, Il Dominio dell’Aria, SGA, Firenze 1935, E. Ludendorff, La Guerra Totale, Monaco 1936
[11] Idem, pag. 12
[12] S. Freud, Perché la Guerra? Bollati Boringheri, Torino 2001
[13] Idem, pag. 13
[14] Idem, pag.76
[15] L. Russo, op. Cit. pag. 12
[16] P. Ostellino, “Le vie della pace(senza pacifisti)”, Corriere della Sera 15/2/03
[17] Discorso al Corpo Diplomatico del 13/01/03
[18] P.Fisogni, Incontro al dialogo, Franco Angeli, 2006
[19] Ibidem. L’autrice fa rifeimento al progetto dell’ONU “Dialogue among civilisation” promosso dal Segretario Generale Kofi Annan
[20] A. Pelliccia, “Un patriota milanese precursore del potere aereo”, Rivista Aeronautica N° 10/ 1973
[21] G. Collina, La Laostenia, Firenze 1858

sabato 6 dicembre 2008

65° Anniversario a Montelungo

Convegno di Studi in occasione della data anniversaria della battaglia di Montelungo 8 dicembre 1943. Tema: Da Montelungo a Monte Marrone: la rinascita
Domenica 7 Dicembre 2008 ore 9,30, Palazzo Municipale di Mignano Montelungo

Dopo il Saluto di benvenuto del Sig. Sindaco di Mignano Montelungo, che verrà tenuto nella sala Principale del Municipio di Montelungo. si solgeranno le seguenti relazioni

Il Dr. Alberto Marenga presenta il Calendario Associativo 2009: Il Battaglione Piemonte. E’ tradizione della Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione presentare il calendario associativo a Montelungo. E’ una tradizione che è stata iniziata l’8 dicembre 2000. Quest’anno il Calendario è dedicato agli Alpini del battaglione Piemonte ed alla sua impresa su Monte Marrone, che significò la definitiva conquista della fiducia degli Alleati per i soldati Italiani dopo le sfortunate giornate di Montelungo ed i problemi ordinativi e disciplinari che seguirono

L'Ing. Giorgio Prinzi: Montelungo: I siti e i blog: la battaglia in rete. La relazione indicherà la possibilità di avere delle indicazioni per conoscere come la Battaglia di Montelungo è riporta in rete.

L’Amm. Giuliano Manzari svolgerà una relazione su “ La partecipazione della Marina e dell’Aeronautica alla rinascita”. Nei tempi difficile che erano gli ultimi mesi del 1943 per l’Italia e le sue Forze Armate, elementi della marina e dell’arenautica divennero semplici fanti ed alcuni di loro li troviamo a combatte sulle falde di Montelungo

Il Gen. Dr. Gianfranco Gasperini:con la sua relazione ricostruisce gli avvenimenti tecnico tattico del I Raggruppamento Motorizzato e poi il Corpo Italiano di Liberazione svolsero “ Da Montelungo a Monte Marrone”. E’ il filo rosso che conduce a comprendere come si ebbe la rinascita delle nostre Forze Armate, fra luci ed ombre che oggi, nel momento del ricordo, occorre comprendere nella effettiva realtà

Il Gen. Dr. Massimo Coltrinari parlerà della La Battaglia di Montelungo dal punto di vista degli Alleati. Un angolo di vista estremamente importante, in cui l’atteggiamento inglese era fortemente influenzato dallo spirito di punizione che l’armistizio dell’8 settembre aveva ulteriormente accentuato. Gli inglesi speravano in un rovesciamento delle alleanze tale che il fronte italiano potesse giungere sulle Alpi o almeno sugli Appennini. Come si svolsero le cose nella crisi armistiziali fu una delusione che accentuò il loro rancore. Significative al riguardo le testimonianze dell’allora cap. Cicogna Mozzoni . Atteggiamento mitigato da quello americano, che nonostante tutto volevano darci una mano ad uscire dalla situazione così negativa in cui eravamo andati a cacciarci frutto di una guerra di 39 mesi in cui collezionammo solo sconfitti e disprezzo di alleati e nemici e che proprio a Montelungo inviamo a riscattare
Le conclusioni saranno tratte dal Sindaco di Montelungo
Palazzo Municipale di Mignano Montelungo, Ore 9,30 Domenica 7 Dicembre 2008

mercoledì 3 dicembre 2008

La Grande Guerra a Siena

Segnalo agli interessati il seguente incontro di studi:
Lontano dal fronte. Memorie e studi della Grande Guerra, oggi
(Siena 4-5 dicembre 2008)
Complesso Museale Santa Maria della Scalaorganizzato da Soprintendenza per il patrimonio storico-artistico ed etnoantropologico - Siena
/ Comune di Siena - Archivio storico / Università degli studi di Siena - Facoltà di Lettere e Filosofia - Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militarigrazie anche al Comitato speciale per la tutela del patrimonio storico della Prima Guerra Mondiale della Direzione generale per i beni architettonici, storico-artistici ed etnoantropologiciNicola Labanca(presidente del Centro) (Nicola La Banca

lunedì 24 novembre 2008

Lutto in Associazione

E' Morto Lorenzo Lodi

Oggi, 24 novembre 2008 alle ore 12,05, presso la propria abitazione, confortato dai figli Marco e Luca è venuto a mancare nostro Lorenzo Lodi, combattente nel Gruppo di Combattimento Friuli, medaglia di bronzo a quota 92.

Vero combattente antinazista e antifascista, autore della rinascita della Sezione di Roma si era speso negli ultimi anni per vitalizzare la Sezione di Roma della Guerra di Liberazione con l'intento che la memoria e la democrazia sia sempre difesa e sostenuta.
La Direzione, la Redazione, e tutti i Collaboratori della Rivista "Il Secondo Risorgineto d'Italia" esprimono le proprie condoglianze alla Famiglia, ricordando in Lorenzo Lodi un vero amico e un sincero democratico.

