1.2.
Lo sbarco in Sicilia
La
conseguenza più importante della conclusione della campagna d’Africa, fu che
essa privò Germania ed Italia della maggior parte delle truppe addestrate ed
esperte di cui disponevano nel teatro del Mediterraneo, truppe che altrimenti
esse avrebbero potuto impiegare per bloccare la prima e cruciale fase di
rientro degli Alleati in Europa. In realtà questo primo rientro in Europa, che
Winston Churchill già vagheggiava a fine 1942 e che aveva per meta la Sicilia,
fu un balzo azzardato, pieno di incertezze, il cui successo deve essere in gran
parte attribuito all’influenza di tutta una serie di fattori. Primo fra tutti
al cieco orgoglio che spinse Hitler e Mussolini a tentare di “salvare la
faccia” in Africa. Poi, ai sentimenti di gelosia e di timore che Mussolini
nutriva verso gli alleati tedeschi e alla sua riluttanza a permettere loro di
svolgere un ruolo preminente nella difesa del territorio italiano;
all’ostinazione del Primo Ministro britannico che vinse le resistenze
americane, sempre vive quando si profilava all’orizzonte il pericolo di
lasciarsi impegnare nel Mediterraneo, a scapito dello sbarco oltre Manica.
Infine, la convinzione di Hitler, non condivisa da Mussolini, che la Sicilia
non fosse il vero obiettivo degli Alleati.
Oggi
sappiamo che la decisione di invadere la Sicilia fu presa nella conferenza di
Casablanca che si tenne fra il 12 ed il 26 gennaio 1943, e che nelle intenzioni
degli Alleati, l'occupazione della maggiore isola italiana doveva rappresentare
il proseguimento delle “operazioni nel Mediterraneo iniziate con lo sbarco in
Africa” e al tempo stesso l’avvio della campagna d’Italia. Di fatto, la
decisione presa dal presidente Franklin Delano Roosevelt e dal primo ministro
britannico Winston Churchill, in accordo con i loro più importanti consiglieri
ed il Combined Chiefs of Staff, dette il via ad una serie di avvenimenti
concatenati che portarono infine all’invasione dell’Italia continentale, al
crollo del regime fascista, alla resa dell’Italia.
Nel
febbraio 1943, tre mesi prima della fine della battaglia di Tunisia, fu
costituito ad Algeri un Ufficio piani, che poi si trasformò in comando del XV
Gruppo d’Armate, col compito di pianificare l’Operazione HUSKY, cioè lo sbarco
in Sicilia. La cuspide sud-orientale dell’isola, con al centro la penisola di
Pachino, fu subito considerata la più favorevole per uno sbarco, ma l’opinione
che fosse indispensabile impadronirsi al più presto di porti, fece prevalere
l’idea di sbarcare fra Avola e Gela (per occupare i porti di Siracusa e
Augusta) e fra Sciacca e Selinunte (per occupare l’aeroporto di Castelvetrano).
Due giorni dopo (D + 2) due divisioni sarebbero sbarcate presso Palermo per
conquistare il porto della città, il giorno successivo (D + 3) due divisioni e
mezza sarebbero sbarcate vicino Catania. Il generale Montgomery si oppose a
tale piano perché la sua 8ª Armata, sarebbe stata diluita su una fronte troppo
vasta; sopravvenne una crisi che fu risolta, perché fu ammesso di poter
rifornire per un certo tempo le truppe anche senza disporre dei porti di
Catania e Palermo. Ormai, più che l’immediato possesso dei porti era importante
l’acquisizione di aeroporti. Il piano che fu concordato il 3 maggio ed
approvato il 13 maggio dallo Stato Maggiore combinato (anglo-americano),
previde la effettuazione contemporanea degli sbarchi nel giorno “D”. L’8ª
armata britannica (gen. Montgomery) doveva attaccare dal golfo di Noto alla
Penisola di Pachino compresa; la 7ª armata americana (gen. Patton) fra
Scoglitti e Licata (¹). Secondo il Morison (²) nessun’altra operazione anfibia
era stata effettuata, né lo fu in seguito, su una fronte così ampia (210 Km.),
e nessuna con tanto numerose forze impiegate inizialmente. Fin dal 13 aprile
era stato deciso di effettuare lo sbarco nella notte dal 9 al 10 luglio, perché
quella era l’unica notte nella quale sarebbe stato possibile conciliare le
esigenze dei paracadutisti, che volevano lanciarsi col chiaro di luna, e delle
forze terrestri che volevano sbarcare nell’oscurità. Infatti la luna sarebbe
tramontata precisamente nel breve intervallo fra le due operazioni.
________________
(¹) vds
cartina.
(²) S.E.
Morison, History of United States Naval Operations in World War II, Vol. IX.
Cartina: Il rientro in Europa.
Con la
scomparsa dalla scena delle 8 divisioni catturate in Tunisia, compresi quasi
tutti i veterani di Rommel e la parte migliore dell’esercito italiano, l’Italia
e le isole italiane rimasero quasi del tutto prive di copertura difensiva.
