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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

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venerdì 20 dicembre 2024

La Battaglia di Ancona del 17 -19 luglio 1944 ed il Corpo Polacco


Descrizione dell'impiego del II Corpo Polacca nel versante adriatico
 per la conquista del porto di Ancona




 

sabato 30 novembre 2024

Testo della sentenza della Corte di Cassazione. Cimitero Militare di Redipuglia Vilipendio

 

Corte di Cassazione

Penale Sentenza Sezione. 3 Numero. 24271 Anno 2024

Presidente: RAMACCI LUCA Relatore: CORBETTA STEFANO

Data Udienza: 09/05/2024


SENTENZA

sui ricorsi proposti da Owusu Frimpong Emmanuel, nato a Udine il 06/11/1993 Piras Matteo Antonio, nato a Latisana il 21/07/1994 avverso la sentenza del 11/07/2023 della Corte di appello di Trieste visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Corbetta; letta la requisitoria redatta ai sensi dell'art. 23 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro Molino, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi; lette memoria e le conclusioni del difensore degli imputati, avv. Daniele Vidal del foro di Udine, che insiste per l'accoglimento dei ricorsi; lette la memoria e le conclusioni del difensore della parte civile Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valor Militare, avv. Laura Ferretti del foro di Pordenone, che chiede la conferma della sentenza impugnata, con condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali, come da nota spese allegata.”


RITENUTO IN FATTO

1. Con l'impugnata sentenza, la Corte di appello di Trieste ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Gorizia all'esito di giudizio abbreviato e appellata dagli imputati, la quale aveva condannato Emmanuel Owusu Frimpong e Mattia Antonio Piras alla pena ritenuta di giustizia, condizionalmente sospesa subordinatamente alla corresponsione del risarcimento del danno liquidato in favore della costituita parte civile, in relazione al delitto di cui agli artt. 110, 408 cod. pen., perché, in concorso tra loro, in assenza di qualsivoglia autorizzazione, realizzando ed interpretando un video musicale che li ritraeva mentre erano intenti a ballare e a cantare una canzone dal titolo "CSI - Chi sbaglia paga" all'interno dell'area del Sacrario militare di Redipuglia, ed, in particolare, sopra i gradoni ove sono sepolti i resti dei soldati caduti nella prima guerra mondale, e, in seguito, pubblicandolo on line su un canale YouTube, vilipendevano le tombe e il luogo che è destinato a mantenere viva ed onorata la memoria dei militari caduti. 2. Avverso l'indicata sentenza, gli imputati, per il ministero del comune difensore di fiducia, con il medesimo atto hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo: - con un primo motivo, la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all'art. 408 cod. pen. per errata valutazione dell'elemento soggettivo, in quanto la Corte di merito non ha affatto motivato in ordine alla sussistenza del dolo, essendosi unicamente focalizzata sulla conclamata sacralità del luogo in cui si è tenuta la condotta, e considerando la finalità di espressione artistica - e non già offensiva - che ha animato gli imputati; - con un secondo motivo, la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all'art. 408 cod. pen. per errata valutazione dell'elemento oggettivo, mancando una condotta di vilipendio, posto che i gli imputati si sono limitati a cantare una canzone, il cui contenuto, peraltro, non ha nulla di offensivo o di dispregiativo; - con un terzo motivo, la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. in relazione all'art. 408 cod. pen., avendo la Corte d'appello fondato l'affermazione della penale responsabilità su elementi inconferenti, quali il pericolo di emulazione e la mancanza di autorizzazione alle riprese; - con un quarto motivo, l'illogicità della motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, trattandosi di soggetti incensurati e non avendo la Corte di merito valutato la condotta dell'imputato Owusu, il quale, in seguito, sui canali sodali, ha manifestato le proprie scuse;


- con un quinto motivo, la mancata esclusione della parte civile Associazione del Nastro Azzurro, la quale non ha alcuna specifica finalità connessa con il sacrario di Redipuglia, né con la memoria dei caduti, e l'abnormità della quantificazione del risarcimento del danno, che non è sorretta da alcuna motivazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono, nel complesso, infondati. 2. Cominciando dal secondo e dal terzo motivo - che rivestono priorità logica essendo diretti a contestare la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato - gli stessi sono infondati. 3. Il bene tutelato dalle fattispecie delittuose racchiuse nel Capo II del Titolo IV del Libro II del codice penale - ove è collocato l'art. 408 cod. pen. - va individuato, come chiaramente emerge dalla stessa intitolazione della rubrica, nella "pietà dei defunti", da intendersi nel senso di pietas: locuzione che designa quel diffuso e sentimento, individuale e collettivo, il quale si manifesta nel rispetto tributato ai defunti ed alle cose destinate al loro culto nei cimiteri e nei luoghi di sepoltura. La pietas per i defunti, in particolare, è un sentimento che attiene all'essere umano in quanto tale anche quando ha cessato di vivere, come proiezione ultraesistenziale della persona, e ciò indipendentemente dall'adesione a un particolare credo religioso, come, del resto, lascia chiaramente intendere la suddivisione dei Capi contenuti in questo Titolo, che distingue, appunto, i "Delitti contro le confessioni religiose" - rubrica introdotta dall'art. 10, comma 2, I. 24 febbraio 2006, n. 85, che ha sostituto la precedente "Delitti contro la religione dello Stato e dei culti ammessi" - dai "Delitti contro la pietà dei defunti". Se l'intero Capo ruota attorno al medesimo bene giuridico, emerge una partizione interna tra le prime incriminazioni (artt. 407 - 409 cod. pen.), il cui oggetto materiale è legato al culto dei defunti ed al sentimento di pietà che esso suscita, e le fattispecie successive (artt. 410-413 cod. pen.), poste a salvaguardia delle spoglie mortali e, quindi, del medesimo sentimento che le stesse evocano. In particolare, la condotta di vilipendio punita dall'art. 408 cod. pen. - che deve avvenire «in cimiteri o altri luoghi di sepoltura» - ha ad oggetto «tombe, sepolcri o urne», oppure «cose destinate al culto dei defunti», quali croci, cappelle, immagini, lampade, fiori e tutti gli oggetti finalizzati alla memoria del defunto, ovvero cose destinate «a difesa o ad ornamento dei cimiteri», come muri, porte, monumenti, piante dei viali.


Di conseguenza, oggetto specifico della tutela apprestata dall'art. 408 cod. pen. è quel profilo della pietà dei defunti, che si declina attraverso il rispetto della sacralità del luogo di sepoltura e delle cose mortuarie destinate al ricordo dei defunti. 4. L'elemento oggettivo del reato consiste in un'azione di "vilipendio", termine che compare in diverse disposizioni codicistiche di parte speciale - specie tra i delitti contro la personalità interna dello Stato (artt. 290, 291, 292), oltre che, appunto, tra i delitti raggruppati nel Titolo IV (oltre all'art. 402, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 508 del 2000, gli artt. 403, 404 e 410)- , di cui però la legge non offre, in nessuna disposizione, la nozione. Come suggerito dalla Corte costituzionale con riferimento alla fattispecie prevista dall'art. 290 cod. pen., il termine "vilipendio" va inteso "secondo la comune accezione del termine", e "consiste nel tenere a vile", il che significa, con riferimento al delitto di vilipendio della Repubblica, "ricusare qualsiasi valore etico o sociale o politico all'entità contro cui la manifestazione è diretta sì da negarle ogni prestigio, rispetto, fiducia, in modo idoneo a indurre i destinatari della manifestazione (sent. n. 20 del 1974). Se, dunque, il vilipendio deve essere inteso nel suo significato letterale, le fattispecie che lo prevedono come elemento costitutivo del fatto sono delineate come reati a forma libera, stante la molteplicità di condotte attraverso cui può manifestarsi il sentimento di disprezzo, scherno o dileggio, cambiando unicamente, a seconda delle diverse disposizioni incriminatrici, l'oggetto su cui deve incidere la condotta di vilipendio.