Soldati Italiani sulla Linea Gotica



Convegno a Firenze 23 OTTOBRE 2008

Intervento
Massimo Coltrinari

Il quesito che ha posto il gen. Poli, ovvero rispondere alla domanda: perché i tedeschi si sono difesi su un simulacro di linee difensive nell’alta pianura romagnola e non nella valle del Po o sulle Alpi, trova il suo primo fondamento di risposta in alcune considerazioni che si possono fare analizzando il comportamento della Germania nella gestione della crisi armistiziali Italia del settembre 1943.
La Germania era ben conscia che l’Italia, nella primavera del 1943 non aveva i mezzi per continuare la lotta ed il fascismo, sia come regime che come movimento, aveva, come ben nota lo Zangrandi, aveva esaurito ogni sua energia. Fu un crollo prima che materiale psicologico e motivazionale. Nessuno in Italia era più in grado, anche volendo, di sostenere Mussolini e questo è dimostrato dall’azione dei gerarchi, che poi divennero i “traditori” del 25 luglio ed alcuni fucilati a Verona l’11 gennaio 1944, da un Tribunale Speciale della Repubblica Sociale Italiana. I piani tedeschi per assorbire l’uscita dell’Italia della guerra erano pronti da tempo. Hitler e l’OKW avevano già preordinato questa uscita creando due comandi, quello di Rimmel nella Italia settentrionale e quello di Kesserling nell’Italia meridionale, considerando persa in partenza l’Itala Centro meridionale tanto che fin dall’agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla 10a Armata del generale Vietinghoff. La difesa avanzata del fronte meridionale della Germania era sugli Appennini, mentre quella vera e propria doveva svolgersi sulle Alpi, da sempre il baluardo meridionale del mondo germanico. Lo stesso comportamento di Rommel nei giorni postarmistiziali, e di tantissimi altri tedeschi in Italia, era orientato a questo. Tutto era preordinato, ma come al solito i piani non corrisposero alla realtà
La Germania fu sorpresa dalle modalità dell’uscita dell’Italia, anche lei si fece trovare impreparata nei dettagli e nel contingente ad affrontare la situazione. In questa incertezza, ebbe gioco in modo oltre il preventivato l’azione del maresciallo Kesserling, che si trovo ad agire d’iniziativa senza il controllo dell’OKW e di Hitler. La prima mossa fu quella di bloccare la via di Fiumicino e il progetto Reale di raggiungere la Sardegna. Poi vi è tutta la vicenda della fuga a Pescar-Brindisi, da parte del vertice governativo-militare italiano, aspetto questo estremamente controverso in cui non si vuole entrare, che diede a Kesserling il grande vantaggio di agire senza l’opposizione delle forze armate italiane. Che le forze italiane non si opposero ai tedeschi non avendo ordini dall’alto è un dato oggettivo e questo lo si ebbe per 48 ore. Badoglio, giunti a Brindisi emana alle ore 11 del 11 settembre 1943 da Radio Bari. Vi furono episodi isolati, grandi moralmente, eccezionali per la prospettiva futura e per la dignità di noi italiani, ma Kesserling ebbe modo di non solo conseguire il risultato che si era promesso, ovvero quello di recuperare e salvare il maggior numero dei soldati tedeschi stanziati nella Italia centro meridionale. Ma riuscì anche ad ottenere di più, ovvero quello di contrastare e contrattaccare le forze alleante che stavano sbarcando in continente.
Kesserling occorre ricordarlo, riuscì a ritardare l’avanzata dell’8a Armata britannica, fino quando necessario per portare in salvo la 15ma Divisione Granatieri Corazzati e la 16ma Divisione Corazzata che l’8 settembre 1943 si trovavano in Calabria; ad impadronirsi quasi senza colpo ferire di Roma, ed ad assicurare il possesso per 8 mesi: a contenere la testa di ponte di Salerno per il tempo necessario a costituire una posizione difensiva continua dall’Adriatico al Tirreno, la linea Reinhardt, che nel settore occidentale s’impegnava sulla stretta di Mignano. Proprio in uno dei convegni organizzati dalla Associazione combattenti della Guerra di Liberazione, da parte del gen. Boscardi si sostenne la tesi, ben documentata, che se non ci fossero stati i combattimenti di Porta San Paolo le divisioni tedesche impegnate dagli Italiani a Roma sicuramente sarebbero giunte in tempo a Salerno e influire positivamente sull’andamento dello sbarco dal punto di vista tedesco.
Ancora maggiore sarebbero stati i risultati positivi qualora Hitler e l’OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due divisioni richieste fin dal mese di agosto. Queste divisioni avrebbero potuto giungere in forze in molto meno di sei giorni. Ma all’indomani dell’annuncio dell’armistizio con l’Italia già l’8a Armata stava avvicinandosi a Potenza e la 7a divisione corazzata (britannica) e la 3a divisione (statunitense) la testa di sbarco. La battaglia per la testa di ponte sarebbe durata più a lungo ma nella sostanza, a Salerno, il risultato non sarebbe, con l’intervento di queste due divisioni da terra, probabilmente cambiato. La differenza si sarebbe fatta sentire poco più tardi. Kesserling avrebbe potuto resistere a sud di Napoli ed essere in grado di tenere quell’importante porto e gli aeroporti di Foggia finché l’inverno non fosse intervenuto in suo soccorso. Sempre nel campo delle probabilità, quello che sarebbe stato e non fu, con la resistenza di Kesserling a sud di Napoli, i capi di stato maggiore britannici avrebbero perduto la causa e gli statunitensi avrebbero preso il definitivo sopravvento nelle decisioni. La decisione di Kesserling di ritirarsi sul Volturno attirò gli alleati come una calamita e creò quella situazione che il gen. Marschall aveva sempre temuto. Sarebbero stati i tedeschi a tenere impegnate il maggior numero di divisioni alleate e non viceversa.
Questo, sommato agli errori tattici dei Comandi Alleati, quali la scelta sbagliata delle località di sbarco, la punta della Calabria e la zona di Salerno, troppo a sud per aggirare le possibili difese tedesche, (uno sbarco a nord di Roma, ancorché fuori dalla copertura aerea, in presenza di una scarsa presenza aerea tedesca, era un rischio calcolato che poteva essere corso), e dalla mancata realizzazione della sorpresa, che condussero una campagna lenta frammentaria ed indecisa, permise a Kesserling di tenere il più possibile a sud di Roma, e non di Napoli, il fronte tedesco. Sempre un successo.
Le difese dell’Appennino tosco-romagnolo, che dovevano essere investite e tenute per un breve periodo nel settembre- ottobre 1943, furono raggiunge dagli Alleati solo a settembre-ottobre 1944, 12 mesi dopo del preventivato e , con il sopraggiungere dell’inverno, non furono superate.
Nel quadro generale della campagna d’Italia, quindi, queste difese rappresentano il migliore rapporto tra costo ed efficacia. Se da una parte esse assorbirono 10 divisioni che potevano essere utilizzate sul fronte occidentale e affittire le difese del vallo atlantico, dall’altra furono il minor presso da pagare per tenere gli alleati lontani dalla Germania, in attesa che la decisone sull’esito della guerra si palesasse sul fronte orientale.

Le difese sull’Appennino tosco-emiliano tennero e sarebbero state più produttive se Hitler non avesse insisto nella sua fissazione della difesa ad oltranza e della manovra di arresto.
Quando Kesserling cedette il comando a Vietinghoff il 9 marzo 1945 era chiaro che gli alleati stavano per sferrare una offensiva su larga scala.Vietinghoff non era Kesserling e non godeva delle simpatie presso Hitler come il maresciallo. Non ebbe la forza di convincere Hitler ad autorizzarlo a passare dalla manovra di arresto alla manovra in ritirata, da fiume a fiume e negò anche l’arretramento sul PO, proposto il 14 aprile, che segnò la fine della difesa tedesca in Italia. Quanto il 20 aprile 1945 questa autorizzazione giunse era ormai troppo tardi.
Quindi alla domanda posta dal generale Poli: perché i tedeschi si sono difesi sull’Appennino tosco-emiliano e non sul Po o sulle Alpi, si può rispondere in un modo che quanto detto ne traccia già le linee guida: I tedeschi si sono difesi in Italia già dall’8 settembre il più a sud possibile, consci che la Germania doveva avere il tempo per vincere la guerra in Russia,. Perché era lì che la guerra si decideva.
Ogni linea in Italia era una linea di difesa di arresto temporaneo e in qualche caso con la possibilità di reazioni dinamiche, tutte brillantemente sfruttate. Se Kesserling fosse rimasto in Italia ed agito per manovrare in ritirata sicuramente le forze tedesche avrebbero passato il Po in modo più o meno ordinato e si sarebbero attestate sulle Alpi, ove le avrebbero raggiunti la notizia della resa, su posizioni organizzate a difesa.
La campagna dei tedeschi in Italia, quindi conclusasi con la capitolazione, fu sotto il profilo tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Non si può dire altrettanto della campagna d’Itala dei Comandi Alleati, che come già accennato la condussero tra errori e incapacità.
La campagna d’Italia fu la cartina di tornasole del dissidio tra Statunitensi e Britannici. I primi volevano, ed ottennero, di adottare una strategia diretta, ovvero concentrare tutte le forze sul fronte francese, da aprire al più presto, e puntare il più velocemente su Berlino e porre fine alla guerra; i secondi cultori della strategia indiretta volevano attaccare si dalla Francia ma anche dall’Italia, per puntare su Vienna e raggiungere il cuore d’Europa nel più breve tempo possibile. Il risultato di una campagna condotta male e con risultati scarsi e deludenti.
A chi giovò maggiormente, ai tedeschi o agli Alleati?. Per la Germania la campagna era stata una necessità assoluta. L’abbandono dell’Italia avrebbe consentito piena libertà di movimento agli Alleati sia in direzione della Francia che in quella dell’Austria e dei Balcani ed avrebbe offerto loro la disponibilità di basi aeree ravvicinate per bombardare la Germania meridionale e l’Austria e minacciare le vie di rifornimento e gli arroccamenti fra la fronte occidentale e quella orientale.
Per gli Alleati la campagna d’Italia fu una libera scelta per perseguire fini strategici rimasti, però, sulla carta. La tattica usata dagli alleati fu del tutto inadeguata, nonostante che non mancassero loro forze e mezzi aerei, navali ed anfibi per dare vita a manovre ampie e profonde che eludessero o riducessero gli sforzi frontali. Sul piano tecnico-militare, perciò, mentre i tedeschi raggiunsero nel corso dell’intera campagna il massimo risultato conseguibili in quella situazione, gli Alleati non ottennero quanto virtualmente avrebbero potuto e offrirono,tutto sommato, un saggio scadente , non già del valore dei loro soldati, ma della loro abilità manovriera. Ma portavano la Libertà e la Democrazia, ed ovunque furono accolti come liberatori. Commisero errori strategici e tattici addirittura grossolani, e conclusero vittoriosamente la campagna solo per la loro schiacciante superiorità materiale. Ma avevano dalla loro il nuovo, il futuro, il fatto che combattevano contro il regime del genocidio, e questo diede loro tutto l’appoggio della popolazione in cui operavano, quella italiana.
Questi gli aspetti della Campagna d’Italia da parte di Eserciti estranei a noi italiani, Campagna d’Italia che occorre sempre differenziare dalla guerra di Liberazione, che intendiamo come secondo risorgimento d’Italia nell'approccio che abbiamo adottato[1].