Queste forze, infatti, avrebbero saputo difendere con grande energia le vie di
accesso italiane all’Europa, e le probabilità di successo dell’invasione
alleata sarebbero state scarse. Ma sebbene fin da gennaio avessero deciso che
la mossa successiva sarebbe stata lo sbarco in Sicilia e Tunisi fosse caduta
non molto dopo la scadenza prevista, gli Alleati non seppero agire con
tempestività per cogliere il momento favorevole. Fortunatamente per loro, il
momento favorevole fu prolungato da dissensi e divergenze di vedute ai vertici
dei due paesi dell’Asse. A questo punto, infatti, entra in gioco un secondo
fattore di grande importanza, per comprendere il quale possiamo rifarci, in
particolare, alla testimonianza del generale Westphal, allora capo di stato
maggiore del feldmaresciallo Kesserling, comandante in capo nel sud. Poiché l’Italia
non aveva più forze meccanizzate, i suoi capi militari pregarono i tedeschi di
inviare in Italia un consistente rinforzo di divisioni di tipo corazzato.
Convinto dell’opportunità di soddisfare questa urgente esigenza, Hitler inviò a
Mussolini un messaggio personale in cui gli comunicava di essere disposto a
offrirgli 5 divisioni. Ma Mussolini, senza informare Kesserling, rispose a
Hitler di volerne solo 3, il che significava solo una nuova divisione, oltre
alle 2 che erano state improvvisate mettendo insieme i contingenti di reclute
destinate all’Africa che al momento della resa in Tunisia erano di transito in
Italia. Anzi, Mussolini esprimeva il desiderio che in Italia non fossero
inviate altre truppe tedesche. Questa riluttanza ad accettare l’offerta
avanzata da Hitler verso la metà di gennaio era dovuta a un misto di orgoglio e
di timore. Mussolini non voleva che il mondo, e il suo stesso popolo, vedessero
che egli era ridotto a dipendere dall’aiuto tedesco. Secondo il parere di
Westphal: “Mussolini voleva che l’Italia fosse difesa da italiani, e chiudeva
gli occhi di fronte al fatto che la situazione spaventosa in cui versavano le
sue forze armate rendeva del tutto irrealizzabile una simile idea”. Ma c’era
anche un’altra ragione: non gli sorrideva affatto l’idea che i tedeschi
acquistassero in Italia una posizione dominante. Ansioso com’era di tenere
lontani gli Alleati, egli era quasi altrettanto ansioso di tenere lontani i
tedeschi. Il nuovo comandante dello stato maggiore dell’esercito, generale
Roatta (già comandante in Sicilia), riuscì alla fine a convincere Mussolini che
ingenti rinforzi tedeschi erano indispensabili se si voleva avere qualche
probabilità di difendere con successo l’Italia e i suoi avamposti insulari, ed
egli dovette quindi rassegnarsi ad accettare l’arrivo di altre divisioni
tedesche (imponendo comunque la condizione che fossero subordinate alla
direzione tattica dei comandanti italiani).
La
guarnigione italiana in Sicilia consisteva soltanto in 4 divisioni da campagna
e in 6 divisioni territoriali adibite alla difesa costiera e ancora più deboli,
sia sul piano dell’equipaggiamento che su quello del morale, Queste grandi
unità potevano svolgere nella migliore delle ipotesi soltanto compiti di
sicurezza. I complementi tedeschi di transito in Italia, al momento del crollo
in Tunisia, furono riuniti in una divisione denominata “15ª divisione
granatieri corazzata”, era dislocata nella parte orientale dell’isola, però
aveva una sola unità di carri armati. La divisione corazzata “Hermann Göring”,
ricostituita in modo analogo, fu inviata in Sicilia verso la fine di giugno.
Per i motivi sopra esposti, Mussolini non permise che queste 2 divisioni
fossero riunite in un corpo d’armata affidato a un comandante tedesco, ma esse
furono poste direttamente agli ordini del comandante d’armata italiano,
generale Guzzoni e distribuite in 5 contingenti lungo i 250 Km. di diametro dell’isola,
come riserve mobili. A disposizione del decano degli ufficiali di collegamento
tedeschi, generale Frido von Senger und Etterlin, furono messi un piccolo stato
maggiore operativo e una compagnia trasmissioni, in modo che in caso di
emergenza egli potesse esercitare il comando. Mentre però Mussolini si andava
convincendo della necessità di accettare un aiuto tedesco di maggiori
proporzioni, Hitler stava diventando sempre più dubbioso sull’opportunità di
fornirlo, ed inoltre sempre più propenso a credere che non fosse la Sicilia il
punto su cui incombeva la minaccia maggiore e più immediata.