5. Con specifico riguardo al delitto qui al vaglio, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare, rientra certamente nell'ambito di operatività della fattispecie di cui all'art. 408 cod. pen. il compimento di atti di disprezzo su cose deposte nei luoghi destinati a dimora dei defunti ed aventi la funzione di evocare il sentimento di pietà nei loro confronti che rechino danno alle stesse, le lordino o vi imprimano segni grafici vilipendiosi ovvero ne comportino la rimozione, anche parziale, con eventuale sostituzione con altre diverse per significato, origine e rilevanza sociale (Sez. 3, n. 43093 del 30/09/2021, Albertario, Rv. 282298-01; Sez. 3 n. 4038, del 29/03/1985, Moraschi, Rv. 168901). Inoltre, come si desume dalla locuzione impiegata nell'art. 408 cod. pen. - la quale incrimina il vilipendio "di", e non "su", tombe, sepolcri o urne, cose destinate al culto dei defunti, ovvero a difesa o ad ornamento dei cimiteri - assumono penale rilevanza anche semplici espressioni verbali o comportamenti che non ricadano sulla cosa in modo tale da produrne una modificazione esteriore visibile, purché,ovviamente, meritino l'appellativo di "vilipendio", ossia esprimano disprezzo o profanazione verso le cose poste nei luoghi di sepoltura indicate dalla norma.


6. Va doverosamente precisato che spetta al giudice il compito di uniformare la previsione astratta di reato al principio di offensività: esigenza tanto più avvertita quanto più la condotta punibile sia individuata dal legislatore mediante l'impiego di termini aventi un'ampia latitudine semantica, quale certamente è il "vilipendio". Come costantemente predicato dalla Corte costituzionale, il principio di offensività - la cui matrice costituzionale è ricavabile dall'art. 25, secondo comma, Cost. (sentenza n. 211 del 2022), in una lettura sistematica cui fa da sfondo l'«insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenze n. 225 del 2008 e n. 263 del 2000) - opera su due piani distinti: da un lato (offensività "in astratto"), come precetto rivolto al legislatore, il quale non può sottoporre a pena fatti che, nella loro configurazione astratta, non esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione; dall'altro (offensività "in concreto"), come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, deve escludere dall'area del penalmente rilevante quei fatti che, sebbene formalmente conformi al tipo legale, in concreto si rilevino inidonei a ledere o a mettere in pericolo il bene tutelato (cfr., ex multis, sentenze n. 139 del 2023, n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 265 del 2005, n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Di conseguenza, come affermato la Corte costituzionale, «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività "in concreto"). Esso - rimanendo impegnato ad una lettura "teleologicamente orientata" degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense - dovrà segnatamente evitare che l'area di operatività dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialità lesiva» (sentenza n. 225 del 2008). Nella ricognizione, nel singolo caso, del "vilipendio" penalmente rilevante ai sensi dell'art. 408 cod. pen., il giudice deve perciò valutare la condotta con riferimento al bene giuridico tutelato dalla norma, come sopra definito, e accertare che i gesti o le espressioni, anche se non diretti immediatamente contro le res contemplate dalla norma, producano, in concreto, la lesione del rispetto del luogo di sepoltura e delle cose mortuarie, e, quindi, del senso di pietà ispirato dal ricordo del defunto che necessariamente ad esso consegue.


7. Venendo al caso in esame, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, avendo ravvisato il "vilipendio" di tombe nel fatto — insindacabilmente accertato nel giudizio di merito - che due imputati aveva posto in essere un ballo a ritmo di rap sopra le tombe di centomila caduti di guerra, che trovano la loro collocazione funeraria nel sacrario di Redipuglia. Si tratta, all'evidenza, di una condotta che, anche in relazione alla specificità del luogo, avente natura di monumento nazionale della Grande Guerra, appare chiaramente e inequivocabilmente espressiva di un sentimento di disprezzo di quel luogo di sepoltura, concretamente lesivo del senso di pietà ispirato dal ricordo delle migliaia di soldati caduti in guerra, le cui spoglie ivi riposano.


8. In conclusione, deve perciò ritenersi che integra il delitto di cui all'art. 408 cod. pen. lacondotta di chi, all'interno di un sacrario militare monumentale, pone in essere un ballo a ritmo di rap sopra le tombe dei caduti cantando una canzone al fine di realizzare ed interpretare un video musicale poi diffuso attraverso Internet.


9. Il primo motivo è parimenti infondato.


9.1. Si rammenta che, come condivisibilmente affermato da questa Sezione, il reato di vilipendio delle tombe di cui all'art. 408 cod. pen. è punito a titolo di dolo generico, sicché basta la coscienza e volontà del vilipendio stesso insieme con la consapevolezza del particolare carattere del luogo richiesto dalla norma, quale cimitero o altro luogo di sepoltura, essendo pertanto irrilevante il movente dell'azione, né essendo necessaria l'intenzione di offendere la memoria di un determinato defunto (Sez. 3, n. 43093 del 30/09/2021, Albertario, Rv. 282298-02), e la circostanza che la condotta sia avvenuta non per arrecare offesa al defunto, ma alla persona che aveva fatto sistemare la tomba per onorarlo e ricordarlo (Sez. 3 n. 4038, del 29/03/1985, Moraschi, cit.). Invero, nella descrizione del fatto oggetto di incriminazione non compaiono segni linguistici che denotano il dolo specifico ("al fine di", "allo scopo di"), di talché la finalità perseguita dall'agente risulta del tutto ininfluente ai fini della sussistenza del reato, così come irrilevante è il movente dell'azione, che rimane confinato nella sfera interiore dell'agente e che può rilevare ex art. 133, comma 2, n. 1 cod. pen. Oltre a ciò, l'agente deve rappresentarsi che l'azione di vilipendio sulle res indicate dalla norma avviene «in cimiteri o altri luoghi di sepoltura», come espressamente prevede il testo dell'art. 408 cod. pen.

9.2. Facendo corretta applicazione del principio ora richiamato, la Corte di merito, con una motivazione che certamente non può dirsi manifestamente illogica, ha ravvisato il dolo, evidenziando che il contesto di particolare solennità del monumento, ricco di riferimenti storici ai fatti per i quali è stato istituito, non consente di ipotizzare che i due imputati potessero ignorare che ivi riposano migliaia di salme, alla cui memoria, appunto, è stato edificato il sacrario, e, dunque, che non avessero consapevolezza di trovarsi in un luogo di sepoltura, e del fatto che l'azione dagli stessi compiuta - ossia il ballare a ritmo di rap - era posta in essere sulle tombe dei soldati, a nulla rilevando l'asserita finalità di espressione artistica che avrebbe animato gli imputati. 10. Il quarto motivo è inammissibile. La Corte di merito ha motivatamente escluso i presupposti integranti i presupposti delle circostanze attenuanti ex art. 62-bis cod. pen., non ravvisando, nel caso concreto, alcun elemento tale da giustificare una mitigazione della pena, in ciò facendo corretta applicazione del principio, qui da confermare, secondo cui l'applicazione delle circostanze in esame non costituisce un diritto conseguente all'assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle stesse (Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, De Crescenzo, Rv. 281590). Sul punto, il motivo è, oltretutto, generico, in quanto, per un verso, l'incensuratezza, per espresso dettato normativo, non può da sola giustificare l'applicazione delle attenuanti in esame, e, per altro verso, la circostanza che l'imputato avrebbe manifestato delle scuse tramite i canali social è smentito da quanto emerge dalla sentenza (cfr. p. 7), secondo cui, invece, gli imputati non hanno mostrato alcun segno di resipiscenza per l'accaduto, esprimendo, in più occasioni, la scarsa consapevolezza delle loro azioni.


Il quinto motivo (ricorso contro la costituzione dell’Istituto del Nastro azzurro a costituirsi parte civile) è inammissibile. Invero, premesso che non risulta - né i ricorrenti l'hanno anche solo allegato - che, con l'atto di appello, era stata impugnata l'ordinanza di ammissione di costituzione di parte civile, in ogni caso la Corte di merito ha evidenziato che lo statuto dell'Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valor Militare, eretto in Ente Morale con R.D. 31 maggio 1928, n. 1308, riporta, tra le finalità proprie dell'ente, la tutela delle virtù militari italiane, dell'amore per la Patria e la sensibilizzazione della coscienza dei doveri verso la Patria delle giovani generazioni, e, nell'ambito di tali scopi, rientra certamente la tutela del ricordo dei caduti per la Patria, oltre che il rispetto dei luoghi in cui sono sepolti i militari caduti per la Patria stessa.”


Quanto, infine, alla contestazione del quantum del danno, la Corte di merito, con una valutazione di fatto certamente non illogica, né arbitraria, ha ribadito la congruità dell'importo liquidato dal Tribunale sulla base sia dei connotati di grave offensività della condotta, realizzata all'interno di un momento storico nazionale, sia del fatto che il video, ritraente l'azione vilipendiosa, è stato poi diffuso sul web e così proposto a un numero illimitato di persone, con il rischio di condotte di emulazione. In ogni caso, i ricorrenti deducono censure di contenuto fattuale e, comunque, generiche, che, quindi, non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità 12.