Dato infine che questo è un convegno dedicato ai soldati italiani sulla linea gotica occorre a questa relazione fare una postilla, che va oltre la domanda posta dal gen. POLI. Un convegno dedicato ai militari Italiani sulla linea gotica non può dimenticare quei soldati italiani che come prigionieri cooperatori erano inquadrati nelle Unità da combattimento britanniche e statunitensi, nella ISU e nelle BTU. L’esempio della testa di ponte di Anzio è troppo noto. Se si parla di gruppi di Combattimento, di salmerie da combattimento, di tutto e di più, occorre rammentare anche questi soldati che, occorre ricordare erano sotto giurisdizione alleata e non italiana, ma che al momento della fine della guerra, nella smobilitazione alleata, senza soluzione di continuità ritornarono sotto giurisdizione Italia e furono coloro che, ricevendo tutto il materiale che gli alleati ci lasciarono diedero vita alle Forze Armate del dopoguerra. La loro azione meriterebbe una maggiore attenzione almeno da parte nostra.



[1] Coltrinari M., La Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti 1943-1945, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008.

martedì 11 novembre 2008

Ventiduesimo numero de "Il Secondo Risorgimento"

E' uscito il n. 3 de "Il Seconod Risorgimento d'Italia": Versione integrale del numero è disponibile su "www.seconodrisorgimento.it"/rivista/indici. Riportiamo di seguito il sommario
Il Secondo Risorgimento d’Italia N. 3 - 2008

SOMMARIO

FONTI, TESTI E DOCUMENTI
Giovanni E. Camboni, Dilemmi e non della Regia Marina 3-8 settembre 1943
Stelio Tofone, Montelungo 1943. Una pagina di storia del movimento di liberazione
Marco Marzollo, Sarajevo. 11 febbraio 1944-25 luglio 1945

Nota redazionale
La ragione del Convegno “Azioni Significative della Guerra di Liberazione su Cinque Fronti”
è da ritrovarsi nella constatazione, più volte ribadita dal Gen. Poli, che gli Italiani non conoscono la Guerra di Liberazione del 1943-1945. La ricordano i vecchi che l’hanno fatta ma sono
rimasti in pochi, non coloro che non l’hanno fatta, e non è stata né ricordata dalla scuola, né
dalla letteratura, né dalla pubblica informazione che rifiutano la memoria di quegli anni. Le
motivazioni di questa lenta discesa verso l’oblio non molte, ma una forse ha inciso in modo
più significativo. L’atteggiamento di una parte della Sinistra italiana, in special modo il Partito Comunista e tutto il portato intellettuale che ispirava, di volersi impossessare esclusivamente della resistenza e della Guerra di Liberazione, escludendo tutti gli altri italiani che l’avevano fatta (cattolici, socialisti, azionisti, moderati, liberali, monarchici, per non dire delle
categorie, intellettuali, militari, impiegati, borghesi, privilegiando solo operai) ha fatto si che,
al momento del crollo del muro di Berlino e della URSS e la fine di tutti i partiti comunisti,
compreso quello italiano, fece accomunare in questo loro fallimento anche la Guerra di Liberazione e la Resistenza. L’equazione Partito Comunista = Resistenza = Guerra di Liberazione,
ha portato all’altra equazione Fallimento del partito Comunista = Fallimento della Resistenza = Fallimento della Guerra di Liberazione.
Da queste equazioni nasce l’oblio in cui gli anni mirabili del 1943-1945 sono stati non solo dimenticati ma oggetto di smaniosi e indiscriminanti attacchi di tutte quelle forze sconfitte nel
1945 e richiusesi su se stesse dopo la constatazione di un fallimento disastroso dopo ventidue
anni di regime. Un fallimento che ha le solide radici in dieci anni di guerre portate a solo scopo imperialistico, spesso ciabattone, a popoli che nulla avevano contro quello Italiano, ad una
guerra mondiale dichiarata per puro spirito opportunistico, condotta così male che, oltre al
disprezzo del nemico, riuscimmo ad avere anche quello del nostro principale alleato, la Germania, e degli altri alleati minori; una guerra in cui non riuscimmo a vincere una sola battaglia, in nessuno dei teatri operativi in cui operammo. Li dove vincemmo, lo fu per merito del
nostro Alleato. Una guerra che è ricordata solo attraverso l’esaltazione del valore del nostro
Soldato, della sua abnegazione e della dedizione alla Patria: Mancò la Fortuna, non il Valore
è un motto scritto dai bersaglieri in un cippo a 111 Km da Alessandria: sagge parole che sintetizzano tutta la nostra partecipazione alla guerra mondiale, basata esclusivamente sulla fortuna, sugli astri, sul caso e, per quello che può contare in un confronto fra Potenze per la supremazia del Mondo, sul valore delle proprie truppe, e non sulla capacità industriale, sulla
preparazione professionale dei Quadri e dei vertici Militari, sulle dottrine d’avanguardia, insomma su tutto quello che contraddistingue una Potenza in guerra, da un paese qualunque.
La conclusione di 39 mesi di una guerra condotta in questa maniera non poteva che essere
disastrosa. E lo fu. La crisi armistiziale rappresenta una ferita aperta ancora nella nostra coscienza nazionale e proprio la Guerra di Liberazione è la risposta a tanto disastro, una risposta unitaria, non di parte. Noi la intendiamo una guerra su cinque fronti (quello del sud, del
movimento partigiano del nord, dell’internamento in Germania, quello delle vicende dei nostri soldati all’estero inseriti nei movimenti di resistenza locali, e quello dei prigionieri che
parteciparono e collaborarono) la cui matrice è la volontà di non accettare il tedesco, le sue
idee, di non avere nulla a che fare con il regime del Genocidio, il nazista, ma solo combattendolo. Nel 1943 l’Italia era divisa in due; non era più uno Stato; si può parlare di “debellatio”,
di cancellazione della sovranità nazionale: questo il grande risultato che un regime, quello
mussoliniano, ma è meglio chiamarlo “staraciano” per i suoi aspetti cialtroneschi che, sposando alcuni aspetti deteriori di noi italiani ha inciso e sta incidendo in profondità nel nostro tessuto nazionale. Un risultato che ancora oggi non viene riconosciuto ed accettato da tutte quelle forze che attaccano la Guerra di Liberazione, forze che hanno sempre in bocca la parola
“Patria”, ma che, alla prova dei fatti, antepongono i loro personali e corporativistici interessi,
a quelli generali, negando quel progresso sociale e materiale a cui ogni popolo, nella sua totalità, deve aspirare.
Come la conclusione della Prima Guerra Mondiale e l’ordine del Mondo da essa scaturito è la
base per comprendere, dopo la parentesi dei regimi nazifascista e comunista, aberrazione e
conseguenza delle tragedie della grande Guerra, i problemi di oggi e i disequilibri esistenti
tra opposte culture, così per l’Italia la Guerra di Liberazione, gli anni mirabili del 19431945, sono, la culla della nostra Repubblica e la matrice della nostra attuale situazione. Conoscere quegli anni significa conoscere le situazioni di oggi; non conoscerli, significa l’avanzarsi di tanti imbonitori che raccontano le loro favole per perseguire i loro interessi. Proprio
la volontà di conoscere quegli anni è alla base dell’iniziativa di organizzare un Convegno dedicato al concetto di Guerra di Liberazione su cinque fronti, convegno che tenutosi nel novembre 2007 è pienamente riuscito. Sulla scia di questo, si è creduto opportuno dedicare due
numeri della Rivista, il n. 3 ed il n. 4, proprio a contributi che, per forza di cose, non è stato
possibile presentare al convegno. In questo numero in copertina, presentiamo la foto di due
giovanissimi Ufficiali del nostro Esercito, ancora impegnati nel loro ciclo formativo di base,
che hanno presentato i loro lavori al convegno: una foto estremamente emblematica, che
ognuno può comprendere nei suoi più profondi significati, e tre contributi, che tratteggiamo
azioni significative della Guerra di Liberazione. Un particolare cenno si vuole fare a Stelio
Tofone, combattente di Montelungo, che si impegnò in anni non certo facili, a presentare nella sua totalità una pagina, quella della rinascita dell’Esercito Italiano, non certo semplice da
ricostruire e divulgare.