Da una
parte egli sospettava che gli italiani avrebbero deposto Mussolini e fatto la
pace (un sospetto di cui gli eventi avrebbero presto dimostrato la fondatezza),
e per questa ragione esitava ad inviare altre divisioni tedesche in fondo alla
penisola italiana, dove esse avrebbero potuto trovarsi tagliate fuori qualora
gli alleati italiani fossero crollati o avessero addirittura deciso di
schierarsi con gli Alleati. Dall’altra, come accennato, egli finì col pensare
che Mussolini, l’Alto Comando italiano e Kesserling, sbagliassero nel ritenere
che la prossima mossa alleata sarebbe stata costituita da un balzo dall’Africa
alla Sicilia. Su quest’ultimo punto i fatti gli diedero torto. Secondo Hitler
era più probabile che gli alleati preferissero la Sardegna alla Sicilia. La
prima isola avrebbe infatti rappresentato un facile gradino per accedere alla
Corsica e un trampolino di lancio piazzato in una posizione quasi ideale per
consentire un balzo sulla terraferma francese o su quella italiana. Nello
stesso tempo si prevedeva anche la possibilità di uno sbarco alleato in Grecia
e Hitler desiderava tenere a portata di mano riserve da poter eventualmente
spedire in tutta fretta in quella direzione. Hitler credette di vedere
confermate queste sue idee quando agenti nazisti operanti in Spagna inviarono
in Germania copie di documenti rinvenuti su un ufficiale inglese il cui corpo
era stato sospinto dal mare su una spiaggia della costa spagnola. Tra queste
carte figurava, accanto ad alcuni documenti di identità e a lettere di tipo
personale, una lettera privata (di cui il morto era stato latore) scritta dal
generale Nye, il vice capo dello stato maggiore generale imperiale, al generale
Alexander. Nella lettera si faceva riferimento a recenti telegrammi ufficiali
in merito alle prossime operazioni, e alcune frasi aggiunte in calce lasciavano
intendere che gli Alleati si stavano preparando a sbarcare in Sardegna e in
Grecia, e che con il loro piano di copertura, speravano di convincere il nemico
che il loro vero obiettivo era la Sicilia. Il cadavere e la lettera rientravano
in un ingegnoso piano ideato da una sezione del servizio segreto inglese per
mettere fuori strada i tedeschi. Lo stratagemma fu attuato così bene che i capi
del servizio segreto tedesco non dubitarono neppure della autenticità dei
documenti. Anche se non valse a modificare la convinzione dei capi italiani e
di Kesserling che la Sicilia sarebbe stato il prossimo obiettivo degli Alleati,
a quanto pare questo episodio esercitò una forte impressione su Hitler.
Eppure,
attraverso i bollettini informazioni emanati dal Comando 6a Armata, cioè dal
Comando Forze Armate della Sicilia, in data 2 e 4 luglio, si evinceva
esattamente la data di inizio dell’operazione.
Il comando
italiano previde pure che l’attacco sarebbe stato diretto contro la Sicilia.
Infatti, il Bollettino informazioni del 2 luglio riportava:
“le notizie concordano per un attacco contro
la Sicilia e la Sardegna, ma le maggiori probabilità sono per la Sicilia”.
Mentre in
quello del 4 luglio era scritto:
“I tedeschi propendono a credere che l’attacco
sia in preparazione contro tre obiettivi: Sardegna, Sicilia, Grecia
simultaneamente e che perciò non possa essere sferrato ora. Però è un fatto che
contro la Sicilia potrebbe esserlo anche oggi. “
Inoltre,
il bollettino del 5 luglio riportava testualmente: “l’8a armata è dislocata tra
Tripoli e la Tunisia meridionale; è quindi destinata ad agire contro la
Sicilia: sintomo molto grave e decisivo. Il pericolo di un attacco imminente si
accentua”.
Alle ore 9
del 9 luglio lo Stato Maggiore della 6a armata concluse un suo commento alla
situazione:
“È
evidente che si sta aumentando la potenzialità di Malta e che dobbiamo
attenderci che di là muova l’offensiva, la quale perciò sarà orientata sulla
zona orientale: Gela – Catania.”
Dunque, il
comando italiano aveva previsto esattamente data, zona dello sbarco e che lo
stesso sarebbe avvenuto su un’ampia fronte. Si disse che lo sbarco in Sicilia
poté avvenire per deficienze dell’organizzazione difensiva e per insufficiente
resistenza delle truppe. È indubbio che l’organizzazione difensiva e la
disponibilità di truppe per la difesa fossero decisamente inferiori alle
necessità. Come fu altrettanto certo che la battaglia difensiva fu condotta in
condizioni di assoluta inferiorità, non fosse altro per l’assoluto dominio del
cielo posseduto dalle forze aeree anglo-americane e l’impossibilità per quelle
italo - tedesche di intervenire per proteggere le truppe dai continui attacchi
avversari. Ma è altrettanto certo che queste deficienze non dipesero tanto
dagli uomini, quanto dalle circostanze e dal logorio subìto in oltre tre anni
di guerra, e che comunque, l’operazione anfibia anglo-americana avrebbe avuto
successo, come ebbero successo tutte le operazioni analoghe effettuate fra il
1942 ed il 1945.
Tre quarti
delle coste della Sicilia, e cioè oltre 800 Km. erano favorevoli a sbarchi;
tremiladuecento cannoni e una ventina di divisioni costiere avrebbero
consentito di organizzare una difesa appena efficiente: quattro cannoni e 150
fanti per ogni chilometro di spiaggia. Ma dove trovare 3.200 cannoni e 120 mila
uomini, naturalmente dotati delle armi indispensabili? Non avrebbero comunque
potuto respingere uno sbarco, ma soltanto ostacolarlo. Sarebbero poi state
necessarie truppe in riserva sufficienti per quantità e idonee per armamento e
mobilità per affrontare su una fronte ampia un paio di centinaia di chilometri
ben sette divisioni di fanteria e due corazzate, oltre a truppe non
indivisionate corrispondenti almeno ad un’altra divisione, e cioè tante quante
furono impiegate dagli anglo-americani. E poiché ciascuna divisione alleata era
(lo scrisse Churchill) corrispondente a due divisioni tedesche e italiane,
sarebbero state necessarie almeno 17-18 divisioni.