Al rigetto dei ricorsi consegue, come per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento, nonché delle spese in favore della parte civile, che liquida in complessivi 3.686,00 euro, oltre oneri di legge.


P.Q.M.


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese in favore della parte civile, che liquida in complessivi 3.686,00 euro, oltre oneri di legge. Così deciso il 09/05/2024.


mercoledì 20 novembre 2024

La Campagna d'Italia fino al 1941 Lo sbarco in Sicilia

 

1.2.  Lo sbarco in Sicilia

 

La conseguenza più importante della conclusione della campagna d’Africa, fu che essa privò Germania ed Italia della maggior parte delle truppe addestrate ed esperte di cui disponevano nel teatro del Mediterraneo, truppe che altrimenti esse avrebbero potuto impiegare per bloccare la prima e cruciale fase di rientro degli Alleati in Europa. In realtà questo primo rientro in Europa, che Winston Churchill già vagheggiava a fine 1942 e che aveva per meta la Sicilia, fu un balzo azzardato, pieno di incertezze, il cui successo deve essere in gran parte attribuito all’influenza di tutta una serie di fattori. Primo fra tutti al cieco orgoglio che spinse Hitler e Mussolini a tentare di “salvare la faccia” in Africa. Poi, ai sentimenti di gelosia e di timore che Mussolini nutriva verso gli alleati tedeschi e alla sua riluttanza a permettere loro di svolgere un ruolo preminente nella difesa del territorio italiano; all’ostinazione del Primo Ministro britannico che vinse le resistenze americane, sempre vive quando si profilava all’orizzonte il pericolo di lasciarsi impegnare nel Mediterraneo, a scapito dello sbarco oltre Manica. Infine, la convinzione di Hitler, non condivisa da Mussolini, che la Sicilia non fosse il vero obiettivo degli Alleati.

Oggi sappiamo che la decisione di invadere la Sicilia fu presa nella conferenza di Casablanca che si tenne fra il 12 ed il 26 gennaio 1943, e che nelle intenzioni degli Alleati, l'occupazione della maggiore isola italiana doveva rappresentare il proseguimento delle “operazioni nel Mediterraneo iniziate con lo sbarco in Africa” e al tempo stesso l’avvio della campagna d’Italia. Di fatto, la decisione presa dal presidente Franklin Delano Roosevelt e dal primo ministro britannico Winston Churchill, in accordo con i loro più importanti consiglieri ed il Combined Chiefs of Staff, dette il via ad una serie di avvenimenti concatenati che portarono infine all’invasione dell’Italia continentale, al crollo del regime fascista, alla resa dell’Italia.

Nel febbraio 1943, tre mesi prima della fine della battaglia di Tunisia, fu costituito ad Algeri un Ufficio piani, che poi si trasformò in comando del XV Gruppo d’Armate, col compito di pianificare l’Operazione HUSKY, cioè lo sbarco in Sicilia. La cuspide sud-orientale dell’isola, con al centro la penisola di Pachino, fu subito considerata la più favorevole per uno sbarco, ma l’opinione che fosse indispensabile impadronirsi al più presto di porti, fece prevalere l’idea di sbarcare fra Avola e Gela (per occupare i porti di Siracusa e Augusta) e fra Sciacca e Selinunte (per occupare l’aeroporto di Castelvetrano). Due giorni dopo (D + 2) due divisioni sarebbero sbarcate presso Palermo per conquistare il porto della città, il giorno successivo (D + 3) due divisioni e mezza sarebbero sbarcate vicino Catania. Il generale Montgomery si oppose a tale piano perché la sua 8ª Armata, sarebbe stata diluita su una fronte troppo vasta; sopravvenne una crisi che fu risolta, perché fu ammesso di poter rifornire per un certo tempo le truppe anche senza disporre dei porti di Catania e Palermo. Ormai, più che l’immediato possesso dei porti era importante l’acquisizione di aeroporti. Il piano che fu concordato il 3 maggio ed approvato il 13 maggio dallo Stato Maggiore combinato (anglo-americano), previde la effettuazione contemporanea degli sbarchi nel giorno “D”. L’8ª armata britannica (gen. Montgomery) doveva attaccare dal golfo di Noto alla Penisola di Pachino compresa; la 7ª armata americana (gen. Patton) fra Scoglitti e Licata (¹). Secondo il Morison (²) nessun’altra operazione anfibia era stata effettuata, né lo fu in seguito, su una fronte così ampia (210 Km.), e nessuna con tanto numerose forze impiegate inizialmente. Fin dal 13 aprile era stato deciso di effettuare lo sbarco nella notte dal 9 al 10 luglio, perché quella era l’unica notte nella quale sarebbe stato possibile conciliare le esigenze dei paracadutisti, che volevano lanciarsi col chiaro di luna, e delle forze terrestri che volevano sbarcare nell’oscurità. Infatti la luna sarebbe tramontata precisamente nel breve intervallo fra le due operazioni.

 

________________

(¹) vds cartina.

(²) S.E. Morison, History of United States Naval Operations in World War II, Vol. IX.

 

Cartina: Il rientro in Europa.

 

 

Con la scomparsa dalla scena delle 8 divisioni catturate in Tunisia, compresi quasi tutti i veterani di Rommel e la parte migliore dell’esercito italiano, l’Italia e le isole italiane rimasero quasi del tutto prive di copertura difensiva. Queste forze, infatti, avrebbero saputo difendere con grande energia le vie di accesso italiane all’Europa, e le probabilità di successo dell’invasione alleata sarebbero state scarse. Ma sebbene fin da gennaio avessero deciso che la mossa successiva sarebbe stata lo sbarco in Sicilia e Tunisi fosse caduta non molto dopo la scadenza prevista, gli Alleati non seppero agire con tempestività per cogliere il momento favorevole. Fortunatamente per loro, il momento favorevole fu prolungato da dissensi e divergenze di vedute ai vertici dei due paesi dell’Asse. A questo punto, infatti, entra in gioco un secondo fattore di grande importanza, per comprendere il quale possiamo rifarci, in particolare, alla testimonianza del generale Westphal, allora capo di stato maggiore del feldmaresciallo Kesserling, comandante in capo nel sud. Poiché l’Italia non aveva più forze meccanizzate, i suoi capi militari pregarono i tedeschi di inviare in Italia un consistente rinforzo di divisioni di tipo corazzato. Convinto dell’opportunità di soddisfare questa urgente esigenza, Hitler inviò a Mussolini un messaggio personale in cui gli comunicava di essere disposto a offrirgli 5 divisioni. Ma Mussolini, senza informare Kesserling, rispose a Hitler di volerne solo 3, il che significava solo una nuova divisione, oltre alle 2 che erano state improvvisate mettendo insieme i contingenti di reclute destinate all’Africa che al momento della resa in Tunisia erano di transito in Italia. Anzi, Mussolini esprimeva il desiderio che in Italia non fossero inviate altre truppe tedesche. Questa riluttanza ad accettare l’offerta avanzata da Hitler verso la metà di gennaio era dovuta a un misto di orgoglio e di timore. Mussolini non voleva che il mondo, e il suo stesso popolo, vedessero che egli era ridotto a dipendere dall’aiuto tedesco. Secondo il parere di Westphal: “Mussolini voleva che l’Italia fosse difesa da italiani, e chiudeva gli occhi di fronte al fatto che la situazione spaventosa in cui versavano le sue forze armate rendeva del tutto irrealizzabile una simile idea”. Ma c’era anche un’altra ragione: non gli sorrideva affatto l’idea che i tedeschi acquistassero in Italia una posizione dominante. Ansioso com’era di tenere lontani gli Alleati, egli era quasi altrettanto ansioso di tenere lontani i tedeschi. Il nuovo comandante dello stato maggiore dell’esercito, generale Roatta (già comandante in Sicilia), riuscì alla fine a convincere Mussolini che ingenti rinforzi tedeschi erano indispensabili se si voleva avere qualche probabilità di difendere con successo l’Italia e i suoi avamposti insulari, ed egli dovette quindi rassegnarsi ad accettare l’arrivo di altre divisioni tedesche (imponendo comunque la condizione che fossero subordinate alla direzione tattica dei comandanti italiani).

