Di Annibale Ubaldo Santarelli
Introduzione
Chiamiamo il nostro Inno come vogliamo: “Fratelli d’Italia”, Inno d’Italia, Canto Nazionale, Canto degli Italiani, ma non Inno di Mameli e basta, parchè esso è opera di Goffredo Mameli e di Michele Novaro: non di uno solo!
Il Canto degli Italiani in questi mesi sta godendo di una generale, grandissima popolarità. Un quotidiano nazionale il 3 maggio scorso titolava l’articolo di commento al Concertone tenuto il 1° Maggio a Roma “Tutti pazzi per l’inno” e spiegava “che non era mai successo che il nostro canto nazionale risuonasse per tre volte al concertone del Primo maggio intonato da centinaia di migliaia di giovani”.
Vivissima è ancora, e lo sarà per molto tempo, l’eco dell’esecuzione del nostro Inno da parte di Roberto Benigni al Festival di Sanremo seguito da milioni di spettatori: senza musica, in tono sommesso, immaginando di essere un giovane soldato italiano, che di notte, negli anni che portavano al marzo del 1861, era di guardia, attento a cogliere eventuali pericoli che potessero venire dal nemico straniero.
Memorabile è la performance del maestro Giovanni Allevi che con la sua interpretazione, alla guida dell’orchestra RAI, onora il nostro Inno.
Ho letto anche i risultati di un recente sondaggio promosso dalla rivista LiMes: alla domanda “Ci può dire in che misura ciascuno dei seguenti aspetti la rende orgoglioso di essere italiano” gli Italiani nella percentuale del 67% dichiarano di sentirsi molto orgogliosi dell’Inno e del Tricolore. Una percentuale da 4° posto nelle risposte date, subito dopo- bisogna dirlo: non ci smentiamo mai!!- della cucina e dei prodotti alimentari, che conquistano un 71%!
In questo bellissimo clima di entusiasmo nazionale vorrei fare una breve ricognizione (che in termini aulici si chiamerebbe esegesi) intorno e dentro l’Inno, quasi come ha fatto Benigni a Sanremo. Vorrei riuscire a guidare i lettori a conoscere e capire meglio il Canto degli Italiani, per apprezzarlo e amarlo come merita.
Intorno al Canto degli Italiani
Che cosa succedeva, sotto il profilo storico-culturale, nel 1847, quando il ventenne genovese G.Mameli scriveva i versi di “Fratelli d’Italia”, per i quali il venticinquenne M.Novaro, anche lui genovese, provvedeva a scrivere la musica?
Tra il 1815 e il 1861 (17 marzo il 1° Parlamento nazionale proclamò Vittorio Emanuele II re d’Italia “per grazia di Dio e volontà della Nazione”) il bel corpo dell’Italia- secondo l’espressione di R.Benigni- era dilaniato e saccheggiato: in sostanza era una congerie di staterelli sui quali esercitava la sua egemonia la potenza reazionaria dell’Austria. La foto di quell’Italia, soggiogata e disprezzata “per la viltà della sua sottomissione” (come sostiene Paul Ginsborg nel suo ultimo libro “Salviamo l’Italia”), è scattata da Giacomo Leopardi, il quale nel 1818 nell’ode “All’Italia” lamenta che la nostra Patria, già “le genti a vincer nata/ e nella fausta sorte e nella ria”, ora “di catene ha carche ambe le braccia” e “siede in terra negletta e sconsolata,/ nascondendo la faccia/ tra le ginocchia, e piange.” Quell’Italia a P. Ginsborg sembra raffigurata dalla statua realizzata agli inizi dell’’800 da Antonio Canova e posta accanto alla tomba di Vittorio Alfieri nella Basilica di Santa Croce a Firenze.
Era fatale che allora nascesse una ribellione a quel desolante declino, che fosse incontenibile la voglia di far risorgere l’Italia: è il nostro Risorgimento, cioè- precisa lo storico Andrea Giardina- “un processo di graduale riscoperta e di sempre più netta rivendicazione della propria identità nazionale”, con il sogno di una “rinascita culturale e politica”. “Bisognava- come osserva ancora P.Gisborg- restituire dignità alla nazione, liberare il patrio suolo dal dominio straniero e dare agli italiani la possibilità di decidere del proprio destino.”