Invece le
divisioni costiere in Sicilia consentirono di avere, nel settore attaccato (che
era il più fortemente organizzato) e comprese le unità in riserva che entrarono
in azione il primo giorno, meno di 100 uomini per chilometro e 3 cannoni ogni 5
chilometri!
Le forze
anglo-americane costituenti il XV Gruppo d’armate (gen. Alexander) consistevano
in sette divisioni di fanteria, più una brigata “commandos” e “rangers”; due
divisioni corazzate, due aviotrasportate, alle quali si contrapponevano 14
battaglioni di fanteria costiera con 133 cannoni e 5 Gruppi mobili, ciascuno
corrispondente a un battaglione, con 28 cannoni in totale. Nel retroterra, le
forze di riserva erano costituite da due divisioni italiane (Napoli e Livorno)
e due tedesche (Göring e 15ª). Altre due divisioni italiane (Aosta e Assietta)
erano dislocate nell’occidente dell’isola.
Complessivamente
si trovarono di fronte, nei primi due giorni (10 e 11 luglio): 8a armata 66.000
u., tedeschi 8.800 u., 7ª armata 72.700 u. ,
italiani 69.000 u. per un totale 138.700 u.
Le forze aeree
alleate disponevano di 3.680 aerei bombardieri, siluranti, caccia e parecchie
centinaia di aerei da trasporto e servizi vari; in totale, secondo fonti
anglo-americane, circa 5.000 aeromobili. Le forze aeree italo - tedesche
esistenti in tutto il bacino del Mediterraneo disponevano di 389 aerei italiani
e di 500 tedeschi efficienti, tuttavia, a partire dal 2 luglio i campi di
aviazione in Sicilia furono stati sottoposti ad attacchi così massicci e
continui che quando venne il D-Day solo poche piste sussidiarie erano ancora
utilizzabili. Pertanto la caccia era nell’impossibilità di proteggere i
bombardieri e gli aerosiluranti, i quali dovettero agire contro le navi nemiche
senza scorta di caccia e perciò in condizioni pessime. Naturalmente, gli aerei
da caccia non furono nemmeno in gradi di proteggere le truppe italo - tedesche
sul terreno, che dovettero sostenere il peso della lotta sottoposte all’azione
efficacissima degli aerei nemici, senza mai vedere un proprio aereo.
La parte
navale dell’operazione fu preparata e condotta sotto la direzione
dell’ammiraglio sir Andrew Cunningham. Pur comportando una complicata serie di
movimenti destinata a concludersi con uno sbarco notturno, essa procedette
dall’inizio alla fine con una perfetta regolarità che fece onore tanto a chi
l’aveva preparata quanto a chi l’aveva eseguita.
Impiegare
la flotta italiana nelle acque della Sicilia era esporla all’annientamento. Gli
stessi che criticano i responsabili per non aver inviato le navi all’estremo
olocausto, molto probabilmente oggi li accuserebbero di avere con somma
incoscienza sacrificato migliaia di vite per compiere un gesto, indubbiamente
glorioso, ma fine a sé stesso.
Il mattino
del 9 luglio 411 bombardieri, 168 caccia e 78 caccia bombardieri attaccarono
ancora gli aeroporti, lo Stretto e Messina. Al tramonto 107 bombardieri
attaccarono Siracusa, Caltanissetta, e Catania. Nel pomeriggio del 9 luglio si
levò improvvisamente un forte vento e in breve il mare si ingrossò in modo tale
da mettere in difficoltà le imbarcazioni più piccole e minacciare di
disorganizzare gli sbarchi. Per fortuna il vento calò di intensità prima di
mezzanotte e sebbene al momento degli sbarchi il mare fosse percorso da
fastidiose onde lunghe, solo poche delle imbarcazioni d’assalto raggiunsero in
ritardo le spiagge. Tutto sommato, i guai che l’improvviso fortunale provocò
agli attaccanti furono più che compensati dalla misura in cui esso
indirettamente indebolì i difensori. Infatti, sebbene nel pomeriggio al largo
di Malta fosse segnalata la presenza di cinque convogli in navigazione verso
nord, ed entro sera una serie di altri preoccupanti rapporti raggiungesse
l’Alto Comando, i messaggi di preavviso che questo diramò non raggiunsero o
comunque non impressionarono i comandi inferiori. Mentre tutte le truppe
tedesche di riserva furono messe in stato di allarme appena un’ora dopo la
prima segnalazione, in generale gli italiani schierati lungo le coste pensarono
che il forte vento e il mare grosso avrebbero garantito loro almeno un’altra
notte di tranquillità. Nel suo rapporto l’ammiraglio Cunningham rilevò
giustamente che a causa delle sfavorevoli condizioni atmosferiche “gli
italiani, stanchi per le tante notti trascorse all’erta, ringraziando il cielo
se ne andarono a letto dicendo: questa notte comunque non possono venire. E
invece essi arrivarono”. La loro riluttanza a resistere fu accentuata quando,
alle prime luci del 10 luglio, poterono vedere l’impressionante schieramento di
navi che riempiva il mare fino all’orizzonte e il continuo flusso di mezzi da
sbarco.