La guarnigione italiana in Sicilia consisteva soltanto in 4 divisioni da campagna e in 6 divisioni territoriali adibite alla difesa costiera e ancora più deboli, sia sul piano dell’equipaggiamento che su quello del morale, Queste grandi unità potevano svolgere nella migliore delle ipotesi soltanto compiti di sicurezza. I complementi tedeschi di transito in Italia, al momento del crollo in Tunisia, furono riuniti in una divisione denominata “15ª divisione granatieri corazzata”, era dislocata nella parte orientale dell’isola, però aveva una sola unità di carri armati. La divisione corazzata “Hermann Göring”, ricostituita in modo analogo, fu inviata in Sicilia verso la fine di giugno. Per i motivi sopra esposti, Mussolini non permise che queste 2 divisioni fossero riunite in un corpo d’armata affidato a un comandante tedesco, ma esse furono poste direttamente agli ordini del comandante d’armata italiano, generale Guzzoni e distribuite in 5 contingenti lungo i 250 Km. di diametro dell’isola, come riserve mobili. A disposizione del decano degli ufficiali di collegamento tedeschi, generale Frido von Senger und Etterlin, furono messi un piccolo stato maggiore operativo e una compagnia trasmissioni, in modo che in caso di emergenza egli potesse esercitare il comando. Mentre però Mussolini si andava convincendo della necessità di accettare un aiuto tedesco di maggiori proporzioni, Hitler stava diventando sempre più dubbioso sull’opportunità di fornirlo, ed inoltre sempre più propenso a credere che non fosse la Sicilia il punto su cui incombeva la minaccia maggiore e più immediata.

 

Da una parte egli sospettava che gli italiani avrebbero deposto Mussolini e fatto la pace (un sospetto di cui gli eventi avrebbero presto dimostrato la fondatezza), e per questa ragione esitava ad inviare altre divisioni tedesche in fondo alla penisola italiana, dove esse avrebbero potuto trovarsi tagliate fuori qualora gli alleati italiani fossero crollati o avessero addirittura deciso di schierarsi con gli Alleati. Dall’altra, come accennato, egli finì col pensare che Mussolini, l’Alto Comando italiano e Kesserling, sbagliassero nel ritenere che la prossima mossa alleata sarebbe stata costituita da un balzo dall’Africa alla Sicilia. Su quest’ultimo punto i fatti gli diedero torto. Secondo Hitler era più probabile che gli alleati preferissero la Sardegna alla Sicilia. La prima isola avrebbe infatti rappresentato un facile gradino per accedere alla Corsica e un trampolino di lancio piazzato in una posizione quasi ideale per consentire un balzo sulla terraferma francese o su quella italiana. Nello stesso tempo si prevedeva anche la possibilità di uno sbarco alleato in Grecia e Hitler desiderava tenere a portata di mano riserve da poter eventualmente spedire in tutta fretta in quella direzione. Hitler credette di vedere confermate queste sue idee quando agenti nazisti operanti in Spagna inviarono in Germania copie di documenti rinvenuti su un ufficiale inglese il cui corpo era stato sospinto dal mare su una spiaggia della costa spagnola. Tra queste carte figurava, accanto ad alcuni documenti di identità e a lettere di tipo personale, una lettera privata (di cui il morto era stato latore) scritta dal generale Nye, il vice capo dello stato maggiore generale imperiale, al generale Alexander. Nella lettera si faceva riferimento a recenti telegrammi ufficiali in merito alle prossime operazioni, e alcune frasi aggiunte in calce lasciavano intendere che gli Alleati si stavano preparando a sbarcare in Sardegna e in Grecia, e che con il loro piano di copertura, speravano di convincere il nemico che il loro vero obiettivo era la Sicilia. Il cadavere e la lettera rientravano in un ingegnoso piano ideato da una sezione del servizio segreto inglese per mettere fuori strada i tedeschi. Lo stratagemma fu attuato così bene che i capi del servizio segreto tedesco non dubitarono neppure della autenticità dei documenti. Anche se non valse a modificare la convinzione dei capi italiani e di Kesserling che la Sicilia sarebbe stato il prossimo obiettivo degli Alleati, a quanto pare questo episodio esercitò una forte impressione su Hitler.

Eppure, attraverso i bollettini informazioni emanati dal Comando 6a Armata, cioè dal Comando Forze Armate della Sicilia, in data 2 e 4 luglio, si evinceva esattamente la data di inizio dell’operazione.

Il comando italiano previde pure che l’attacco sarebbe stato diretto contro la Sicilia. Infatti, il Bollettino informazioni del 2 luglio riportava:

 “le notizie concordano per un attacco contro la Sicilia e la Sardegna, ma le maggiori probabilità sono per la Sicilia”.

Mentre in quello del 4 luglio era scritto:

 “I tedeschi propendono a credere che l’attacco sia in preparazione contro tre obiettivi: Sardegna, Sicilia, Grecia simultaneamente e che perciò non possa essere sferrato ora. Però è un fatto che contro la Sicilia potrebbe esserlo anche oggi. “

Inoltre, il bollettino del 5 luglio riportava testualmente: “l’8a armata è dislocata tra Tripoli e la Tunisia meridionale; è quindi destinata ad agire contro la Sicilia: sintomo molto grave e decisivo. Il pericolo di un attacco imminente si accentua”.

Alle ore 9 del 9 luglio lo Stato Maggiore della 6a armata concluse un suo commento alla situazione:

“È evidente che si sta aumentando la potenzialità di Malta e che dobbiamo attenderci che di là muova l’offensiva, la quale perciò sarà orientata sulla zona orientale: Gela – Catania.”

 

Dunque, il comando italiano aveva previsto esattamente data, zona dello sbarco e che lo stesso sarebbe avvenuto su un’ampia fronte. Si disse che lo sbarco in Sicilia poté avvenire per deficienze dell’organizzazione difensiva e per insufficiente resistenza delle truppe. È indubbio che l’organizzazione difensiva e la disponibilità di truppe per la difesa fossero decisamente inferiori alle necessità. Come fu altrettanto certo che la battaglia difensiva fu condotta in condizioni di assoluta inferiorità, non fosse altro per l’assoluto dominio del cielo posseduto dalle forze aeree anglo-americane e l’impossibilità per quelle italo - tedesche di intervenire per proteggere le truppe dai continui attacchi avversari. Ma è altrettanto certo che queste deficienze non dipesero tanto dagli uomini, quanto dalle circostanze e dal logorio subìto in oltre tre anni di guerra, e che comunque, l’operazione anfibia anglo-americana avrebbe avuto successo, come ebbero successo tutte le operazioni analoghe effettuate fra il 1942 ed il 1945.

 

Tre quarti delle coste della Sicilia, e cioè oltre 800 Km. erano favorevoli a sbarchi; tremiladuecento cannoni e una ventina di divisioni costiere avrebbero consentito di organizzare una difesa appena efficiente: quattro cannoni e 150 fanti per ogni chilometro di spiaggia. Ma dove trovare 3.200 cannoni e 120 mila uomini, naturalmente dotati delle armi indispensabili? Non avrebbero comunque potuto respingere uno sbarco, ma soltanto ostacolarlo. Sarebbero poi state necessarie truppe in riserva sufficienti per quantità e idonee per armamento e mobilità per affrontare su una fronte ampia un paio di centinaia di chilometri ben sette divisioni di fanteria e due corazzate, oltre a truppe non indivisionate corrispondenti almeno ad un’altra divisione, e cioè tante quante furono impiegate dagli anglo-americani. E poiché ciascuna divisione alleata era (lo scrisse Churchill) corrispondente a due divisioni tedesche e italiane, sarebbero state necessarie almeno 17-18 divisioni.

Invece le divisioni costiere in Sicilia consentirono di avere, nel settore attaccato (che era il più fortemente organizzato) e comprese le unità in riserva che entrarono in azione il primo giorno, meno di 100 uomini per chilometro e 3 cannoni ogni 5 chilometri!

Le forze anglo-americane costituenti il XV Gruppo d’armate (gen. Alexander) consistevano in sette divisioni di fanteria, più una brigata “commandos” e “rangers”; due divisioni corazzate, due aviotrasportate, alle quali si contrapponevano 14 battaglioni di fanteria costiera con 133 cannoni e 5 Gruppi mobili, ciascuno corrispondente a un battaglione, con 28 cannoni in totale. Nel retroterra, le forze di riserva erano costituite da due divisioni italiane (Napoli e Livorno) e due tedesche (Göring e 15ª). Altre due divisioni italiane (Aosta e Assietta) erano dislocate nell’occidente dell’isola.

 

Complessivamente si trovarono di fronte, nei primi due giorni (10 e 11 luglio): 8a armata 66.000 u., tedeschi 8.800 u., 7ª armata 72.700 u. , italiani 69.000 u. per un totale 138.700 u.