Il presente numero della Rivista esce con il contributo integrale dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze

In Copertina: Il S.Ten. Domenico Santoro ed il Ten. Andrea Figaro, vincitori del Premio 2006 messo a concorso
dalla Fondazione “Le Forze Armate nella Guerra di Liberazione 1943-1945, espongono i loro lavori al Convegno
“Azioni Significative della Guerra di Liberazione su Cinque Fronti” nel salone dei Dugento a Firenze

IV di Copertina: Locandina del convegno “Azioni Significative della Guerra di Liberazione su Cinque
Fronti” tenutosi a Firenze il 9 Novembre 2007

lunedì 27 ottobre 2008

Dardano Fenulli

Dardano Fenulli
Un Martire delle Fosse Ardeatine
Di anni 54, generale di Brigata. Nato a Reggio Emilia il 3 agosto 1889, frequentò giovanissimo la Scuola militare di Modena e nel maggio 1912 fu nominato sottotenente di Cavalleria. Dopo la morte del padre, Saverio Fenulli, caduto nella campagna di Libia (medaglia d’argento alla memoria), ottenne di rimpiazzarlo. Durante la Grande guerra, combatté a Cima Bocche e Col Briccon e in Val Posina, meritando due encomi solenni. A conflitto concluso, fu assegnato al Reggimento Nizza Cavalleria. Guardò con favore al nascente fascismo. Nominato tenente colonnello nel 1934, due anni dopo fu mobilitato per la campagna di Abissinia col grado di tenente colonnello. Dopo la conquista dell’Etiopia, fu assegnato all’Intendenza di Asmara come capo dell’ufficio di Stato Maggiore. Tra il 1938 e il 1939 comandò le truppe coloniali italiane impegnate «contro agguerrite formazioni di ribelli» nell’Africa Orientale Italiana, guadagnando la medaglia d’argento al valor militare. Nel 1940-42 partecipò alle operazioni belliche in Jugoslavia al comando del Reggimento Lancieri "Vittorio Emanuele II". Nell’aprile del 1943 divenne generale di Brigata e vicecomandante della Divisione "Ariete", al cui comando, il 9 e 10 settembre contribuì alla resistenza antitedesca vicino a Ciampino. Insieme al colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo contribuì alla creazione del Fronte militare clandestino, una rete di informazione, di collegamento e di coordinamento dei militari fedeli al re. In questi mesi Fenulli visse sotto falso nome cambiando spesso abitazione. Nel febbraio 1944 fu arrestato dalle SS in seguito alla delazione del commendatore Pistolini di cui Fenulli si era fidato. Imprigionato nelle carceri romane di via Tasso, nella cella n. 8, fu torturato dallo stesso Kappler. Nonostante i maltrattamenti Fenulli non rivelò mai i nomi dei compagni. Il 24 marzo 1944 fu prelevato dalla prigione e fucilato alle Fosse Ardeatine. Ancor prima della conclusione della guerra, gli fu assegnata la Meadaglia d’oro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione: « Vicecomandante della Divisione "Ariete", prendeva parte ai combattimenti dei giorni 9-10 settembre guidando una colonna corazzata che si impegnava nei pressi di Ciampino e la cui ulteriore azione fu sospesa dal concluso armistizio. Dopo l’armistizio rimaneva in Roma per dedicarsi intensamente all’organizzazione della lotta clandestina. A tale scopo prendeva contatti con numerosi rappresentanti politici e militari esponendosi senza riguardo. Animato da purissimi ideali e da una ardente volontà di lotta si prodigava in ogni modo per organizzare in Roma e nel Lazio bande armate per la lotta contro i nazifascisti. Individuato ed arrestato e sottoposto a tortura dava ai suoi compagni di prigionia esempio di fortezza d’animo. Nelle Fosse Ardeatine faceva olocausto della sua nobile esistenza. Roma, settembre 1943-marzo 1944.
Autore della presentazione: Enrica Cavina

martedì 21 ottobre 2008

Un Martire di Via Tasso: Sabatino Martelli Castelli

di
Alessandro Cortese de Bosis

Via Tasso 145, con le sue 40 celle, dominate dai nazisti Kappler e Priebke. Rileggendo oggi le "Lettere di condannati a morte della Resistenza europea", un volume con prefazione del Premio Nobel Thomas Mann, che dovrebbe essere diffuso in tutte le scuole italiane, vi riconosciamo tanti dei detenuti di Via Tasso: la nota dominante di quelle lettere è la serenità con cui i condannati scrivono ai loro cari, compiuto il dovere di tacere sotto la tortura, il dovere fino all'estremo della vita.
E pochi luoghi come la prigione delle S.S. ci ricordano il vincolo, storico e umano che lega la Resistenza, militare e civile nell'Italia occupata dai nazisti, alla Guerra di Liberazione: che le Forze Armate italiane e le formazioni partigiane hanno combattuto sul campo di battaglia come parte integrante dello sforzo bellico alleato nella campagna 1943-45.
Una tra le tante prove di questa verità la troviamo nella lettera di un martire di Via Tasso: il Generale di Brigata Aerea Sabatino Martelli Castaldi che dopo le torture subite con i compagni di cella, militari e civili, verrà trucidato nelle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
La sua ultima lettera alla moglie dimostra la dedizione al dovere e al tempo stesso il disprezzo per la tracotanza spietata del nemico nazista. Sono parole esemplari, come un testamento politico risorgimentale, sempre valido, senza tempo, senza frontiere.
«4 marzo 1944.
I giorni passano, e, oggi, 47°, credevo proprio che fosse quello buono, e invece ancora non ci siamo. Per conto mio non ci faccio caso e sono molto tranquillo e sereno, tengo su gli umori di 35 ospiti di sole quattro camere con barzellette, pernacchioni (scusa la parola ma è quella che ci vuol) e buon umore. Unisco una piantina di qui per ogni evenienza e perché, a mezzo del latore, quest'altra settimana me la rimandi completata. Penso la sera in cui mi dettero 24 nerbate sotto la pianta dei piedi nonché varie scudisciate in parti molli, e cazzotti di vario genere. Io risposi con un pernacchione che fece restare i tre manigoldi come tre autentici fessi. (Quel pernacchione della 24a frustata fu un poema! Via Tasso ne tremò ed al fustigatore cadde di mano il nerbo. Che risate! Mi costò tuttavia una scarica ritardata di cazzotti). Quello che più pesa qui è la mancanza di aria. Io mangio molto poco altrimenti starei male e perderei la lucidità di mente e di spirito che invece qui occorre avere in ogni istante.
(Ultimo messaggio, scritto sul muro della cella di Via Tasso).
Quando il tuo corpo
non sarà più, il tuo
spirito sarà ancora più
vivo nel ricordo di
chi resta - Fa che
possa essere sempre
di esempio.»
Aggiungo un'altra testimonianza, laconica ma altamente espressiva dell'amor di Patria di un partigiano, Medaglia d'Oro, che potrebbe essere sottoscritta da migliaia di combattenti per la libertà. «(...) l’amavo troppo la mia Patria, non la tradite, e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia vita e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale». Firmato: Giancarlo Puecher Passivanti, ventenne, figlio di Giorgio, deportato e morto nel campo di Mauthausen.
Ritorna anche il ricordo di Luciano Bolis, che decise di uccidersi in carcere per non crollare sotto la tortura, ed essere costretto a svelare i nomi dei colleghi patrioti. Ma non ci riuscì. «Avevo trovato una lametta da barba, arrugginita. Riuscii solo a tagliarmi le corde vocali». Ma almeno i torturatori non ce la fecero a farlo parlare. Luciano, Medaglia d’Argento della Resistenza.
Giustamente Enzo Bettiza definisce “memoricidio” l’oblio, spesso tollerato, se non esplicitamente da alcuni voluto, in cui rischia di cadere quel periodo cruciale della nostra storia, Il Secondo Risorgimento d’Italia.

