In occasione della data anniversaria della battaglia di Montelungo, nel riprendere materiali per un progetto voluto dal gen Luigi Poli volto a pubblicare le testimonianze dei superstiti (2010) della Guerra di Liberazione (Progetto Storia in laboratorio. Titolo "Combattere l'Oblio"), progetto non potutosi realizzare, riportiamo l'intervista che Stefano Valente a fatto a Lapo Mazzei.
Nel ricordo del gen Luigi Poli e della tradizione che si era instaurata l'8 dicembre in cui si presentava e il calendario Associativo e le attività di ricerca volta a divulgare i valori della Guerra di Liberazione, l'intervista a Lapo Mazzei vuole rappresentare un contributo alla conoscenza delle gesta di chi fu partecipe della Guerra di Liberazione ed un Omaggio a chi per questi valori diede la vita, nel solco di una attività.
(Il Gruppo Studenti e Cultori. www.studentiecultori.blogspot.com)
INTERVISTA A LAPO MAZZEI
Ufficiale I.L.L.O.
Stefano Valente:
Vorrei approfondire alcuni aspetti della sua formazione: quali sono i
suoi ricordi d’infanzia?
Il mio percorso di vita nasce in
una famiglia da sempre formata da uomini dedicati agli studi giuridici ed
economici e molti con una vena artistica, Jacopo Mazzei, mio bisnonno, era
Ministro di Giustizia del Granduca e si dimise quando questi si rifiutò di
ristabilire lo Statuto. Suo fratello fu architetto e a lui si devono tante
opere in Firenze e in Toscana, fra cui la più famosa il restauro del Bargello.
Mio padre era professore di politica economica che mi insegnava ad osservare
con critica quanto succedeva in quegli anni ma con un sempre preciso
insegnamento, capire e servire sempre gli interessi del Paese.
Ho studiato al Liceo Michelangelo
di Firenze ed ebbi dei professori con un approccio molto vivace e critico alla
realtà in cui vivevamo. Era vivo e presente un forte patriottismo ma con un
approccio critico della storia e della filosofia, senza indulgenze ideologiche.
Ricordo inoltre una grande disciplina nella mia educazione e la scuola,
disciplina anche nello sport in cui emerse la mia passione per l’equitazione e
per le attività sportive.
Cosa ricorda dell’entrata in guerra contro l’Etiopia?
Francamente é più forte in me il
ricordo della conclusione con la conquista di Addis Abeba in una eccitazione
generalizzata, un vero trionfo: evidentemente grandi erano le speranze
suscitate dall’evento.
Lei come visse quella fase cruciale?
Ricordo nella prima fase
l’attacco alla Francia, un rapporto contraddittorio di amore e
contrapposizione. D’altro canto ero molto giovane e seguii la guerra con molto
interesse, apprensione e speranze. Ricordo il primo anno del conflitto,
l’attesa e l’immobilità della campagna di Libia, la prudenza difensiva di
Graziani. Oggi possiamo dire con certezza che entrammo in guerra
coscienti della nostra inadeguata preparazione, ma nella quasi certezza che
tutto si sarebbe concluso in pochi mesi. Certamente non avevamo idea di cosa
fosse una guerra meccanizzata, una guerra industriale, alla quale non solo non
eravamo preparati ma che avrebbe richiesto anni, anni ed anni di lavoro per
potersi adeguare. Il soldato tedesco era un meccanico, il soldato italiano un
contadino. Non parliamo poi delle differenze col mondo super organizzato degli
alleati che rispecchiava la straordinaria potenza industriale di quei paesi e
la collaudata volontà patriottica.
E sulla campagna di Grecia cosa ricorda?
La campagna di Grecia fece
emergere con evidenza l’impreparazione operativa in una concezione della guerra
che non era molto cambiata rispetto al primo conflitto mondiale e in più la
carenza organizzativa.
Ci furono successive evoluzioni?
La disfatta in Africa che colpì
non solo noi ma anche l’alleato tedesco che aveva il comando delle operazioni
determinò la svolta integrale della guerra.
L’invasione della Sicilia è sempre stata dipinta come una fuga.
Non è vero che fu una fuga per
molti reparti e la documentazione oggi disponibile lo attesta. Noi spettatori
sentivamo il progressivo aumento di un clima generale di disorganizzazione e di
sfiducia che partiva da Roma.
Qual è il suo parere su Badoglio?