 

Le forze aeree alleate disponevano di 3.680 aerei bombardieri, siluranti, caccia e parecchie centinaia di aerei da trasporto e servizi vari; in totale, secondo fonti anglo-americane, circa 5.000 aeromobili. Le forze aeree italo - tedesche esistenti in tutto il bacino del Mediterraneo disponevano di 389 aerei italiani e di 500 tedeschi efficienti, tuttavia, a partire dal 2 luglio i campi di aviazione in Sicilia furono stati sottoposti ad attacchi così massicci e continui che quando venne il D-Day solo poche piste sussidiarie erano ancora utilizzabili. Pertanto la caccia era nell’impossibilità di proteggere i bombardieri e gli aerosiluranti, i quali dovettero agire contro le navi nemiche senza scorta di caccia e perciò in condizioni pessime. Naturalmente, gli aerei da caccia non furono nemmeno in gradi di proteggere le truppe italo - tedesche sul terreno, che dovettero sostenere il peso della lotta sottoposte all’azione efficacissima degli aerei nemici, senza mai vedere un proprio aereo.

La parte navale dell’operazione fu preparata e condotta sotto la direzione dell’ammiraglio sir Andrew Cunningham. Pur comportando una complicata serie di movimenti destinata a concludersi con uno sbarco notturno, essa procedette dall’inizio alla fine con una perfetta regolarità che fece onore tanto a chi l’aveva preparata quanto a chi l’aveva eseguita.

 

Impiegare la flotta italiana nelle acque della Sicilia era esporla all’annientamento. Gli stessi che criticano i responsabili per non aver inviato le navi all’estremo olocausto, molto probabilmente oggi li accuserebbero di avere con somma incoscienza sacrificato migliaia di vite per compiere un gesto, indubbiamente glorioso, ma fine a sé stesso.

Il mattino del 9 luglio 411 bombardieri, 168 caccia e 78 caccia bombardieri attaccarono ancora gli aeroporti, lo Stretto e Messina. Al tramonto 107 bombardieri attaccarono Siracusa, Caltanissetta, e Catania. Nel pomeriggio del 9 luglio si levò improvvisamente un forte vento e in breve il mare si ingrossò in modo tale da mettere in difficoltà le imbarcazioni più piccole e minacciare di disorganizzare gli sbarchi. Per fortuna il vento calò di intensità prima di mezzanotte e sebbene al momento degli sbarchi il mare fosse percorso da fastidiose onde lunghe, solo poche delle imbarcazioni d’assalto raggiunsero in ritardo le spiagge. Tutto sommato, i guai che l’improvviso fortunale provocò agli attaccanti furono più che compensati dalla misura in cui esso indirettamente indebolì i difensori. Infatti, sebbene nel pomeriggio al largo di Malta fosse segnalata la presenza di cinque convogli in navigazione verso nord, ed entro sera una serie di altri preoccupanti rapporti raggiungesse l’Alto Comando, i messaggi di preavviso che questo diramò non raggiunsero o comunque non impressionarono i comandi inferiori. Mentre tutte le truppe tedesche di riserva furono messe in stato di allarme appena un’ora dopo la prima segnalazione, in generale gli italiani schierati lungo le coste pensarono che il forte vento e il mare grosso avrebbero garantito loro almeno un’altra notte di tranquillità. Nel suo rapporto l’ammiraglio Cunningham rilevò giustamente che a causa delle sfavorevoli condizioni atmosferiche “gli italiani, stanchi per le tante notti trascorse all’erta, ringraziando il cielo se ne andarono a letto dicendo: questa notte comunque non possono venire. E invece essi arrivarono”. La loro riluttanza a resistere fu accentuata quando, alle prime luci del 10 luglio, poterono vedere l’impressionante schieramento di navi che riempiva il mare fino all’orizzonte e il continuo flusso di mezzi da sbarco.

La forza d’attacco orientale (ammiraglio B. H. Ramsay) con 895 navi e 715 mezzi da sbarco, trasportava l’8a Aarmata  britannica verso quattro gruppi di spiagge fra Cassibile e la penisola di Capo Passero. La Forza d’attacco Occidentale (ammiraglio H. K. Hewitt) con 580 navi e 1.124 mezzi da sbarco trasportava la 7ª armata americana verso tre gruppi di spiagge, fra Punta Braccetto e Torre di Gaffe (a ovest di Licata). Un battaglione di fanteria di marina britannico sbarcò nella penisola della Maddalena e si impadronì delle batterie che lì erano in posizione. Prima delle ore 2 dalle navi ancorate al largo incominciò il varo dei mezzi da sbarco e il trasbordo delle truppe; la prima ondata di mezzi da sbarco giunse su alcune spiagge verso le ore 3, su altre un’ora più tardi. Le artiglierie costiere non aprirono il fuoco contro le navi; infatti queste erano troppo al largo per essere colpite da pezzi che avevano una gittata massima di 8 Km.. Spararono però contro i mezzi da sbarco, purtroppo, non appena si rivelavano erano controbattute e distrutte dalle artiglierie delle navi. Più ad oriente lo sbarco fu meno contrastato, tuttavia sulla spiaggia di Falconara sparavano mitragliatrici e cannoni. Sul terreno, alle cinque del mattino arrivarono i primi rapporti che segnalavano lanci di paracadutisti nella regione di Comiso, a San Pietro, fra Caltagirone e la costa. Alianti nemici erano atterrati presso Augusta. La divisione “Hermann Göring” segnalò che venti navi da trasporto stavano scaricando truppe nemiche presso Gela. La predetta divisione era entrata in azione secondo i piani, ma non era riuscita a ributtare in mare l’avversario. Ciò era dovuto in parte ai paracadutisti nemici atterrati nel settore d’attacco della divisione che in nessun punto entrarono in azione in formazioni compatte, ma tuttavia esercitarono una notevole azione di disturbo, dovuto in parte al terreno a terrazze, coltivato a ulivi, che ostacolava i movimenti dei mezzi corazzati al punto di impedirne l’impiego in formazioni compatte. Comunque, le difese furono travolte con estrema facilità e le sofferenze che molti uomini delle formazioni d’assalto avevano patito per il mal di mare, furono ampiamente compensate dalla esiguità delle perdite provocate dal fuoco nemico quando finalmente arrivarono a terra.

 

L’andamento della prima fase dell’invasione fu riassunto dal generale Alexander in due frasi: “Le divisioni costiere italiane, le cui capacità di combattimento non era stata mai giudicata molto alta, si disintegrarono senza quasi sparare un solo colpo. E anche le divisioni di manovra, incontrate successivamente, si dispersero come foglie al vento”. Pertanto, fin dal primo giorno, il peso della difesa ricadde quasi interamente sulle spalle delle 2 improvvisate divisioni tedesche, alle quali se ne aggiunsero poi altre 2. Verso mezzogiorno, quando cominciò a delinearsi lo sviluppo della situazione, il comandante in capo della 6a armata italiana, d’intesa con il generale von Senger, decise di richiamare la 15a divisione granatieri da ovest. Il giorno dopo due gruppi da combattimento della 15a divisione Panzer Grenadier provenienti dalla Sicilia occidentale arrivarono dopo una marcia a tappe forzate davanti al fronte americano, ma nel frattempo la divisione “Hermann Göring” era stata spostata più a est nel tentativo di arginare l’avanzata delle forze inglesi, che in quel momento sembrava la più pericolosa: risalendo metà della costa orientale dell’isola, infatti, essa era già arrivata nei pressi della città portuale di Catania, mentre le tre teste di sbarco americane erano ancora poco profonde e separate l’una dall’altra. Come quelli americani, anche gli sbarchi inglesi non avevano incontrato alcuna seria opposizione, ma nel loro caso in assenza di tempestivi contrattacchi, l’operazione poté svilupparsi con maggiore facilità. Dopo il primo giorno gli attacchi aerei furono più frequenti, ma poiché anche la copertura aerea era più consistente ed efficace, le perdite di unità navali furono quasi altrettanto irrisorie quanto quelle registrate nei settori americani. In realtà, per quanti avevano vissuto i precedenti anni della guerra del Mediterraneo sembrò, come ebbe a dire l’ammiraglio Cunningham “quasi un sogno che flotte di quelle dimensioni potessero restarsene ancorate lungo la costa del nemico, subendo così pochi attacchi aerei e perdite così irrilevanti”. Questa sostanziale immunità dalla minaccia aerea fu uno dei fattori chiave del successo nell’invasione anfibia, che però nella fase successiva fu messa in seria difficoltà da un diverso tipo di azione aerea.