Un martire di Via Tasso

Via Tasso 145, con le sue 40 celle, dominate dai nazisti Kappler e Priebke. Rileggendo oggi le "Lettere di condannati a morte della Resistenza europea", un volume con prefazione del Premio Nobel Thomas Mann, che dovrebbe essere diffuso in tutte le scuole italiane, vi riconosciamo tanti dei detenuti di Via Tasso: la nota dominante di quelle lettere è la serenità con cui i condannati scrivono ai loro cari, compiuto il dovere di tacere sotto la tortura, il dovere fino all'estremo della vita.
E pochi luoghi come la prigione delle S.S. ci ricordano il vincolo, storico e umano che lega la Resistenza, militare e civile nell'Italia occupata dai nazisti, alla Guerra di Liberazione: che le Forze Armate italiane e le formazioni partigiane hanno combattuto sul campo di battaglia come parte integrante dello sforzo bellico alleato nella campagna 1943-45.
Una tra le tante prove di questa verità la troviamo nella lettera di un martire di Via Tasso: il Generale di Brigata Aerea Sabatino Martelli Castaldi che dopo le torture subite con i compagni di cella, militari e civili, verrà trucidato nelle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
La sua ultima lettera alla moglie dimostra la dedizione al dovere e al tempo stesso il disprezzo per la tracotanza spietata del nemico nazista. Sono parole esemplari, come un testamento politico risorgimentale, sempre valido, senza tempo, senza frontiere.
«4 marzo 1944.
I giorni passano, e, oggi, 47°, credevo proprio che fosse quello buono, e invece ancora non ci siamo. Per conto mio non ci faccio caso e sono molto tranquillo e sereno, tengo su gli umori di 35 ospiti di sole quattro camere con barzellette, pernacchioni (scusa la parola ma è quella che ci vuol) e buon umore. Unisco una piantina di qui per ogni evenienza e perché, a mezzo del latore, quest'altra settimana me la rimandi completata. Penso la sera in cui mi dettero 24 nerbate sotto la pianta dei piedi nonché varie scudisciate in parti molli, e cazzotti di vario genere. Io risposi con un pernacchione che fece restare i tre manigoldi come tre autentici fessi. (Quel pernacchione della 24a frustata fu un poema! Via Tasso ne tremò ed al fustigatore cadde di mano il nerbo. Che risate! Mi costò tuttavia una scarica ritardata di cazzotti). Quello che più pesa qui è la mancanza di aria. Io mangio molto poco altrimenti starei male e perderei la lucidità di mente e di spirito che invece qui occorre avere in ogni istante.
(Ultimo messaggio, scritto sul muro della cella di Via Tasso).
Quando il tuo corpo
non sarà più, il tuo
spirito sarà ancora più
vivo nel ricordo di
chi resta - Fa che
possa essere sempre
di esempio.»
Aggiungo un'altra testimonianza, laconica ma altamente espressiva dell'amor di Patria di un partigiano, Medaglia d'Oro, che potrebbe essere sottoscritta da migliaia di combattenti per la libertà. «(...) l’amavo troppo la mia Patria, non la tradite, e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia vita e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale». Firmato: Giancarlo Puecher Passivanti, ventenne, figlio di Giorgio, deportato e morto nel campo di Mauthausen.
Ritorna anche il ricordo di Luciano Bolis, che decise di uccidersi in carcere per non crollare sotto la tortura, ed essere costretto a svelare i nomi dei colleghi patrioti. Ma non ci riuscì. «Avevo trovato una lametta da barba, arrugginita. Riuscii solo a tagliarmi le corde vocali». Ma almeno i torturatori non ce la fecero a farlo parlare. Luciano, Medaglia d’Argento della Resistenza.
Giustamente Enzo Bettiza definisce “memoricidio” l’oblio, spesso tollerato, se non esplicitamente da alcuni voluto, in cui rischia di cadere quel periodo cruciale della nostra storia, Il Secondo Risorgimento d’Italia.
Alessandro Cortese de Bosis

giovedì 17 luglio 2008

Monte Marrone e Montelungo

Riceviamo, daGiovanni Battista Corvino, combattente in Russia e della Guerra di Liberazione la seguente lettera che pubblichiamo:

Egregio Dr. Coltrinari
Ritengo di esserci conosciuti a Caserta, in occasione di un incontro con l’Associazione Internati e Guerra di Liberazione, comunque mi presento:
sono Corvino Giovanni Battista, classe 1922 appartengo a quelli d’Aosta ’41sono stato promosso sottotenente il 15 febbraio 1942. Ho partecipato con il Battaglione “Val Cismon”del 9° Reggimento Alpini della Divisione “Julia”, come comandante di plotone fucilieri alla campagna di Russia, sono stato ferito in combattimento il 28 dicembre 1942 al famoso quadrivio insanguinato di Selenij-Yar. Nel 1952 mi è pervenuta una Medaglia di Bronzo al Valor Militare per il fatto d’armi del 28 dicembre. L’8 settembre, sempre con il “Val Cismon” ero nell’alta Val d’Isonzo, zona slava. Dopo i vari ripensamenti decisi di scendere al Sud. Ad Ancona fui catturato dai tedeschi e dopo 15 giorni di prigionia nella caserma Cialdini, paventando di essere internato, riuscii a fuggire, e dopo varie peripezie il 13 ottobre attraversai le linee tra Guglionesi e Montenero di Bisaccia (Termoli).
Ripresentatomi al Sud sono stato uno dei primi ufficiali ad appartenere,dopo l’8 settembre, ad un gruppo di Alpini denominato “Reparto Esplorante Alpini” poi divenuto Battaglione “Taurinense” ed infine “Battaglione Piemonte”. Con il Battaglione “Piemonte” sempre come comandante di plotone fucilieri, 3 Compagnia I Plotone ho partecipato alla Guerra di Liberazione. Il 29 maggio 1944 a Madonna del Canneto sono stato decorato di una Medaglia di Bronzo sul campo.
^^^^^
Ebbene, leggo su “Il Secondo Risorgimento d’Italia” e le varie pubblicazioni sulla guerra di Liberazione, ma devo constatre che in realtà viene dato poco risalto ad avvenimenti di notevole importanza. E’ pur vero che l’8 dicembre 1843, solo dopo 3 mesi dalla resa incondizionata, vi è stato a Montelungo, con il I Raggruppamento Motorizzato, l’inizio ed il battesimo di fuoco della partecipazione italiana alla guerra di Liberazione, tra lo scetticismo degli Anglo-americani, pertanto rimane una data storica, anche se la volontà di riscatto degli italiani era stata dimostrata lo stesso 8 settembre a Porta San Paolo dai Granatieri di Sardegna. La battaglia di Montelungo, come Lei sa, meglio di me; non diede risultati eclatanti per vari motivi ( scarsa preparazione morale e materiale, scarso equipaggiamento, improvvisazione, condizioni atmosferiche proibitive) per cui gli Anglo-americani continuarono ad essere scettici. Dovettero trascorrere oltre 3 mesi perché venisse concessa un’altra prova. Ciò avvenne il 31 marzo 1944, con la conquista, da parte degli Alpini del Battaglione “Piemonte” di Monte Marrone, con azione frontale, ritenuta impossibile dagli Anglo-americani che dagli stessi avversari tedeschi, ma maggiormente stupì la difesa di Monte Marrone dall’attacco dei tedeschi il 9-10 aprile (notte di pasqua).Furono questi gli episodi che convinsero gli Anglo-americani sulla validità e necessità di avere gli Italiani al loro fianco. Infatti il I raggruppamento Motorizzato fu ampliato e denominato Corpo Italiano di Liberazione e dopo il comportamento nell’avanzata sul settore Adriatico fino alla linea Gotica. Il C.I.L. fu ampliato e trasformato in Gruppi da Combattimento, armato ed equipaggiato con materiale inglese ed inserito nella primavera del 1945 fino alla fine del Conflitto.
Io credo perché non mettere in risalto che l’Esercito Italiano, nato a Montelungo ha avutoi il suo consolidamento nelle terre dell’Alto Molise, sulle Mainarde perché le date del 31 marzo e 9 e 10 aprile 1944 non vengono mai citate.
La storia deve sapere tutta la verità, il vero con tributo alla Guerra di Liberazione dell’Italia è stato dato dalle truppe regolari italiane, inserite a Montelungo l’8 dicembre 1943 e consolidatesi nell’alto Molise sulle montagne delle Mainarde, a Mnte Marrone il 31 marzo ed il 9 e 10 aprile 1943. Ritengo che sarebbe doveroso ogni volta che si cita Montelungo 8 dicembre 1943, si affianchi Monte Marrone 31 marzo e 9 e 10 aprile 1944.
Mi scusi per quanto Le ho scritto, sperando di trovarLa d’accordo, nel mentre mi è gradita l’occasione per cordialmente salutarLa. Giovanni Battista Corvino
Foggia 12 luglio 2008.
Rispondiamo:
Non si può non essere d’accordo con quanto scrive Covino. L’una nota che possiamo aggiungere è che la parola “rinato” riferita all’Esercito Italiano a Montelungo, non sembra, a nostro parere, appropriata. Rinascere significa nascere due volte. Per noi vi è una continuità, anche in presenza di una crisi armistiziale come quella dell’8 settembre, per le Forze Armate Italiane che rappresentano la continuità dello Stato. Questo concetto per noi si esplica nell’approccio che abbiamo adottato per la Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti, a cui rimandiamo.
Nel solco di quanto detto e proposto da Corvino, possiamo dire che il calendario Associativo per il 2009 sarà dedicato alla epopea di Monte Marrone e al Battaglione Piemonte. (redazionale)