Non lo reputo un uomo adatto a
fronteggiare la fase storica che si stava attraversando. Non era un De Gaulle,
non era un trascinatore, soprattutto non aveva una visione chiara e una
politica di ampio respiro e il coraggio. Penso che sperasse in una resa
dell’esercito tedesco in Italia che seguisse la nostra resa, in questa speranza
lasciò che l’Italia fosse integralmente occupata dalle forze tedesche piombate
dalla Germania, aggressive, ben organizzate e preparate al momento decisivo.
Che cosa può dirci della società italiana?
Il fascismo non è decaduto in
maniera repentina, dalla campagna di Grecia in poi serpeggiava fra gli italiani
e nel partito fascista la coscienza del disastro che si avvicinava e l’idea di
come riuscire a salvarsi. Il voto contrario a Mussolini al Gran Consiglio, e il
conferimento di tutti i poteri al Re, non fu un fatto repentino ma preparato e
studiato in tutte le forme. Fu un atto coraggioso che determinò la caduta del
regime, molti dei protagonisti del Gran Consiglio, catturati, furono fucilati,
nel famoso processo di Verona un anno dopo.
Bisogna dire che il fascismo non
era simile al nazismo e al comunismo, questi ultimi due identificavano il partito con lo Stato, il
fascismo non si identificò con lo Stato ma lasciò in vita la vecchia struttura
dello Stato monarchico. I prefetti, i Ministeri
e via discorrendo. Moltissimi degli uomini che poi hanno formato la
spina dorsale dell’Italia dopo la guerra erano nati e vissuti durante quell’epoca in cui certo si era
insegnato il rispetto della Patria e il servizio dello Stato.
Nel 1942 si tenne a Roma all’Istituto
Nazionale di Cultura fascista un grande convegno sul tema dell’unità
dell’Europa a cui parteciparono studiosi di storia, di economia, di
giurisprudenza, più di cento, provenienti da tutte le parti d’Italia. Nel leggere il rapporto stenografico di
questo incontro promosso certamente per dare un’arma a Mussolini per
svincolarsi dai tedeschi, fu posto il problema dell’unità d’Europa, con la
forza o con la libera adesione: prevalse la seconda tesi e fu esplicitamente
detto che di questo dovevano essere messi al corrente i tedeschi.
Sull’argomento ci fu una votazione unanime, tranne un astenuto, che se non vado
errato fu il Prof. Spirito. Presiedeva il convegno come Presidente
dell’Istituto di Cultura fascista il prof. Pellizzi che fu poi Preside della
Facoltà di Scienza Politiche Cesare Alfieri a Firenze. Uomo di grandissima
preparazione che era stato addetto culturale a Berlino e poi a Londra. Dai
rapporti stenografici dell’incontro si evince con chiarezza gli orientamenti
culturali dei partecipanti : cattolici, socialisti, liberali, ecc.
Quale fu la posizione del popolo italiano?
Il periodo tra il 25 luglio e l’8
settembre fu un momento di riflessione, il popolo italiano mostrò la
grandissima dote di riuscire a contenersi e a salvarsi: le forze politiche
certo cercavano di organizzarsi per la svolta e non bisogna mai dimenticare il
quadro dei fanatismi che hanno imperato nel XX secolo. Il vero problema nacque
dopo l’8 settembre, dichiarare l’armistizio in un paese stanco e con un
esercito sfiduciato e conscio della propria debolezza non poteva portare altro
che a uno sfascio generale e a una fuga. Ho un ricordo vivissimo dei giorni
dopo l’8 settembre con una marea di soldati disordinati, a piccoli gruppi, che
con ogni mezzo cercavano di raggiungere
i loro luoghi di residenza. Io ero in campagna e questo spettacolo
agghiacciante mi rimarrà sempre inciso nella mente. Questa disgregazione
naturalmente non colpì tutti i reparti, alcuni di loro si comportarono con
dignità pur sapendo di soccombere.
Qual’é il suo parere sulla Repubblica di Salò?
Nacque la Repubblica di Salò, che
partì con due filoni culturali: il
rifiuto del presunto tradimento, la perdita dell’onore e il problema se fosse
possibile conciliare un regime autoritario con una maggiore libertà. Le risposte
furono inequivocabilmente diverse ed anche chi aveva iniziato a guardare con
simpatia la Repubblica dovette ricredersi, in pochissimi giorni nacque un forte
dissenso, di rivolta per il fanatismo che la Repubblica sociale portava con se
come strumento della pesante mano tedesca.
Personalmente come passò quei momenti così difficili?