La forza
d’attacco orientale (ammiraglio B. H. Ramsay) con 895 navi e 715 mezzi da
sbarco, trasportava l’8a Aarmata
britannica verso quattro gruppi di spiagge fra Cassibile e la penisola
di Capo Passero. La Forza d’attacco Occidentale (ammiraglio H. K. Hewitt) con
580 navi e 1.124 mezzi da sbarco trasportava la 7ª armata americana verso tre
gruppi di spiagge, fra Punta Braccetto e Torre di Gaffe (a ovest di Licata). Un
battaglione di fanteria di marina britannico sbarcò nella penisola della
Maddalena e si impadronì delle batterie che lì erano in posizione. Prima delle
ore 2 dalle navi ancorate al largo incominciò il varo dei mezzi da sbarco e il
trasbordo delle truppe; la prima ondata di mezzi da sbarco giunse su alcune
spiagge verso le ore 3, su altre un’ora più tardi. Le artiglierie costiere non
aprirono il fuoco contro le navi; infatti queste erano troppo al largo per
essere colpite da pezzi che avevano una gittata massima di 8 Km.. Spararono
però contro i mezzi da sbarco, purtroppo, non appena si rivelavano erano
controbattute e distrutte dalle artiglierie delle navi. Più ad oriente lo
sbarco fu meno contrastato, tuttavia sulla spiaggia di Falconara sparavano
mitragliatrici e cannoni. Sul terreno, alle cinque del mattino arrivarono i
primi rapporti che segnalavano lanci di paracadutisti nella regione di Comiso,
a San Pietro, fra Caltagirone e la costa. Alianti nemici erano atterrati presso
Augusta. La divisione “Hermann Göring” segnalò che venti navi da trasporto
stavano scaricando truppe nemiche presso Gela. La predetta divisione era
entrata in azione secondo i piani, ma non era riuscita a ributtare in mare
l’avversario. Ciò era dovuto in parte ai paracadutisti nemici atterrati nel
settore d’attacco della divisione che in nessun punto entrarono in azione in
formazioni compatte, ma tuttavia esercitarono una notevole azione di disturbo,
dovuto in parte al terreno a terrazze, coltivato a ulivi, che ostacolava i
movimenti dei mezzi corazzati al punto di impedirne l’impiego in formazioni compatte.
Comunque, le difese furono travolte con estrema facilità e le sofferenze che
molti uomini delle formazioni d’assalto avevano patito per il mal di mare,
furono ampiamente compensate dalla esiguità delle perdite provocate dal fuoco
nemico quando finalmente arrivarono a terra.
L’andamento
della prima fase dell’invasione fu riassunto dal generale Alexander in due
frasi: “Le divisioni costiere italiane, le cui capacità di combattimento non
era stata mai giudicata molto alta, si disintegrarono senza quasi sparare un
solo colpo. E anche le divisioni di manovra, incontrate successivamente, si
dispersero come foglie al vento”. Pertanto, fin dal primo giorno, il peso della
difesa ricadde quasi interamente sulle spalle delle 2 improvvisate divisioni
tedesche, alle quali se ne aggiunsero poi altre 2. Verso mezzogiorno, quando
cominciò a delinearsi lo sviluppo della situazione, il comandante in capo della
6a armata italiana, d’intesa con il generale von Senger, decise di richiamare
la 15a divisione granatieri da ovest. Il giorno dopo due gruppi da
combattimento della 15a divisione Panzer Grenadier provenienti dalla Sicilia
occidentale arrivarono dopo una marcia a tappe forzate davanti al fronte
americano, ma nel frattempo la divisione “Hermann Göring” era stata spostata
più a est nel tentativo di arginare l’avanzata delle forze inglesi, che in quel
momento sembrava la più pericolosa: risalendo metà della costa orientale
dell’isola, infatti, essa era già arrivata nei pressi della città portuale di
Catania, mentre le tre teste di sbarco americane erano ancora poco profonde e
separate l’una dall’altra. Come quelli americani, anche gli sbarchi inglesi non
avevano incontrato alcuna seria opposizione, ma nel loro caso in assenza di
tempestivi contrattacchi, l’operazione poté svilupparsi con maggiore facilità.
Dopo il primo giorno gli attacchi aerei furono più frequenti, ma poiché anche
la copertura aerea era più consistente ed efficace, le perdite di unità navali
furono quasi altrettanto irrisorie quanto quelle registrate nei settori
americani. In realtà, per quanti avevano vissuto i precedenti anni della guerra
del Mediterraneo sembrò, come ebbe a dire l’ammiraglio Cunningham “quasi un
sogno che flotte di quelle dimensioni potessero restarsene ancorate lungo la
costa del nemico, subendo così pochi attacchi aerei e perdite così
irrilevanti”. Questa sostanziale immunità dalla minaccia aerea fu uno dei
fattori chiave del successo nell’invasione anfibia, che però nella fase
successiva fu messa in seria difficoltà da un diverso tipo di azione aerea.