Il Treno con le stellette: Il reggimento Genio Ferrovieri


di
Giovanni Cecini

L’uomo, in quanto “animale sociale”, ha connaturato l’istinto ed il desiderio di comunicare e quindi di allargare il suo spazio circostante. Nei secoli le invenzioni si sono succedute a ritmi sempre più incalzanti accrescendo, anche nel contesto relazionale e di mobilità, le occasioni per rendere l’essere umano più vicino o più lontano - a seconda dei casi - dai suoi simili.
Il “viaggio”, con i suoi connotati di scoperta, profitto economico, svago, ha ricoperto costantemente una centralità non da poco negli interessi e negli stimoli antropologici tanto che ancora oggi, benché tutto l’esplorabile sembra già noto, ci si spinge ancora oltre alla ricerca del perenne inesplorato.
Il treno, in epoca di satelliti e jet supersonici, potrebbe sembrare un po’ attempato, apparire lento e goffo ma proprio questa “anzianità di servizio” lo rende ancora più familiare a tutti, giovani ed adulti e oggetto per questo di spensieratezza e di gioia come di rispetto e di terrore, capace ancora di suscitare forti emozioni. La carrellata di episodi può spaziare a dismisura dal cinema alla letteratura fino a toccare le corde dei nostri ricordi personali: dalla paura degli ingenui spettatori del cinematografo che si rintanarono dietro le poltrone della sala alla prima dei fratelli Lumiére, alle risa provocate dal duo Troisi-Benigni alle prese con un Leonardo da Vinci macchinista di un improbabile locomotiva del “quasi 1500”, dal mistero di Agatha Christie sul lussuoso Orient Express fino ad un qualsiasi addio all’amata magari con fazzoletto bianco in una nebbiosa stazioncina di provincia. Tutti tasselli di un grande mosaico chiamato più semplicemente: treno, ferrovia, binario. Ecco quindi che in questa ottica ormai forse nessuno fa più caso alla prima metà dell’800 in cui “il cavallo di ferro” faceva i primi passi e rappresentava qualcosa di innovativo e per questo incerto, perché ancora in embrione tra gli “alambicchi” dei vari Seguin, Stephenson, Bayard.
Ovviamente anche le istituzioni militari in tutto il mondo, compresero ben presto l’utilità della nuova macchina e la fecero loro, rendendo gli spostamenti di truppe e materiali - e di conseguenza le guerre - più dinamici e veloci. In Italia, il Corpo militare del Genio Ferrovieri ebbe origine ufficialmente come “Brigata” nel 1873, in stretto contatto con lo sviluppo stesso dell’invenzione “treno”, ma esercitò la sua maturazione nel periodo della Prima Guerra Mondiale, quando la mobilitazione di massa per lo sforzo bellico imponeva parallelamente un adeguato impiego dei trasporti per uso militare. In questo frangente, per le sue peculiarità, la ferrovia si rivelò subito la regina delle comunicazioni anche per scopi bellici, dopo che da decenni aveva guadagnato la scena mondiale non solo surclassando il cavallo, la carrozza e la nave, ma creando intorno a sé una sorta di mito formatosi negli anni alimentato dal fascino delle locomotive sbuffanti o dei panorami sfuggenti dei finestrini.
Il Corpo partecipò a tutte le campagne e operando nei vari i teatri operativi occupandosi non solo del trasporto di truppe e merci militari, ma anche della progettazione e costruzione di intere linee ferroviarie, ponti e quant’ altro fosse necessario per il regolare traffico su ferro, fornendo quell’apporto logistico indispensabile per la normale ed eccezionale sopravvivenza dei rifornimenti militari in pace ed in guerra. Il suo particolare contributo, per esempio nell’ultimo conflitto mondiale, è stato assiduo ed efficace al seguito dei nostri soldati impiegati in Africa orientale e settentrionale, in Albania, in Provenza, in Grecia, in Jugoslavia ed in Russia. Ovunque questo corpo “tecnico” - per certi aspetti nascosto agli occhi dei più - si è distinto, ricoprendo quella indispensabile funzione spartiacque tra il ferroviere ed il combattente, autentica spina dorsale dello stesso Regio Esercito.
Dal 1975 l’unità è costituita come Reggimento atipico, che dipende per l'impiego ferroviario nazionale dall'Ispettorato Logistico dell'Esercito e dal Comando delle Forze Terrestri - COMFOTER Genio per quello "Fuori Area" (attività internazionale). Retto da un colonnello il personale è volontario; risulta ordinato suo su un Battaglione Armamento e Ponti (impegnato nella costruzione e nella manutenzione di strade ferrate) con sede a Castel Maggiore in provincia di Bologna ed un Battaglione Esercizio (impegnato appunto nella conduzione stessa dei treni) con sede ad Ozzano dell’Emilia, sempre in provincia di Bologna, trasferitosi dal 2001 dalla precedente sede di Torino presso la Caserma “Cavour”.

Ovviamente in tempo di pace, a maggior ragione nel secondo dopoguerra, i militari del Reggimento, si sono occupati della costruzione e manutenzione del sistema ferroviario italiano per scopi civili, fornendo all’intero Paese un contributo rilevante di slancio “unificante” e ricchezza economica dopo i tristi anni di miseria e distruzioni provocati dalla guerra.
In questa ottica nazionale, il Reggimento Genio Ferrovieri continua a mantenere uno stretto rapporto di collaborazione con le Ferrovie dello Stato (attualmente RFI, Trenitalia e Italferr) anche per fronteggiare i danni alla rete ferroviaria italiana provocati da possibili eventi calamitosi. Acquisita anche in questo ambito una elevata esperienza, ormai la sinergia tra organi militari e civili dello Stato rappresenta la vera carta vincente per fronteggiare al meglio i disastri naturali, quali terremoti e inondazioni, che tanto sconvolgono non solo il territorio in quanto tale, ma soprattutto la quotidianità delle popolazioni coinvolte. Ecco quindi uno dei più importanti contribuiti alla Nazione, quel valore sociale che si espleta sia nell’ordinario che nelle situazioni straordinarie, dove solo l’alta qualificazione professionale può velocemente normalizzare lo stato di crisi.
Il Reggimento addestra i militari volontari - e fino alla riforma delle Forze Armate anche i militari di leva - ed è incaricato di eseguire la manutenzione ordinaria e straordinaria dei raccordi ferroviari militari; provvede al montaggio di piani caricatori militari scomponibili per incrementare le capacità di carico e scarico delle stazioni ferroviarie; costruisce ponti metallici stradali e ferroviari; e per decenni ha fornito, in rinforzo alle Ferrovie, volontari capistazione, macchinisti, deviatori-manovratori ed operai all’armamento.
A ciò si aggiunge l’ attività all’estero che il corpo svolge a seguito delle missioni umanitarie degli organismi internazionali. Ecco quindi la presenza dei suoi uomini e delle sue strutture in Bosnia, in Kosovo, in Eritrea ed in Albania. Questi interventi hanno trovato il plauso dell’opinione pubblica e dato enorme credito al soldato come portatore e costruttore di pace. Proprio la funzione di “costruire” vie di comunicazione e quindi di creare velocemente ciò che è andato distrutto o che era mancante, umanizza ancora di più gli appartenenti al Corpo, percepiti dal cittadino come armati solo di solidarietà e di professionalità. Questo ultimo requisito – e non va dimenticato – è sempre stato un elemento distintivo del corpo, proprio perché anche nel periodo della leva non si limitava a addestrare superficialmente per pochi mesi giovani obbligati al servizio militare, ma creava, assolvendo una vera e propria scuola professionale di elevato livello, quello spirito giusto di alto valore sociale che poteva permettere, attraverso rafferme, uno sbocco lavorativo altamente qualificato da spendere sia in ambito militare che civile.