Poiché nei primi tre giorni le forze inglesi avevano sgomberato l’intera parte sud-orientale dell’isola, Montgomery decise di compiere uno sforzo massiccio per irrompere nella Piana di Catania dalla zona di Lentini, e ordinò un attacco su grande scala per la notte del 13 luglio. Il problema chiave era la conquista del ponte di Primosole sul fiume Simeto, alcuni chilometri a sud di Catania, e per risolverlo si pensò di impiegare una brigata di paracadutisti. Sebbene solo metà di essa fosse stata lanciata nel posto giusto, il ponte cadde in mano inglese intatto. La fase successiva può essere riassunta citando il resoconto che ne diede il generale Student, comandante dell’XI corpo aereo, comprendente le truppe aviotrasportate tedesche. Le sue 2 divisioni erano state dislocate da Hitler nel sud della Francia, in modo che fossero pronte a raggiungere in volo la Sardegna qualora, come Hitler prevedeva, gli Alleati fossero sbarcati là. Ma, come dimostra il racconto di Student, le truppe aviotrasportate costituiscono una riserva strategica molto flessibile, che si presta a essere agevolmente spostata da un punto all’altro per fare fronte a situazioni impreviste:

“Il 10 luglio, quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, io proposi subito di sferrare un immediato contrattacco con ambedue le mie divisioni. Ma Hitler respinse questa proposta, osteggiata in particolare da Jodl. Pertanto in un primo tempo ci si limitò a trasportare in volo la 1a divisione paracadutisti dal sud della Francia in Italia, in parte a Roma e in parte a Napoli, mentre la 2a divisione paracadutisti rimase a Nimes con me. Gli uomini della 1ª divisione paracadutisti, tuttavia, furono ben presto inviati in Sicilia, per essere impiegati come truppe di terra destinate a dare manforte alle scarse forze tedesche che vi si trovavano quando gli italiani cominciarono a cedere en masse.

 

Parte della divisione fu trasportata a destinazione con una specie di ponte aereo e lanciata dietro il nostro fronte nel settore orientale a sud di Catania. Io avrei voluto che essa fosse lanciata dietro il fronte alleato. Il primo contingente fu lanciato circa 3 chilometri dietro il nostro fronte, e per una strana coincidenza toccò terra quasi simultaneamente ai paracadutisti inglesi lanciati dietro il nostro fronte per impadronirsi del ponte sul fiume Simeto. I nostri paracadutisti sopraffecero quelli inglesi e riconquistarono il ponte. Ciò accadde il 14 luglio.”[1]

 

Dopo tre giorni di duri combattimenti, il grosso delle forze inglesi, sopraggiunte nel frattempo, riuscì poi a riconquistare il ponte e a riaprire così la via d’accesso alla piana di Catania, ma il tentativo di proseguire la marcia verso nord fu bloccato dalla crescente resistenza opposta dalle riserve tedesche che stavano ormai affluendo nella zona per sbarrare la rotabile costiera verso Messina (distante ancora 100 Km.), dove l’angolo nord-orientale della Sicilia è separato solo da uno stretto braccio di mare dalla punta estrema della penisola italiana. L’insuccesso di questo tentativo fece cadere la speranza di una rapida conquista della Sicilia. Montgomery fu costretto a spostare a ovest il grosso dell’8a armata per fargli compiere una più tortuosa avanzata attraverso le colline dell’entroterra e aggirare l’Etna, congiuntamente all’avanzata verso est della 7a armata, la quale raggiunse la costa settentrionale e occupò Palermo il 22 luglio: troppo tardi comunque per intercettare la ritirata verso est delle truppe motorizzate del nemico. Il nuovo piano comportò un importante mutamento di ruolo per l’armata del generale Patton. La sua funzione di scudo protettivo del fianco di quella che avrebbe dovuto essere la decisiva penetrazione dell’8ª armata verso Messina, e di elemento di disturbo avente lo scopo di impedire al nemico di concentrare tutte le sue riserve, fu estesa in quella di leva offensiva; e addirittura, alla fine, in quella di punta di diamante dell’intera operazione.

Per il nuovo sforzo offensivo che avrebbe dovuto iniziare il 1º agosto, dall’Africa furono trasportate in Sicilia 2 nuove divisioni di fanteria (la 9a americana e la 78a inglese), portando così il totale a 12. Intanto i tedeschi avevano ricevuto di rinforzo la 21a divisione Panzer Grenadier e il comando del XIV corpo corazzato del generale Hube, che aveva assunto il comando delle operazioni. Suo compito era non già di difendere ad oltranza la Sicilia, bensì soltanto di condurre un’azione di disturbo abbastanza efficace da consentire l’evacuazione delle forze dell’Asse. A questa decisione Guzzoni e Kesserling erano arrivati, ciascuno per proprio conto, dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio e prima che gli Alleati riprendessero l’offensiva.

Un’azione ritardante di questo genere non poteva che essere molto agevolata dalla natura impervia e dalla stessa forma della Sicilia nord-orientale: un triangolo di terreno montagnoso. Mentre la sua natura favoriva la difesa e ogni passo indietro comportava un accorciamento del fronte, così da rendere necessario un minor numero di difensori, per gli Alleati diventava sempre più difficile dispiegare le loro armate in modo da sfruttarne appieno la grande superiorità. Tre volte Patton tentò di accelerare l’avanzata mediante piccoli balzi anfibi – uno sbarco a Sant’Agata la notte fra il 7 e l’8 agosto, un secondo a Brolo il 10-11 e un terzo a Spadafora il 15 – 16 – ma in tutti e tre i casi l’azione si dimostrò troppo tardiva per essere efficace. Anche Montgomery tentò una piccola azione analoga il 15 – 16, ma ormai la retroguardia del nemico si era già spostata più a nord, e il grosso delle sue truppe aveva già attraversato lo Stretto di Messina portandosi sulla terraferma.

L’evacuazione della Sicilia fu portata a termine quasi interamente nel corso di soli sei giorni (e sette notti), grazie a un’abile organizzazione e alla mancanza di qualsiasi serio tentativo di interferenza da parte delle forze aeronavali alleate. Quasi 40 mila soldati tedeschi e più di 60 mila soldati italiani furono portati in salvo.

 

Anche se gli italiani si lasciarono alle spalle tutto l’equipaggiamento, eccettuati non più di 200 automezzi, 47 carri armati, 94 cannoni e 17 mila tonnellate di rifornimenti e di equipaggiamento.  

Hube prese posto sull’ultima imbarcazione che salpò dall’isola poco prima dell’alba del 17 agosto. Verso le ore 6.30 la prima pattuglia americana entrò a Messina e poco dopo vi fecero la loro comparsa anche gli inglesi – salutati con gioiose grida: “dove andate, voi turisti?”.

Alla luce del pieno successo che aveva coronato la ritirata tedesca dalla Sicilia, ben povere di contenuto suonarono le parole con cui quel giorno Alexander informò il primo ministro inglese della conclusione della campagna: “Entro le 10 di oggi, 17 agosto 1943, l’ultimo soldato tedesco è stato cacciato fuori dalla Sicilia… Si può ritenere che tutte le forze italiane presenti nell’isola il 10 luglio siano state annientate, anche se è possibile che qualche unità abbia raggiunto, malconcia, la terraferma”.