Mio padre mi indusse a ragionare
su un elemento fondamentale: la
legittimità del governo che senza dubbio era con il Re e con Badoglio e la
fedeltà dunque al supremo interesse del nostro Paese che certo non era quello
di farsi massacrare per servire i tedeschi. Essendo del 1925 fui richiamato e
grazie ad un grande amico di mio padre prof. Valdoni, fui ricoverato d’urgenza
in ospedale dove rimasi per tre mesi finché fui inviato all’Ospedale Militare
in via San Gallo dove mi rinnovarono tutti i controlli per accertare una
malformazione al mio rene sinistro diagnosticata dal Prof. Valdoni e, malgrado
le incertezze sulla diagnosi, mi furono dati sei mesi di licenza. In quei
giorni commisi una grande leggerezza: una domenica pomeriggio uscii
dall’ospedale e fui catturato in una retata in piazza della Repubblica e solo
il decisivo intervento dell’ufficiale di picchetto dell’Ospedale, che neanche sapeva che ero lì ricoverato, e
privo di informazioni poiché era domenica, mi permise di ritornare
all’ospedale; gli ufficiali medici erano tutti chiaramente schierati contro la
repubblica sociale.
Quale fu il suo primo contatto con gli alleati?
Eravamo in campagna in quel
momento, in Chianti, in Provincia di Siena. I primi arrivati furono i francesi,
con le truppe marocchine che rimasero per qualche giorno e non fu una
convivenza tanto tranquilla, per fortuna furono presto ritirati per lo sbarco
nel sud della Francia, a loro subentrarono i neozelandesi, i canadesi, ed infine
la divisione italiana Legnano che stava preparandosi proprio in Chianti. Ebbi modo di osservare il comportamento dei
due contendenti, l’impressionante abbondanza di mezzi di ogni genere degli
alleati e la straordinaria capacità dei tedeschi di resistere con pochi uomini,
poco armati, con poca artiglieria, e senza
aviazione a rallentare l’avanzata
alleata.
Quale fu il suo ruolo in questa fase così delicata?
Seppi che a Firenze, non appena
liberata, si arruolavano giovani nel regio esercito per un reparto speciale di
ufficiali, rapidamente divenuti tali, che conoscevano l’inglese e il francese e
che era organizzato dal SIM, Servizio Informazioni Militari, mi presentai al
capitano Capponi, che dipendeva dal comandante del gruppo: Italian Intelligence
Liaison Officers, colonnello Esclapon e
fui destinato, dopo un breve corso, alle dipendenze di un Capitano dei
Granatieri a Perugia, al comando della XIX Brigata dell’ottava divisione
indiana, a questa divisione furono assegnati altri colleghi, ricordo Alessandro
Cortese de Bosis, Rufo Ruffo e Ugo Contini Bonacossi. Eravamo in tutti circa
cento, oggi ahimé siamo rimasti molto pochi. Essendo molto giovane e senza
esperienza l’approccio in un comando di brigata che aveva fatto la guerra
contro di noi fino dall’Etiopia, fu
psicologicamente difficile, ma dopo poco i rapporti diventarono cordialissimi,
amichevoli, e in particolare il generale comandante la brigata si dimostrò
particolarmente attento e, vorrei dire, protettivo. Con lui mantenni contatti
anche dopo la fine della guerra.
La mia prima esperienza al fronte
fu a Camaiore, nel momento in cui la nostra divisione fu mandata in quel
settore tirrenico, a tamponare una falla di una divisione americana che non
aveva resistito a un contrattacco tedesco. Io ebbi l’ordine di accompagnare un
reparto scozzese sulla cima di una montagna verso l’Appennino. Dopo pochi
giorni, respinto l’attacco tedesco, la nostra divisione fu mandata sul fronte
adriatico a prendere posizione sul Senio. In questo trasferimento complesso e
lungo, nella fermata a Cervia un Capitano addetto agli automezzi e che aveva
l’incarico di portare sempre con se il gatto del Generale non riuscì a impedire
la fuga del piccolo animale. Quando fummo stabiliti sul Senio, il Generale,
molto seccato del fatto, mandò tutti i giorni un ufficiale a cercare il gatto a
Cervia. L’ultimo giorno, prima di partire per una licenza in Inghilterra, dette
a me l’ordine di andare e a Cervia dove tutti ormai ridevano di questa vicenda.