Poiché nei
primi tre giorni le forze inglesi avevano sgomberato l’intera parte
sud-orientale dell’isola, Montgomery decise di compiere uno sforzo massiccio
per irrompere nella Piana di Catania dalla zona di Lentini, e ordinò un attacco
su grande scala per la notte del 13 luglio. Il problema chiave era la conquista
del ponte di Primosole sul fiume Simeto, alcuni chilometri a sud di Catania, e
per risolverlo si pensò di impiegare una brigata di paracadutisti. Sebbene solo
metà di essa fosse stata lanciata nel posto giusto, il ponte cadde in mano
inglese intatto. La fase successiva può essere riassunta citando il resoconto
che ne diede il generale Student, comandante dell’XI corpo aereo, comprendente
le truppe aviotrasportate tedesche. Le sue 2 divisioni erano state dislocate da
Hitler nel sud della Francia, in modo che fossero pronte a raggiungere in volo
la Sardegna qualora, come Hitler prevedeva, gli Alleati fossero sbarcati là.
Ma, come dimostra il racconto di Student, le truppe aviotrasportate
costituiscono una riserva strategica molto flessibile, che si presta a essere
agevolmente spostata da un punto all’altro per fare fronte a situazioni
impreviste:
“Il 10
luglio, quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, io proposi subito di sferrare
un immediato contrattacco con ambedue le mie divisioni. Ma Hitler respinse
questa proposta, osteggiata in particolare da Jodl. Pertanto in un primo tempo
ci si limitò a trasportare in volo la 1a divisione paracadutisti dal sud della
Francia in Italia, in parte a Roma e in parte a Napoli, mentre la 2a divisione
paracadutisti rimase a Nimes con me. Gli uomini della 1ª divisione
paracadutisti, tuttavia, furono ben presto inviati in Sicilia, per essere
impiegati come truppe di terra destinate a dare manforte alle scarse forze
tedesche che vi si trovavano quando gli italiani cominciarono a cedere en
masse.
Parte
della divisione fu trasportata a destinazione con una specie di ponte aereo e
lanciata dietro il nostro fronte nel settore orientale a sud di Catania. Io
avrei voluto che essa fosse lanciata dietro il fronte alleato. Il primo
contingente fu lanciato circa 3 chilometri dietro il nostro fronte, e per una
strana coincidenza toccò terra quasi simultaneamente ai paracadutisti inglesi
lanciati dietro il nostro fronte per impadronirsi del ponte sul fiume Simeto. I
nostri paracadutisti sopraffecero quelli inglesi e riconquistarono il ponte.
Ciò accadde il 14 luglio.”
Dopo tre
giorni di duri combattimenti, il grosso delle forze inglesi, sopraggiunte nel frattempo,
riuscì poi a riconquistare il ponte e a riaprire così la via d’accesso alla
piana di Catania, ma il tentativo di proseguire la marcia verso nord fu
bloccato dalla crescente resistenza opposta dalle riserve tedesche che stavano
ormai affluendo nella zona per sbarrare la rotabile costiera verso Messina
(distante ancora 100 Km.), dove l’angolo nord-orientale della Sicilia è
separato solo da uno stretto braccio di mare dalla punta estrema della penisola
italiana. L’insuccesso di questo tentativo fece cadere la speranza di una
rapida conquista della Sicilia. Montgomery fu costretto a spostare a ovest il
grosso dell’8a armata per fargli compiere una più tortuosa avanzata attraverso
le colline dell’entroterra e aggirare l’Etna, congiuntamente all’avanzata verso
est della 7a armata, la quale raggiunse la costa settentrionale e occupò
Palermo il 22 luglio: troppo tardi comunque per intercettare la ritirata verso
est delle truppe motorizzate del nemico. Il nuovo piano comportò un importante
mutamento di ruolo per l’armata del generale Patton. La sua funzione di scudo
protettivo del fianco di quella che avrebbe dovuto essere la decisiva
penetrazione dell’8ª armata verso Messina, e di elemento di disturbo avente lo
scopo di impedire al nemico di concentrare tutte le sue riserve, fu estesa in
quella di leva offensiva; e addirittura, alla fine, in quella di punta di
diamante dell’intera operazione.
Per il
nuovo sforzo offensivo che avrebbe dovuto iniziare il 1º agosto, dall’Africa
furono trasportate in Sicilia 2 nuove divisioni di fanteria (la 9a americana e
la 78a inglese), portando così il totale a 12. Intanto i tedeschi avevano
ricevuto di rinforzo la 21a divisione Panzer Grenadier e il comando del XIV
corpo corazzato del generale Hube, che aveva assunto il comando delle
operazioni. Suo compito era non già di difendere ad oltranza la Sicilia, bensì
soltanto di condurre un’azione di disturbo abbastanza efficace da consentire
l’evacuazione delle forze dell’Asse. A questa decisione Guzzoni e Kesserling
erano arrivati, ciascuno per proprio conto, dopo la caduta di Mussolini il 25
luglio e prima che gli Alleati riprendessero l’offensiva.