Per quanto si può dedurre dai documenti disponibili, i soldati tedeschi in Sicilia erano circa 60 mila e quelli italiani 195 mila. Dei soldati tedeschi, tolti quelli fatti prigionieri ed i feriti, quelli uccisi non superarono le poche migliaia. Complessivamente le perdite alleate ammontarono a circa 23 mila. Non si trattò di un prezzo molto elevato in rapporto ai grandi risultati politici e strategici della campagna – un evento che provocò la caduta di Mussolini e la capitolazione dell’Italia. Certamente gli Alleati avrebbero potuto realizzare un più sostanzioso “carniere” di tedeschi, e quindi spianarsi il lungo cammino che ancora li attendeva, applicando con maggiore energia e tempestività la tattica delle mosse aggiranti anfibie. Questa era l’opinione dell’ammiraglio Cunningham, e nel suo rapporto egli affermò esplicitamente che dopo i giorni di apertura: “L’8ª armata non fece nulla per sfruttare le occasioni che le si presentarono di effettuare attacchi anfibi. I primi mezzi da sbarco di fanteria furono tenuti a disposizione appunto per questo scopo, e per avere i necessari mezzi da sbarco sarebbe bastato richiederli. Certo ci dovettero essere valide spiegazioni militari per il mancato impiego di quello che era uno strumento di valore incalcolabile sul piano sia della potenza navale che dell’elasticità di manovra: in futuro, comunque, sarà bene tenere presente questo aspetto della questione e chiedersi se per caso non sarebbe possibile risparmiare tempo ed evitare combattimenti sanguinosi con mosse aggiranti che, anche se condotte su scala limitata, hanno sicuramente l’effetto di molestare il nemico”.[2]

 

Con grande sollievo di Kesserling, l’Alto Comando alleato non aveva tentato uno sbarco in Calabria, alle spalle delle sue forze in attesa in Sicilia, per bloccarne la ritirata attraverso lo stretto di Messina. Fin dall’inizio della campagna di Sicilia egli aveva temuto che da un momento all’altro giungesse a segno un colpo di questo genere, un colpo che egli non avrebbe avuto alcuna possibilità di parare. A suo avviso: “un attacco secondario in Calabria avrebbe permesso di trasformare lo sbarco in Sicilia in una schiacciante vittoria alleata”. Fino alla conclusione della campagna di Sicilia e al felice esito della ritirata delle 4 divisioni tedesche impegnate sull’isola, Kesserling non ebbe a disposizione che 2 divisioni tedesche per guarnire l’intera Italia meridionale.

 

La situazione venutasi a creare in Sicilia, per i tedeschi, dopo lo sbarco degli alleati, è la rappresentazione delle correnti di pensiero esistenti allora presso lo stato maggiore nazista. La prima considerava in partenza priva di speranze un’opposizione a uno sbarco in larga scala. La seconda riteneva che fosse possibile infliggere all’avversario, mediante provvedimenti tattici, un colpo mortale nell’attimo in cui la crisi di quest’ultimo avesse raggiunto l’apice. Nelle direttive diramate il 22 giugno, Hitler non fece capire per quale delle due tesi propendesse.

 

Il fatto però che sia il feldmaresciallo Keitel sia soprattutto il generale Warlimont si siano limitati a dare solo direttive riguardanti lo sgombero, fa arguire che nemmeno Hitler credesse in una difesa duratura della Sicilia. D’altra parte tutto fa ritenere che il feldmaresciallo Kesserling sperasse di conquistare in Sicilia, nella sua qualità di comandante in capo, il primo vistoso successo nella difensiva, e che perciò parteggiasse per la seconda tesi, per cui l’avversario doveva essere “ributtato in mare” dopo lo sbarco. Questa tesi era molto diffusa nelle forze armate tedesche, specialmente nei comandi inferiori. Essa era il riflesso diretto di una debolezza profondamente radicata nella tradizione del pensiero militare tedesco, basato quasi esclusivamente sulla guerra terrestre. Gran parte della cerchia dirigente politica e militare tedesca era in grado di ragionare solo in termini di operazioni terrestri, non già nelle tre dimensioni della guerra moderna. Questo atteggiamento portava a una sopravvalutazione della difesa costiera, ma anche alla sopravvalutazione delle difficoltà che l’avversario, pur superiore nell’aria e sul mare, avrebbe incontrato. Un attacco scatenato da un apparato bellico moderno composto da tutti e tre gli elementi principali (esercito, aviazione, marina) contro un avversario equipaggiato solo per la guerra sulla terraferma ma inferiore sul mare e nell’aria, presenta in realtà minori difficoltà e maggiori probabilità di successo che non un puro attacco terrestre contro una linea di resistenza. Chi attacca dal mare ha il vantaggio della sorpresa. Tuttavia lo sbarco in Sicilia, come generali italiani prigionieri rivelarono a Eisenhower, non fu una sorpresa totale. Ciò che sarà sempre una sorpresa, invece, è il punto preciso dello sbarco, l’ampiezza della testa di ponte e il procedimento tattico impiegato. In Sicilia i tedeschi restarono per molto tempo nell’incertezza se lo sbarco del 10 luglio non sarebbe stato seguito da altri in altri punti. Sotto questo punto di vista lo sbarco tra Siracusa e Licata fu una sorpresa, così come fu una sorpresa l’assenza di ulteriori sbarchi nella parte occidentale dell’isola o sulla costa settentrionale. Per quanto riguarda l’attacco dal mare, un fattore ancora più importante della sorpresa è la possibilità di neutralizzare l’avversario a terra con il fuoco delle artiglierie navali. Queste dispongono sempre di calibri superiori a quelli delle artiglierie dell’esercito, appostate temporaneamente, a scopi difensivi, sulla striscia costiera. Le artiglierie navali sono soprattutto più mobili dell’artiglieria del difensore. Il difensore non può combattere efficacemente le artiglierie navali. In Sicilia la difesa non oppose praticamente alcun ostacolo alle artiglierie dell’attaccante.

Le forze aeree alleate poterono distruggere le forze aeree tedesche a terra, ma il tentativo di accelerare l’esito della battaglia con l’impiego di truppe aviotrasportate fallì. La distruzione delle forze aeree tedesche a terra fu opera di esperti bombardieri. L’impiego di truppe aviotrasportate fu una novità. Le truppe aviotrasportate, che nell’insieme assommavano a una divisione, impiegate contro i campi d’aviazione nella parte sudorientale dell’isola, non poterono portare a termine il loro compito. L’artiglieria contraerea tedesca, ancora molto forte, inflisse a esse sensibili perdite. Tuttavia riuscirono a rallentare l’avanzata della divisione Hermann Göring. Comunque, per capire la portata della superiorità degli alleati che attaccava dal mare bisognava averla vista con i propri occhi. Ed è ciò che capitò al generale Eisenhower e che godendosi lo spettacolo affermò:

 

“Devo dire che la vista di centinaia di navi, con mezzi da sbarco ovunque, che operavano lungo la costa da Licata verso est, era uno spettacolo indimenticabile”.

 

Al termine di questa esposizione, si preme sottolineare che una parte degli episodi descritti provengono dalle affermazioni contenute nel libro “History of United States Naval Operations in World War II”[3] (¹) che è una pubblicazione ufficiale, affinché sia una volta per sempre sfatata la stolta leggenda che gli italiani non combatterono in Sicilia. Essi fecero ciò che le forze disponibili, le circostanze, le deficienze di armamento, la potenza nemica consentirono di fare.



[1] B.H. Liddell Hart, The other side of the Hill, p.355.

[2] Rapporto dell’Ammiraglio Cunningham

[3] Morison, S.E., History of United States Naval Operations in World War II, Vol. IX

 

 

domenica 10 novembre 2024

La Campagna d'Italia fino al gennaio 1941

 

La Campagna d’Italia fino al gennaio 1944

 

1.1.I precedenti. Dieppe e l’Operazione “Torch” 1.2.  Lo sbarco in Sicilia. 13.  Lo sbarco a Salerno. 1.4.  L’uscita dell’Italia dalla guerra. 1.5.  La conquista di Napoli e la Winter line. 1.6.  Dal Piano “Asche“ alla linea Gustav.

 

1.1.  I precedenti. Dieppe e l’Operazione “Torch”

 

Lo sbarco di Anzio in tutte le sue fasi preparatorie ricevette le esperienze che gli Alleati fecero in precedenti operazioni simili, in particolare sul teatro europeo, nel 1942, mentre si ebbe qualche riverbero di quanto gli statunitensi riuscirono ad attuare nel Pacifico, ma solo in minima parte.

Lo sbarco a Dieppe era inteso come una ricognizione a largo raggio, con obiettivi limitati; infatti doveva durare solo 48 ore. Inizialmente denominata operazione Router fu poi chiamata Jubilee con l'obiettivo strategico di provocare uno spostamento di forze dal fronte orientale verso il fronte francese e come obiettivo immediato quello di distruggere le installazioni portuali e della difesa costiera nell'area intorno al Porto di Dieppe; parallelamente rendere inutilizzabile l’uso di questo porto.

 

Inizialmente affidata al generale Montgomery fu poi data in comando a Lord Mountbatten, capo delle operazioni combinate, dopo il trasferimento di Montgomery in Africa settentrionale. Le forze destinate alla operazione avevano come base due Brigate di Fanteria canadese (4961 uomini) unità paracadutiste, unità commandos,  specialisti in d'istruzioni e genieri d'assalto, più un battaglione carri MK IV Churchill, di cui tre come lanciafiamme,  per un totale di 1075 uomini; presenti inoltre unita a livello plotone/compagnia delle forze della Francia libera, della Cecoslovacchia e della Polonia; era previsto un appoggio esteso della Marina con un preparatorio cannoneggiamento navale intenso e l'appoggio dell'Aeronautica sopra il cielo di Dieppe.