In questo processo risorgimentale, “senza il quale- sottolinea lo storico Giovanni De Luna- saremmo restati un’espressione geografica, fuori dalla competizione internazionale: politica, militare e d economica”, contano insurrezioni, guerre e, soprattutto, l’elaborazione di progetti politici, la definizione, cioè, di come si voleva sistemare l’Italia.
Mameli è affascinato dal progetto di Giuseppe Mazzini il quale vuol fare dell’Italia una nazione libera, unita e repubblicana. Egli, in sintesi, auspica “un popolo capace e voglioso di levarsi, combattere e vincere”, perchè “quando la protesta è continua Dio e i popoli decretano la vittoria”: è la famosa formula mazziniana “Dio e popolo”. Mazzini, in più, sogna un “intellettuale militante”, che incarni l’altrettanto sua famosa formula “pensiero e azione”: un intellettuale, cioè, che si assuma il “dovere patente” di “agire continuamente per creare quel fatto, quella vittoria”.
In estrema sintesi, si potrebbe dire che nella prima metà dell’’800 la letteratura romantica italiana è essenzialmente militante. Nel 1816 Giovanni Berchet, in “Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo”, afferma che “mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte” e, perciò, esorta i letterati italiani: “Siate uomini e non cicale e i vostri paesani vi benediranno, e lo straniero ripiglierà modestia e parlerà di voi coll’antico rispetto.”
Mameli è un giovane poeta romantico-risorgimentale mazziniano, che esce dalla corte, si fa banditore di ideali patriottici, smette le vesti della cicala e indossa addirittura quelli del soldato: muore a 22 anni, nel 1849, alla difesa della Repubblica Romana, che era diventata il centro principale della rivoluzione democratica e il luogo d’incontro di esuli e cospiratori di tutta Italia.
Tra parentesi, una breve riflessione: davanti al testo del “Canto Nazionale” mettiamo da parte la saccente matita rossa e blu della critica letteraria, perché non stiamo leggendo una poesia concepita come il leopardiano L’infinito, e impariamo a leggervi la Storia che ci ha resi cittadini italiani.
Dentro il Canto degli Italiani
Il “Canto Nazionale” è scritto alla vigilia della 1° guerra d’indipendenza e quasi 100 anni dopo, esattamente il 12 ottobre del 1946 (cioè all’indomani del 2 giugno, in cui si era tenuto il referendum con la vittoria della Repubblica e c’era stata l’elezione dei componenti dell’Assemblea Costituente), è scelto dal Governo come inno nazionale italiano: vincendo la concorrenza dell’Inno di Garibaldi, scritto da Luigi Mercantini, assurge a Canto degli Italiani. In sostanza, “il testo di un mazziniano repubblicano diventa il Canto, l’Inno della nostra Repubblica”! (Michele D’Andrea)
Il componimento è composto da 5 strofe di 8 senari (rimati secondo lo schema abcbdeef) e da un ritornello di 3 senari (i primi 2 in rima baciata, il terzo rimato con il verso tronco finale di ogni strofa).
La strofa ha un ritmo incalzante, che, ottenuto con l’uso di versi parisillabi e con l’accento sempre sulle sedi seconda e quinta (con alcuni versi ipermetri), sprona i lettori all’azione e facilita la memorizzazione di ideali, qui risorgimentali di conio mazziniano.
Propongo di seguito la parafrasi delle singole strofe con un brevissimo commento.
1-Fratelli d’Italia,/ l’Italia s’è desta, / dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa./ Dov’è la vittoria?/ Le porga la chioma,/ chè schiava di Roma/ Iddio la creò.
Fratelli d’Italia, l’Italia s’è svegliata (è pronta a combattere contro lo straniero per conquistare la libertà) e ha indossato l’elmo di Publio Cornelio Scipione (che nel 202 a.C. a Zama sconfisse il generale cartaginese Annibale). Dov’è la vittoria? Questa, creata da Dio come schiava di Roma, porga i suoi capelli all’Italia per essere afferrata.
Mameli scopre subito alcuni punti chiave del suo progetto politico: la centralità dell’Italia, il legame di fratellanza tra gli Italiani e la loro determinazione a combattere con la certezza della vittoria. Mazziniano è il richiamo alla eroicità dell’antica Roma repubblicana.
Rit. Stringiamci a coorte,/ siam pronti alla morte;/ l’Italia chiamò.