Si trattava di un normale gatto soriano e proposi ai miei colleghi di trovarne
uno il più simile possibile, da qualche famiglia in Romagna. Riuscii
nell’intento e preparammo il nuovo ospite a stare alla mensa e a non
spaventarsi a vivere con noi. Rientrato il Generale dopo cena, ci intrattenne
sul suo soggiorno in Inghilterra con il gatto seduto sulle sue braccia. Noi
eravamo tutti soddisfatti pensando che non avesse capito ma alla fine disse:
“signori, sono le ore dieci, è tempo che vada a riposarmi, non è lo stesso
“pussy” ma grazie lo stesso”. In quell’epoca mi furono affidati dei partigiani
con il compito di sorvegliare alcuni ponti e strade, non era una cosa semplice,
la disciplina non era il loro forte e dipendevano dal comandante Bulow che poi
divenne l’onorevole Boldrini.
Accompagnai un colonnello della
brigata nella terra di nessuno per osservare, ove possibile, i movimenti delle
truppe tedesche, venimmo bersagliati da raffiche di mitragliatrici e poi da
colpi di mortaio.
In conclusione devo dire che con
gli inglesi i rapporti erano cordiali ma superficialmente l’idea di liberarsi
dal dominio inglese era molto forte e con noi ne parlavano molto apertamente.
Fra gli indiani vi era un maggiore Sik, un uomo tenuto in grande considerazione
e rispetto dagli inglesi , che sempre sedeva alla destra del generale, era
molto simpatico e molto amichevole con noi italiani ed elegantemente critico
del peso inglese sul loro paese.
I tedeschi in quella fase cercavano di avanzare?
Non erano in grado di farlo,
l’inverno sul Senio fu relativamente tranquillo, permise anche dei piccoli
scambi di sigarette e whisky fra i due nemici con qualche incidente quando i
Royals Fusiliers furono sostituiti dai
Gurkas. Ben presto con l’inizio della primavera gli alleati furono pronti
all’offensiva e fui invitato ad assistere all’illustrazione del piano di
attacco insieme ad Alessandro Cortese de Bosis, fu un gesto di grande cortesia.
Su un fronte di 11 Km furono concentrati 400 cannoni, con 1000 colpi per ogni
cannone. Ogni compagnia sparava senza fine colpi di mortaio e dal cielo le
fortezze volanti colpivano le difese tedesche. L’avanzata fu poi straripante, i
mezzi erano così numerosi che congestionando le strade era difficile andare
avanti. L’esercito tedesco era ormai in disfacimento e, superato il Po, gli alleati
raggiunsero Venezia rapidamente. Sul Senio a fianco della mia brigata ci fu,
per qualche tempo, la divisione Cremona con cui ebbi dei rapporti di
collegamento molto cordiali, anche loro
avevano dei problemi assai complessi per i reparti partigiani aggregati alla
divisione ma, di fatto, rimasti autonomi.
Logisticamente come erano organizzate le truppe?
Vi era una grande organizzazione,
grandi mezzi, tutto curato nei minimi particolari. Avevamo un problema
particolare per i reparti Sik che ogni sera avevano bisogno di trovare un luogo
dove ci fosse acqua sufficiente per adempiere
al loro dovere di lavarsi tutti i giorni integralmente i capelli. La
disciplina militare invece era straordinaria, la forma straordinariamente
severa accompagnata da un’auto ironia che si manifestava soprattutto nei loro
inni militari che in occasione di marce cantavano a squarciagola.
Il ruolo dei partigiani fu senza
dubbio significativo ma sarebbe improprio definirli un movimento monolitico. La
maggioranza era politicamente legata al movimento che si proponeva di preparare
un dopo guerra legato agli interessi e al dominio della Russia attraverso i
partiti comunisti. In realtà larga parte dei partigiani combatteva per
l’avvento di un regime di matrice sovietica ad essa legata, di qui la
condiscendenza verso Tito sulla frontiera Est, dall’altra parte i repubblichini
della Repubblica di Salò erano strumenti
e servi della politica tedesca, gli unici senza condizionamenti di questo
genere che servirono solo gli interessi dell’Italia fu il ricostituito regio
esercito che ebbe in Italia ed all’Estero più di ottantamila morti dopo l’8
settembre senza condizionamenti ideologici, col solo ideale della fedeltà al
servizio del Paese.
Si parla sempre di fuga a
Brindisi del Re e di Badoglio ma nessuno si domanda che cosa sarebbe successo
se non fossero andati a Brindisi creando le premesse per la rinascita
dell’esercito e dello Stato Italiano. Senza quella decisione l’Italia sarebbe
stata stritolata dalla dichiarata volontà del Fuhrer di far tabula rasa del
nostro paese e dalle decisioni unilaterali degli alleati.