Un’azione
ritardante di questo genere non poteva che essere molto agevolata dalla natura
impervia e dalla stessa forma della Sicilia nord-orientale: un triangolo di
terreno montagnoso. Mentre la sua natura favoriva la difesa e ogni passo
indietro comportava un accorciamento del fronte, così da rendere necessario un
minor numero di difensori, per gli Alleati diventava sempre più difficile
dispiegare le loro armate in modo da sfruttarne appieno la grande superiorità.
Tre volte Patton tentò di accelerare l’avanzata mediante piccoli balzi anfibi –
uno sbarco a Sant’Agata la notte fra il 7 e l’8 agosto, un secondo a Brolo il
10-11 e un terzo a Spadafora il 15 – 16 – ma in tutti e tre i casi l’azione si
dimostrò troppo tardiva per essere efficace. Anche Montgomery tentò una piccola
azione analoga il 15 – 16, ma ormai la retroguardia del nemico si era già
spostata più a nord, e il grosso delle sue truppe aveva già attraversato lo
Stretto di Messina portandosi sulla terraferma.
L’evacuazione
della Sicilia fu portata a termine quasi interamente nel corso di soli sei
giorni (e sette notti), grazie a un’abile organizzazione e alla mancanza di
qualsiasi serio tentativo di interferenza da parte delle forze aeronavali
alleate. Quasi 40 mila soldati tedeschi e più di 60 mila soldati italiani
furono portati in salvo.
Anche se
gli italiani si lasciarono alle spalle tutto l’equipaggiamento, eccettuati non più
di 200 automezzi, 47 carri armati, 94 cannoni e 17 mila tonnellate di
rifornimenti e di equipaggiamento.
Hube prese
posto sull’ultima imbarcazione che salpò dall’isola poco prima dell’alba del 17
agosto. Verso le ore 6.30 la prima pattuglia americana entrò a Messina e poco
dopo vi fecero la loro comparsa anche gli inglesi – salutati con gioiose grida:
“dove andate, voi turisti?”.
Alla luce
del pieno successo che aveva coronato la ritirata tedesca dalla Sicilia, ben
povere di contenuto suonarono le parole con cui quel giorno Alexander informò
il primo ministro inglese della conclusione della campagna: “Entro le 10 di
oggi, 17 agosto 1943, l’ultimo soldato tedesco è stato cacciato fuori dalla
Sicilia… Si può ritenere che tutte le forze italiane presenti nell’isola il 10
luglio siano state annientate, anche se è possibile che qualche unità abbia
raggiunto, malconcia, la terraferma”.
Per quanto
si può dedurre dai documenti disponibili, i soldati tedeschi in Sicilia erano
circa 60 mila e quelli italiani 195 mila. Dei soldati tedeschi, tolti quelli
fatti prigionieri ed i feriti, quelli uccisi non superarono le poche migliaia.
Complessivamente le perdite alleate ammontarono a circa 23 mila. Non si trattò
di un prezzo molto elevato in rapporto ai grandi risultati politici e
strategici della campagna – un evento che provocò la caduta di Mussolini e la
capitolazione dell’Italia. Certamente gli Alleati avrebbero potuto realizzare
un più sostanzioso “carniere” di tedeschi, e quindi spianarsi il lungo cammino
che ancora li attendeva, applicando con maggiore energia e tempestività la
tattica delle mosse aggiranti anfibie. Questa era l’opinione dell’ammiraglio
Cunningham, e nel suo rapporto egli affermò esplicitamente che dopo i giorni di
apertura: “L’8ª armata non fece nulla per sfruttare le occasioni che le si
presentarono di effettuare attacchi anfibi. I primi mezzi da sbarco di fanteria
furono tenuti a disposizione appunto per questo scopo, e per avere i necessari
mezzi da sbarco sarebbe bastato richiederli. Certo ci dovettero essere valide
spiegazioni militari per il mancato impiego di quello che era uno strumento di
valore incalcolabile sul piano sia della potenza navale che dell’elasticità di
manovra: in futuro, comunque, sarà bene tenere presente questo aspetto della
questione e chiedersi se per caso non sarebbe possibile risparmiare tempo ed
evitare combattimenti sanguinosi con mosse aggiranti che, anche se condotte su
scala limitata, hanno sicuramente l’effetto di molestare il nemico”.
Con grande
sollievo di Kesserling, l’Alto Comando alleato non aveva tentato uno sbarco in
Calabria, alle spalle delle sue forze in attesa in Sicilia, per bloccarne la
ritirata attraverso lo stretto di Messina. Fin dall’inizio della campagna di
Sicilia egli aveva temuto che da un momento all’altro giungesse a segno un
colpo di questo genere, un colpo che egli non avrebbe avuto alcuna possibilità
di parare. A suo avviso: “un attacco secondario in Calabria avrebbe permesso di
trasformare lo sbarco in Sicilia in una schiacciante vittoria alleata”. Fino
alla conclusione della campagna di Sicilia e al felice esito della ritirata
delle 4 divisioni tedesche impegnate sull’isola, Kesserling non ebbe a
disposizione che 2 divisioni tedesche per guarnire l’intera Italia meridionale.