Attenzione: Mameli non scrive “Stringiamoci a corte”, ma “Stringiamci a coorte”. Cioè: non vuol dire “Stringiamoci come sardine in un cortile o in una reggia”, ma stringiamoci in formazione da combattimento (infatti la coorte era la decima parte della legione romana), siamo pronti alla morte, l’Italia ci ha chiamati.
Il poeta-soldato esorta gli Italiani a serrare le fila come in una coorte romana e a essere pronti anche a morire per la Patria.
2-Noi siamo da secoli/ calpesti, derisi/ perché non siam Popolo,/ perché siam divisi:/ raccolgaci un’unica/ bandiera, una speme:/ di fonderci insieme/ già l’ora suonò.
Da secoli siamo calpestati e derisi, perché non siamo un popolo (cioè, un’unità etnica e politica legata da tradizioni storiche e religiose, da ordinamenti giuridici, dalla lingua), perché siamo divisi: ci raccolga una sola bandiera, una sola speranza: già è suonata l’ora di unirci, di fonderci in un unico organismo, di diventare un popolo.
Il poeta spiega che la triste, secolare condizione di sottomissione degli Italiani deriva dal fatto che essi non costituiscono un vero popolo e auspica che si fondano finalmente sotto una sola bandiera, una sola speranza.
3-Uniamoci, amiamoci,/ l’unione e l’amore/ rivelano ai popoli/ le vie del Signore;/ giuriamo far libero/ il suolo natio:/ uniti per Dio,/ chi vincer ci può?
Uniamoci, amiamoci, l’unione e l’amore indicano ai popoli le missioni assegnate dal Signore; giuriamo di liberare la terra dove siamo nati: se siamo uniti nel nome di Dio, chi ci può vincere?
La strofa è la sintesi poetica del motto mazziniano “Dio e popolo”: nel rifiuto della lotta di classe, la liberazione e la redenzione della Patria sono missione del popolo, strumento del progetto divino.
4-Dall’Alpi a Sicilia/ dovunque è Legnano,/ ogn’uom di Ferruccio/ ha il core, ha la mano,/ i bimbi d’Italia/ si chiaman Balilla,/ il suon d’ogni squilla/ i Vespri suonò.
Dalle Alpi alla Sicilia dovunque è Legnano (l’Italia si è trasformata in un campo di battaglia. A Legnano nel 1176 i Comuni della Lega lombarda sconfissero l’imperatore Federico Barbarossa), ogni uomo ha il coraggio e il valore di Francesco Ferrucci (morì nel 1530 mentre difendeva la Repubblica Fiorentina assediata dalle truppe dell’imperatore Carlo V), i bambini d’Italia si chiamano Balilla (così veniva chiamato Giovanni Battista Perasso, ragazzo genovese che nel 1746 diede il via alla rivolta della sua città, lanciando un sasso contro alcuni soldati austriaci che occupavano Genova), ogni campana ha suonato i Vespri Siciliani (ha dato il segnale della lotta, come accadde a Palermo il 30 marzo 1282, quando il suono delle campane chiamò la popolazione alla rivolta contro gli Angioni).
In questi 6 versi c’è la storia “di tutte le zone d’Italia sventrata dagli stranieri” (R.Benigni): ci sono i richiami all’Italia dei Comuni, alla repubblica fiorentina, alla rivolta genovese, alla insurrezione di Palermo contro gli Angioini. Una storia di stampo repubblicano e di rivolta contro lo straniero, quindi funzionale alla visione patriottica risorgimentale di matrice mazziniana.
5-Son giunchi che piegano/ le spade vendute:/ ah l’aquila d’Austria/ le penne ha perdute;/ il sangue d’Italia/ bevè, col Cosacco/ il sangue polacco:/ ma il cuor le bruciò.
Le spade dei mercenari sono come giunchi che si piegano: l’aquila, che campeggia sullo stemma dell’Austria, ha perso le penne; ha bevuto il sangue degli Italiani, ha bevuto il sangue dei Polacchi insieme ai Russi (nel 1772 la Polonia fu divisa tra Austria, Prussia e Russia): ma quel sangue le ha bruciato il cuore.
Nella prima stesura la censura eliminò questa ultima strofa perché i versi erano giudicati una provocazione troppo forte contro l’Austria. Le armi mercenarie degli oppressori si piegano; gli stemmi degli oppressori si deturpano, i loro cuori bruciano davanti alle rivendicazioni dei popoli oppressi, che versano il sangue cercando la libertà.