venerdì 4 luglio 2008

Battle groups. Una realtà Europea

I Battle groups devono essere considerati come il tentativo dell’Unione europea di ritagliarsi il giusto ruolo da protagonista nell’attuale sistema politico internazionale, dotandosi di uno strumento fondamentale per rispondere adeguatamente alle moderne crisi regionali, le quali hanno imposto una rivoluzione delle forze armate.
Il rilancio dell’Unione europea come soggetto politico, tuttavia, passa per la costituzione concreta di un attore unitario e credibile. Gli sforzi dell’Unione nella politica estera, di sicurezza e di difesa sono tangibili, anche se poco pubblicizzati. Il paradosso è proprio nella continuità dell’affermazione ufficiale di una politica di difesa espressa solo in termini di possibilità[1] e la costituzione di una struttura istituzionale deputata alla gestione di una politica di difesa comunitaria. Dal marzo 2000, il Comitato politico e di sicurezza, composto da funzionari di rango ambasciatoriale, si occupa periodicamente della Pesd e costituisce il referente politico immediato per il controllo a livello strategico delle operazioni; il Comitato militare, composto dai Capi di Stato Maggiore, è l’organo tecnico-consultivo dell’architettura difensiva europea e guida, approvandone i lavori, lo Stato Maggiore, gruppo di esperti militari deputati alla cura del Concetto operativo[2] e dell’Operation Plan[3]. Questa struttura a rete ha, al vertice, il Consiglio degli Affari generali e relazioni esterne, riunione dei Ministri degli Affari esteri e all’occorrenza della Difesa dei paesi comunitari, impegnata nell’articolazione nel dettaglio delle linee guida in materia fornite dal Consiglio europeo.
In questa dimensione, i Battle groups stabiliscono il contrappunto operativo dell’Unione.
Essi, quindi, rispondono alla positiva provocazione dell’Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza, Javier Solana, il quale ha sintetizzato in una domanda il punto nodale del problema: “Now, can you imagine a Europe that is just a Europe of dialogue and common positions and no action?[4]
Universale concetto di unità operativa sul terreno, i Battle groups dell’Unione europea traducono le esigenze politiche, strategiche e operative di questa misteriosa entità.
Il progetto comunitario, infatti, aspira alla realizzazione di tredici Battle groups, composti da 1.500 unità ciascuno. Nel progetto originario, questi force packages sono combined - nove di essi saranno multinazionali e quattro nazionali[5] – ma non joint, perchè inizialmente si costituiranno solo componenti terrestri, con un supporto aereo e navale[6] ad hoc. Questa composizione minimalista è indicativa del gap creato tra la loro reale natura e le aspettative riposte nelle forze e l’ampio ventaglio d’operazioni che esse sono chiamate ad assolvere. La cifra distintiva dell’azione dei Battle groups risiede proprio in quest’ultimo punto, poiché esse servono dai noti compiti di Petesberg alle più innovative stand alone e initial entry and rapid response.
Se nel 1992, lo shock dell’inefficienza europea nell’Ex Yugoslavia aveva portato al progetto della Rapid Reaction European Force[7] per servire il pacchetto di Petesberg, l’insieme delle missioni umanitarie e di soccorso, di peace keeping e di peace making, oggi le attuali crisi, come l’operazione Leonte ha dimostrato, hanno bisogno di forze pronte e immediatamente dispiegabili. I Battle groups rendono, quindi, possibili le moderne azioni dell’Unione europea, oltre ad aver ereditato le missioni precedenti. Questo è accaduto perchè il concetto del fuori area è, notevolmente, mutato; infatti, la sicurezza nel proprio territorio, oltre a non corrispondere più alla difesa del proprio territorio, ha imposto una dilatazione degli spazi e moltiplicato le modalità degli interventi. La sicurezza delle aree di interesse o di confine e la possibilità che le crisi regionali si propaghino, internazionalizzandosi, ha spinto gli Stati europei a legittimare interventi fuori dal loro confine e a passare dalle semplici e passive missioni di peace keeping di prima generazione, con l’interposizione fra forze di Stati in lotta, alle crisis management operations. Queste ultime modulano l’intervento, comprendendo tutto l’arco temporale di una crisi, dal suo prepararsi, al suo insorgere fino al ripristino di una condizione di stabilità solida e durevole, svolgendo la missione mentre la crisi è in corso[8].
Le missioni dei Battle groups sono il puntello delle nuove crisis response operations, ma hanno un’altra natura. Essi vengono attivati nella fase iniziale di una crisi, quando un conflitto è già in corso e l’intervento esterno può tentare solo la carta del possibile. Le stand alone, infatti, raccolgono l’insieme delle operazioni da svolgere nel brevissimo o breve termine e sono finalizzate al raggiungimento di un obiettivo particolarissimo[9], mentre l’initial entry and rapid response circoscrive pacchetti di operazioni volte a prepare un intervento in un teatro di crisi in cui essa è al massimo del suo potenziale e solo un atto di forza può separare le parti in conflitto e permettere a un’eventuale missione di peace making. I battle groups sono, quindi, forze “first in, first out”, le prime a spiegarsi nel terreno, compiere la missione assegnata e uscire, lasciando lo spazio a forze stabili.
Quest’articolato approccio è modellato sulle moderne crisi, nelle quali è necessario ponderare l’intervento in ordine della complessità e dello stadio della crisi stessa, passando da una situazione in cui stabilità e pace devono essere ripristinate - peace making – a una in cui esse, già acquisite, devono essere conservate – peace enforcing. I Battle groups sono, quindi, una moderna necessità manifestata in passato con la Forza di Reazione rapida; tuttavia dopo il fallimento di quest’ultima, ci si è resi conto che una forza più piccola e maggiormente reattiva, quindi, realisticamente attivabile nell’arco di cinque giorni, avrebbe meglio coniugato le moderne necessità di risposta alla crisi con le reali forze che i paesi membri dell’Unione erano disposti a fornire.
Nel Vertice di Le Tuquet, del febbraio 2003, Francia e Gran Bretagna si preoccuparono d’offrire un aggiornato e critico punto della situazione, sostenendo la costituzione di forze di terra, aria e mare, ad alta prontezza operativa in grado di dispiegarsi in cinque-dieci giorni dalla chiamata del Consiglio; tuttavia, solo nell’Headline Goal 2010[10] quest’ambizione si concretizzò in un progetto dettagliato.
Il bisogno di fronteggiare minacce dalla natura sfaccettata, ha portato l’Unione europea a dotarsi di strumenti per affrontare la crisi all’inizio, durante il suo sviluppo e nella fase del post conflitto. I Battle groups sono predisposti alla risoluzione della prima, costituendo, come abbiamo già sottolineato, pacchetti di forze per la risposta rapida con Combat Support and Combat Service Support[11].
L’Unione dovrà, quindi, agire in un framework internazionale, servendo con maggior prontezza le richieste dell’Onu e stabilendo con la Nato una partnership paritaria e trasparente, grazie agli accordi di Berlin plus[12] e all’istituzionalizzazione di una cellula di Comando esclusivamente comunitaria all’interno di Shape.
E’ necessaria una parentesi sull’Operation Centre, attivo dal 1° gennaio 2007. Questo costitusce il riferimento degli Headquarters nazionali per le missioni comunitarie, svolte sia in quanto Unione europea che in collaborazione con la Nato. In realtà, nonostante l’innovazione rappresentata, questo prototipo di Headquarters è arrivato come un regalo dopo l’ostacolo posto alla costituzione di uno esclusivamente europeo, del quale si era già scelta la sede di Tervuren.
Tuttavia,“these high readiness joint packages may require tailoring for a specific operation by the Operation Commander. They will have to be backed up by responsive crisis management procedures as well as adequate command and control structures available to the Union. Procedures to assess and certify these high readiness joint packages will require to be developed.”
L’Unione europea sta, quindi, cercando non solo di dotarsi di uno strumento autonomo e credibile, ma pretende un riconoscimento ufficiale. Il Full Operational Capability consiste in una certificazione di questa credibilità operativa, ottenibile con il superamento di una serie di prove di qualità[13], come il collegamento fra gli Headquarters e i livelli operativi, per ottenere l’assegnazione di missioni.