 

L'operazione inizio nella notte tra il 18 ed il 19 agosto 1942 quando e i dragamine inglesi aprirono i varchi nei campi di mine per giungere a terra. Durante l'avvicinamento le unità che trasportavano i Commandos si imbatterono in un convoglio tedesco che, ignaro, si stava trasferendo da est verso ovest; ne nacque un combattimento durante il quale la stragrande maggioranza delle navi che portava i Commandos fu affondata. L'allarme era stato dato ed il fattore sorpresa svanito; quando la fanteria canadese era attesa e fu falcidiata dal fuoco delle mitragliatrici e dei cannoni delle batterie costiere. Furono raggiunti obiettivi secondari e si riuscì anche a sbarcare tutti i carri armati, ma la loro azione fu presto contrastata e via via furono tutti distrutti. Dopo otto ore di combattimento la situazione era così grave che fu dato l'ordine di reimbarco parziale e nel pomeriggio si diede anche l'ordine generale di ritiro di tutte le forze.

 

Dieppe fu un fallimento totale. Le perdite furono pesanti per gli alleati 4384 tra morti feriti dispersi prigionieri tra le forze sbarcate, 555 marinai e si dovette lamentare anche la perdita di 119 aerei persi durante quella che fu poi definita la battaglia era di Dieppe; i tedeschi ebbero 311 morti e qualche centinaia di feriti.

 

L'operazione non portò a nessun ritiro di forze tedesche dal fronte russo alla Normandia e provocò, invece, un rafforzamento delle fortificazioni lungo il litorale sia olandese che francese.

 

Nel 2012 sono state avanzate ipotesi che stanno ad indicare che le reali intenzioni del raid fossero quelle di penetrare nelle strutture di comando tedesche presenti a Dieppe per impossessarsi di codici cifrati e macchinari Enigma che si riteneva fossero presenti in loco. In sostanza il grosso dell'attacco sarebbe stata un'operazione di copertura a una più piccola e mirata operazione di spionaggio. Tale chiave di lettura restituirebbe all'intera operazione un senso tattico e strategico che per decenni si è faticato a trovare.  Effettivamente riuscire la vita di oltre 7000 uomini, con perdite così alte sembra una ipotesi poco plausibile.

 

Dieppe fu in tentativo inziale per comprendere come ci si doveva muovere per sbarcare in Francia. Il suo fallimento portò alla conclusione che i tedeschi erano fortemente organizzati e le loro difese efficienti. Dal mare era difficilissimo attaccare zone presidiate. La necessità di avere un porto per sostenere nel tempo le forze sbarcate era noto a tutti, compresi i tedeschi.  Nessuno sbarco sopravvive a se stesso se non dispone di un porto. Questo fa sì che nello sbarcare sul litorale laziale, la scelta cadde sul porto più importante, Anzio. Sbarcare altrove senza aver la disponibilità di Anzio significava il suicidio.

La lezione subita, tuttavia, fu un'ottima fonte d'informazioni per le future operazioni anfibie in Europa, prima fra tutte la operazione Overlord. La decisione di sbarcare in Normandia, discende dalla esperienza di Dieppe: attaccare Calais o altri punti fortificati della costa francese significava andare incontro a disastri. I tedeschi questo lo sapevano e quindi, non avendo una ricognizione adeguata, non si accorsero della costruzione di due porti artificiali davanti alle coste normanne, versa sorpresa strategica che gli alleati riuscirono a realizzare. I tedeschi considerarono lo sbarco in Normandia un semplice sbarco secondario e diversivo, attuato con lo scopo di attirare le loro riserve; il vero sbarco si sarebbe effettuato a Calais e dintorni. In questa convinzione permisero agli alleati di sbarcare oltre 250mila uomini e tutto l’armamento e l’equipaggiamento necessario. Quando ebbero contezza di tutto questo la loro reazione fu immediata, ma ormai era troppo tardi. Il primo attacco delle forze corazzate tedesche in Normandi fu il 21 giugno, quasi con tre settimane di ritardo rispetto alla realtà operativa. Ormai gli alleati erano saldamente sul suolo francese. La lezione di Dieppe fu significativa ed incisiva sia per i tedeschi, che trassero indicazioni troppo ottimistiche dalla loro vittoria sia per gli alleati che trassero lezioni che furono da guida nell’approntamento delle loro future operazioni anfibie, sia con “Torch” che con gli sbarchi in Sicilia e a Salerno.

 

L’operazione “Torch” era la denominazione “del piano per gli sbarchi nell'Africa settentrionale francese che nella fase preparatoria aveva avuto le denominazioni Gymnastic e Supergymnastic. Venne attuato a partire dall’ 8 novembre 1942 con una serie di sbarchi che interessano l'Algeria, il Marocco è più precisamente i porti di Casablanca Orano e Algeri.

L'operazione era stata definitivamente programmata il 25 luglio precedente. Complessivamente l'operazione fu condotta con 850 navi compresi i trasporti, suddivisi in 3 Task Force: la task force occidentale composta da truppe americane, al comando del generale Patton, la task-force centrale composto da truppe britanniche il comando del generale Freddendall e la task-forte orientale composta anche essa da truppe britanniche al comando del generale Rider. Le tre task-force sbarcano rispettivamente a Casablanca, Orano ed Algeri. Fino all'ultimo momento gli alleati avevano sperato che le truppe francesi non opponessero resistenza Ma ciò non avvenne dovunque. Le tre task-force forze navali erano rispettivamente al comando del contrammiraglio americano Hewitt, dal commodoro britannico Trowbridge e del contrammiraglio britannico Burrough. Il comando generale delle task- force navali era dell'Ammiraglio britannico Cunnigham, mentre il comando supremo dell'operazione era del generale Eisenhower. Gli sbarchi avvennero tra l’1 e le 5 della notte sul 8 novembre. A Casablanca presero terra una divisione, due reggimenti di fanteria e tre battaglioni corazzati. Ad Orano gli sbarchi furono effettuati da una divisione, da un battaglione corazzato, da un battaglione di Rangers e da un battaglione di paracadutisti E qui la resistenza delle truppe francesi portò all'affondamento di due unità navali britanniche. Ad Algeri infine sbarcano due reggimenti americani due brigate britanniche, due battaglioni di commandos britanniche, un reggimento americano.

Da Vichy, il maresciallo Pétain ordinò alle truppe francesi in Africa di contrastare l'invasione alleata ma allo stesso tempo inviò all'alto commissario francese in Algeria, ammiraglio Francesco Darlan Algeri un messaggio segreto nel quale comunicava che lo lasciava libero di trattare con gli alleati anglo-americani.

L'11 e il 12 novembre le truppe alleate sbarcarono a Bougie e per via aerea a Bona, in prossimità del confine con la Tunisia, dove nel frattempo il maresciallo Kesselring aveva già fatto giungere truppe aviotrasportate per contrastare l'invasione. I primi scontri tra gli alleati e i tedeschi avvennero il 18 novembre in territorio tunisino a Sidi Nsir. Il fronte si stabilizzerà nei giorni successivi lungo una linea che da Capo Serrat toccava Sidi Nsir fino a Medjiez El Bab ad una cinquantina di chilometri da Tunisi”[1]

Gli sbarchi della operazione Torch, soprattutto quelli in Marocco, ebbero carattere prevalentemente logistico, non essendoci reazione da parte delle forze francesi. Combattimenti sporadici, ma non su vasta scala si ebbero in quelli effettuati ad Algeri e a Orano, in quanto parte delle truppe francesi rimasero inizialmente fedeli all’ordine ufficiale di Petain di fronteggiare le forze alleate. La situazione in breve si andò poi chiarendo, anche grazie all’opera del gen Clark, che nei giorni precedenti lo sbarco aveva svolto una missione segreta presso le autorità francesi, riportando l’impressione che l’opposizione sarebbe stata sporadica, come in effetti avvenne. In questi sbarchi fu acquisita ulteriore esperienza in tema di operazioni anfibie, che fu ovviamente messa a frutto nei preparativi, già avviati a fine dicembre 1942, per future operazioni di sbarco che molto probabilmente avrebbero dovuto interessare sia la Sardegna sia la Sicilia, e, nelle ipotesi più remote, anche la Grecia. 

 (continua)



[1]  Cfr. Boschesi B.P., La seconda guerra mondiale. I personaggi, le date, i luoghi le armi le cifre, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1983, pag. 406 e segg.