3-Partitura musicale del Canto degli Italiani
Il nostro Inno di solito, purtroppo, è ricordato con il solo nome del “paroliere”, mentre l’autore della musica è trascurato, forse perché la biografia di questi non è affascinante ed emotivamente coinvolgente come quella del poeta-soldato Mameli che muore combattendo.
Novaro era musicista di professione; era compositore e insegnante. Egli è ignorato, eppure sono state le note di Novaro “a far diventare una poesia di Mameli l’Inno di Mameli, a trasformare uno dei tanti testi patriottici nel simbolo della nostra Repubblica”. Ho sentito dire queste parole dall’esperto Michele D’Andrea durante una sua conferenza tenuta nel 2006 in Ancona. Riporto qui alcuni spunti del suo intervento di allora per capire che cosa caratterizza la partitura musicale del nostro Inno.
D’Andrea si domanda perché nella versione musicale del nostro Inno ogni strofa con il ritornello è ripetuta 2 volte e risponde seguendo la confessione dello stesso Novaro, riferita da Vittorio Bersezio in “I miei tempi”, una raccolta di memorie pubblicata a puntate sulla “Gazzetta del Popolo” nel 1899.
Novaro, accingendosi a comporre la musica per il testo di Mameli, immagina una scena maestosa in cui Pio IX (nel 1847 oggetto dell’entusiasmo popolare per le sue riforme e le sue concessioni: convocazione della Consulta dello Stato, istituzione della Guardia civica e attenuazione della censura sulla stampa) “parla e un intero popolo risponde”. Così nello spartito di Novaro si realizza un dialogo che si concretizza nella suddetta ripetizione. E’ come se si alternassero 2 voci: la prima, quella del Papa, “grave, solenne, lenta annunzia ai popoli la buona novella: Italia essersi desta, riprendere la gloriosa sua strada, doversi fare a lei schiava la vittoria”. E qui- nota D’Andrea- “la musica scorre con un andamento potente e solenne, perché immensa è la portata ideale del messaggio”. E non a caso nella partitura autografa di Novaro si legge l’indicazione “forte con molta energia”. E questa è la prima esecuzione della strofa, che dunque deve essere fatta in modo solenne, energico.
La seconda voce è quella del popolo italiano che, confuso e dubbioso all’annuncio, acquista a poco a poco sicurezza e consapevolezza, dopo essersi persuaso che “libertà significa anche mettere i gioco la propria vita”. Questo travaglio, questa maturazione psicologica si riversa nella partitura: si inizia, nella ripetizione della strofa e nella prima esecuzione del ritornello, con un “pianissimo e molto concitato” per passare, nella ripetizione del ritornello, a un “crescendo e accelerando fino alla fine” con il grido di quel “Sì” che, aggiungendo una sillaba al verso di Mameli, “suggella il giuramento finale”.
C’è il rammarico che spesso nelle esecuzioni di oggi sono tradite la sapienza compositiva e la tensione psicologico-narrativa che sostanzia la partitura originaria di Novaro. Comunque, “non abbiamo bisogno di un nuovo Inno- conclude D’Andrea-: basterebbe suonarlo come lo immaginò il suo autore.”
Conclusione
Qualcuno vorrebbe sostituire “Fratelli d’Italia” con il verdiano “Va’, pensiero”. Al riguardo mi limito a citare le parole del maestro Riccardo Muti: “Va’, pensiero è un canto di perdenti, è una lamentazione e una preghiera. Non ha il piglio e il vigore particolari che possiede “Fratelli d’Italia”. Teniamoci l’Inno di Mameli e che Dio ce lo conservi.”
Si può ricordare anche la scelta del maestro Ennio Morricone, il quale ha composto Elegia per l’Italia, in cui realizza l’intreccio tra il coro verdiano e il Canto degli Italiani proprio per contrastare il tentativo di qualsiasi “appropriazione indebita del “Va’, pensiero” e per dare a questo la sua giusta dimensione storica di canto legato all’unità d’Italia”.
Dio ci conservi a lungo il nostro Canto e la voglia di cantarlo con il giusto orgoglio di sentirci Italiani. Nonostante tutto e in qualunque regione ci troviamo!