Non è un caso, quindi, che i paesi responsabili della realizzazione del progetto stesso dei Battle groups abbiano sviluppato e messo a disposizione i propri nazionali Operational Headquarters[14] all’interno dei quali pianificare e coordinare a livello strategico le missioni. Per questo motivo sono state individuate nazioni con funzioni di Point of Contact, cioè referenti e responsabili della condotta delle missioni stesse. Tuttavia, se un Headquarters nazionale non fosse disponibile, l’Operation Centre colmerebbe questo vuoto.
La centralità dell’Headquarters può essere compresa solo se la sua funzione viene inserita nel complesso dell’architettura politica attivata in caso di crisi.
Innanzitutto, deve essere approntata una valutazione comunitaria della crisi, un’analisi politica finalizzata alla definizione dell’azione comune; questo documento, definito Crisis management concept, viene realizzato dal Segretariato Generale, il quale lo trasmette successivamente al Comitato politico e di sicurezza e al Comitato militare perchè svolgano la loro funzione consultiva per correggere il documento mentre viene preparato. Il CMC funziona da pezza d’appoggio per la produzione del Military Strategic Options, studio militare di carattere tecnico finalizzato alla ponderazione di tutti gli aspetti dell’operazione, dalle forze necessarie ai rischi. Il Comitato Militare si occupa della sua realizzazione e del suo invio al Comitato politico e di sicurezza che ne valuta l’opportunità politica e lo trasmette al Consiglio europeo. Dopo il giudizio di quest’ultimo, il Comitato militare si occupa dell’approntamento dell’Initiating Military Directive, piano di dettaglio delle operazioni. L’approvazione del Comitato politico e di sicurezza conclude questo complesso iter politico.
Dopo questo ciclo, si apre la fase della definizione dei piani militari nella quale l’European Military Staff si dedica allo sviluppo del Conops e dell’Oplan, secondo quanto precedentemente descritto.
Quest’elaborato flusso è indubbiamente razionale e di garanzia per tutti i paesi; tuttavia, esso è soggetto a una dilatazione dei tempi, soprattutto in caso di mancato accordo, impensabile per operazioni da lanciare in cinque giorni.
Ai paesi membri dell’Unione è, quindi, richiesta una disponibilità per un progetto tutto europeo, da affiancare alla già esistente Nato Response Force. La situazione internazionale decritta non poteva spingere l’unica organizzazione in grado, almeno attualmente, di difendere i suoi membri, a costituire forze di reazione rapida. I Battle groups dell’Unione, quindi, devono affermarsi e trovare uno spazio per evitare una duplicazione di forze, impossibile da sostenere per i paesi europei e destinata a portarli a una fatale scelta, in cui la Nato risulterebbe vincente.
La Nrf è una realtà solida e maggiormente strutturata rispetto ai Battle groups europei[15] e serve le stesse operazioni. E’, quindi, comprensibile il timore di formare con i Battle groups europei una forza aggiuntiva e per questo inutile o improduttiva. Per evitare il ritorno di un moderno monito delle 3D, la Nato e l’Unione hanno istituito un gruppo di contatto, impegnato ad armonizzare le forze. Non si deve dimenticare la complessa mappatura delle appartenenze dei paesi membri della Nato e dell’Unione europea. Senza considerare il caso di paesi membri di entrambi, alcuni sono membri dell’Unione, ma non della Nato oppure altri ne sono semplici osservatori o hanno sviluppato rapporti di collaborazione in attesa d’acquisire la membership. Questa condizione ha sempre creato non pochi problemi per la definizione di una stabile collaborazione, soprattutto per la diffusione d’informazioni riservate che oggi porterebbero a una paralisi dell’attività o alla costituzioni di fazioni nella stessa organizzazione!
Intanto, comunque, i Battle groups sono una realtà funzionante.
Solo il 5% dei due milioni di militari appartenenti ai paesi membri dell’Unione europea è utilizzato per missioni comunitarie; nonostante questo dato irrisorio, in questo momento, circa 70 mila soldati dell’Europa comunitaria, sono impiegati in missioni decise dall’Unione.
Dalla Repubblica democratica del Congo alla Moldova, da Rafah alla Bosnia Erzegovina, dal Fyrom al Kosovo, l’Unione europea è presente con le proprie forze. Questi interventi sono stati caratterizzati da successi e fallimenti, soprattutto per la mancata concessione di mandati precisi.
L’Operazione Concordia è stata svolta con successo, permettendo di dare attuazione agli Accordi di Orhid, dimostrando la produttività dell’Unione europea anche quando i Battle groups non erano ancora stati attivati. Se, successivamente, l’Unione ha dimostrato ancora la sua incisività con operazioni autonome svolte con propri assets[16], perchè non concedere ai Battle groups europei già costituiti la conduzione dell’operazione in Libano?
L’Unione deve, quindi, superare gli ostacoli politici al suo interno, le diffidenze degli stessi paesi membri per comunitarizzare la politica di difesa e colmare i vuoti indicati, soprattutto nella realizzazione di un Headquarters autonomo e nello snellimento delle procedure decisionali. Solamente questi passi permetteranno di superare la diffidenza che ancora aleggia sull’operato dell’Unione e permetteranno a questo soggetto di allineare la sua struttura politica alle sfide moderne imposte dal mantenimento della sicurezza e della stabilità internazionale. ( Fabiana Galassi; fabiana_galassi@hotmail.com)
[1] Dal Trattato di Maastricht alla Costituzione europea, infatti, si può tracciare una linea di continuità che porta l’acquisizione della politica di difesa come competenza esclusiva dell’Unione solo possibile, ma non certa.
[2] Conops è il piano d’impiego delle forze nel tempo e nello spazio per il conseguimento dell’end state.
[3] L’Oplan è il piano dettagliato delle operazioni sul campo.
[4] Conferenza sulla politica europea di sicurezza e difesa, Berlino, 29 gennaio 2007.
[5] Italia, Gran Bretagna, Spagna e Francia hanno annunciato la loro volontà di cosituire gruppi autonomi.
[6] Il raggio d’azione delle operazioni fuori area dei Battle groups, è stato fissato a 6.000 kilometri da Bruxelles. Se la forza di questo strumento sta nel rapido dispiegamento, come non prevedere una disponibilità d’arei e navi per permettere alle truppe di stabilirsi sul terreno dopo quindici giorni dalla chiamata, trasportando tutto l’equipment di cui hanno bisogno per la missione? In più, l’Unione europea non dispone di un proprio tessuto industriale ed è, quindi, totalmente dipendente dalle forniture dei paesi membri, i quali hanno essi stessi problemi di disponibilità, fra l’attesa di un rinnovo del loro arsenale - come l’A400M - e il gioco a incastro dato dal leasing.
[7] La costituzione di una forza di 50/60.000 unità, ripartite in 15 brigate, disponibili in 60 giorni e in grado di rimanere sul terreno per almeno un anno, non doveva far approdare a un prototipo di Forze Armate europee. Prevista nel Headline goal 2003, documento programmatico del Consiglio di Helsinki del dicembre 1999, la Frr avrebbe dovuto stimolare una risposta tutta europea alle crisi, dotando l’Unione di uno strumento militare autosufficiente con un adeguato C2I, punto debole degli Stati europei.
[8] Per questo motivo definire una data d’uscita dei contingenti è praticamente impossibile.
[9] Le non combat evacuation operations – neo – costituiscono l’esempio più comprensibile. Queste operazioni finalizzate all’evacuazione del personale dello Stato operante in un territorio in cui è scoppiata una crisi, hanno bisogno di essere eseguite rapidamente e danno la misura d’azione improntate al conseguimento del risultato e conclusa con il suo raggiungimento.
[10] Documento ufficiale del Consiglio europeo del giugno 2004.
[11] Queste categorie ordinano funzioni che permettono lo svolgimento delle missioni, anche in condizioni estreme. La prima raccoglie la moderna Eletronic Warfare mentre la seconda fornisce un supporto con servizi come il Cimic, la componente medica e l’ausilio geografico.
[12] In base a quest’accordo, l’Unione europea ha potuto sviluppare missioni comunitarie, sfruttando gli assets della Nato.
[13] Finora due Battle groups l’hanno ottenuto, quello composto da Germania, Olanda e Finlandia e quello franco-belga.
[14] Gli Headquarters disponibili sono finora quello britannico di Noorthwood, quello francese di Mont-Valérien, quello greco di Larissa, il tedesco a Postdam e l’italiano Coi, a Roma.
[15] E’ sufficiente pensare alla grandezza di 9.500 unità, servite da una stabile componente joint e forze speciali, e con un Headquarters e un Saceur stabili.
[16] Ovviamente, il riferimento è all’operazione Artemis nella RDC, dove un supporto alla Monuc dell’Onu nella zona dell’Ituri, è stata svolta dell’Unione, sostanziando gli Accordi di Cotonou.