La situazione
venutasi a creare in Sicilia, per i tedeschi, dopo lo sbarco degli alleati, è
la rappresentazione delle correnti di pensiero esistenti allora presso lo stato
maggiore nazista. La prima considerava in partenza priva di speranze
un’opposizione a uno sbarco in larga scala. La seconda riteneva che fosse
possibile infliggere all’avversario, mediante provvedimenti tattici, un colpo
mortale nell’attimo in cui la crisi di quest’ultimo avesse raggiunto l’apice.
Nelle direttive diramate il 22 giugno, Hitler non fece capire per quale delle
due tesi propendesse.
Il fatto
però che sia il feldmaresciallo Keitel sia soprattutto il generale Warlimont si
siano limitati a dare solo direttive riguardanti lo sgombero, fa arguire che
nemmeno Hitler credesse in una difesa duratura della Sicilia. D’altra parte
tutto fa ritenere che il feldmaresciallo Kesserling sperasse di conquistare in
Sicilia, nella sua qualità di comandante in capo, il primo vistoso successo
nella difensiva, e che perciò parteggiasse per la seconda tesi, per cui
l’avversario doveva essere “ributtato in mare” dopo lo sbarco. Questa tesi era
molto diffusa nelle forze armate tedesche, specialmente nei comandi inferiori.
Essa era il riflesso diretto di una debolezza profondamente radicata nella
tradizione del pensiero militare tedesco, basato quasi esclusivamente sulla
guerra terrestre. Gran parte della cerchia dirigente politica e militare
tedesca era in grado di ragionare solo in termini di operazioni terrestri, non
già nelle tre dimensioni della guerra moderna. Questo atteggiamento portava a
una sopravvalutazione della difesa costiera, ma anche alla sopravvalutazione
delle difficoltà che l’avversario, pur superiore nell’aria e sul mare, avrebbe
incontrato. Un attacco scatenato da un apparato bellico moderno composto da
tutti e tre gli elementi principali (esercito, aviazione, marina) contro un
avversario equipaggiato solo per la guerra sulla terraferma ma inferiore sul
mare e nell’aria, presenta in realtà minori difficoltà e maggiori probabilità
di successo che non un puro attacco terrestre contro una linea di resistenza.
Chi attacca dal mare ha il vantaggio della sorpresa. Tuttavia lo sbarco in
Sicilia, come generali italiani prigionieri rivelarono a Eisenhower, non fu una
sorpresa totale. Ciò che sarà sempre una sorpresa, invece, è il punto preciso
dello sbarco, l’ampiezza della testa di ponte e il procedimento tattico
impiegato. In Sicilia i tedeschi restarono per molto tempo nell’incertezza se
lo sbarco del 10 luglio non sarebbe stato seguito da altri in altri punti.
Sotto questo punto di vista lo sbarco tra Siracusa e Licata fu una sorpresa,
così come fu una sorpresa l’assenza di ulteriori sbarchi nella parte
occidentale dell’isola o sulla costa settentrionale. Per quanto riguarda
l’attacco dal mare, un fattore ancora più importante della sorpresa è la
possibilità di neutralizzare l’avversario a terra con il fuoco delle
artiglierie navali. Queste dispongono sempre di calibri superiori a quelli
delle artiglierie dell’esercito, appostate temporaneamente, a scopi difensivi,
sulla striscia costiera. Le artiglierie navali sono soprattutto più mobili
dell’artiglieria del difensore. Il difensore non può combattere efficacemente
le artiglierie navali. In Sicilia la difesa non oppose praticamente alcun
ostacolo alle artiglierie dell’attaccante.
Le forze
aeree alleate poterono distruggere le forze aeree tedesche a terra, ma il
tentativo di accelerare l’esito della battaglia con l’impiego di truppe
aviotrasportate fallì. La distruzione delle forze aeree tedesche a terra fu
opera di esperti bombardieri. L’impiego di truppe aviotrasportate fu una
novità. Le truppe aviotrasportate, che nell’insieme assommavano a una
divisione, impiegate contro i campi d’aviazione nella parte sudorientale
dell’isola, non poterono portare a termine il loro compito. L’artiglieria
contraerea tedesca, ancora molto forte, inflisse a esse sensibili perdite.
Tuttavia riuscirono a rallentare l’avanzata della divisione Hermann Göring.
Comunque, per capire la portata della superiorità degli alleati che attaccava
dal mare bisognava averla vista con i propri occhi. Ed è ciò che capitò al
generale Eisenhower e che godendosi lo spettacolo affermò:
“Devo dire
che la vista di centinaia di navi, con mezzi da sbarco ovunque, che operavano
lungo la costa da Licata verso est, era uno spettacolo indimenticabile”.
Al termine
di questa esposizione, si preme sottolineare che una parte degli episodi
descritti provengono dalle affermazioni contenute nel libro “History of United
States Naval Operations in World War II” (¹)
che è una pubblicazione ufficiale, affinché sia una volta per sempre sfatata la
stolta leggenda che gli italiani non combatterono in Sicilia. Essi fecero ciò
che le forze disponibili, le circostanze, le deficienze di armamento, la
potenza nemica consentirono di fare.
Morison, S.E., History of United States
Naval Operations in World War II, Vol. IX