Siamo infetti “dai semi del fascismo”, “elementi pericolosi” si sono impossessati del governo. Una presa “ostile” e “questo è solo l’inizio”. Ehud Barak, ex primo ministro, già ministro della difesa e capo del partito laburista israeliano sino al 2013, è stato durissimo.
Dopo settimane di indiscrezioni che sembravano rendere imminente l’entrata nel governo della coalizione Unione sionista capeggiata dai laburisti, il primo ministro Benjamin Netanyahu, Bibi, ha sorpreso tutti alleandosi con Avigdor Lieberman, noto politico della destra nazionalista e ora nuovo ministro della difesa israeliana.
Dietro lo strappo si cela il timore Con il sostengo della piccola fazione politica capeggiata da Lieberman, la coalizione governativa guidata da Netanyahu, che si reggeva sul voto di un singolo ministro, gode ora di una maggioranza di 66 su 120 seggi in parlamento (uno dei 6 ministri del partito di Lieberman ha rifiutato l’accordo con il Likud di Bibi.) Ciò rende probabile che sarà la destra, e solo la destra, a guidare il Paese sino alle elezioni del 2019, quando Netanyahu cercherà di conquistare il suo quinto mandato.
Già ministro degli esteri nel precedente governo di Netanyahu, dal 2015 Lieberman è passato all’opposizione, divenendo il suo principale avversario politico e criticando ripetutamente l’operato del governo in tema di sicurezza, da sempre perno del consenso popolare in Netanyahu. L’alleanza - non inedita - con Lieberman è quindi dettata da un crudo calcolo politico. L’obiettivo di Bibi è quello di consolidare il suo ruolo di leader indiscusso della destra in Israele, preparando il terreno per il 2019.
Sebbene Netanyahu sia riuscito ad ampliare la sua maggioranza governativa, il futuro politico del primo ministro rimane oggi più incerto che mai. Nuove forze politiche e generazionali nel centro-destra e anche nel vecchio partito dei laburisti israeliani sono in fermento. Non è da escludere l’emergere di nuovi partiti e coalizioni politiche, dentro le quali potrebbero defluire molti ministri del governo e dell’opposizione, creando quindi un'alternativa solida al Likud di Netanyahu nel centro-destra, insieme ad una nuova costellazione di partiti di centro e centro-sinistra.
Esercito israeliano ed estremismo Noto soprattutto per le controverse dichiarazioni sulla necessità di ‘trasferire’ le popolazioni arabo-israeliane, Lieberman guiderà ora il più ambito e spinoso ministero israeliano. Non sarà compito facile. Proprio dall’esercito sono giunte dure critiche e moniti d’allarme. Il 4 maggio, giorno della memoria per la Shoà, il vice capo di stato maggiore Yair Golan, ha parlato di “tendenze di rivolta” nella società israeliana.
Commento, il suo, che è solo l’ultimo di una lunga serie di dichiarazioni provenienti dagli alti ranghi dell’establishment israeliano, preoccupato per il crescere dell’estremismo e dell’intolleranza in Israele, evidenziato anche dalla brutta vicenda di un soldato israeliano ripreso mentre colpisce con un colpo di fucile al volto un attentatore palestinese ferito a terra.
L’evento è stato fonte di ampi dibattiti in Israele. Il soldato è ora indagato per omicidio colposo, ma per molti, specie il ministro della difesa uscente Moshe Ya'alon e le più alte cariche dell'esercito, non sono arrivate prese di posizione abbastanza forti dal governo.
Mediazioni esterne Alle prese con un’ondata di violenze e accoltellamenti, crescenti scandali politici e un coro incessante di critiche internazionali, in molti pensavano che con una giusta dose di incentivi Netanyahu avrebbe optato per una de-escalation.
Un governo di unità nazionale Likud-Unione sionista avrebbe dato una maggiore copertura internazionale, migliorando i rapporti con Stati Uniti e Europa, ma anche con l’Egitto e le monarchie del Golfo. Attraverso un’unione delle forze di centro, i partiti più estremi del governo - in particolare quello di Naftali Bennett (8 seggi), ma ora anche quello di Lieberman (6 seggi) - avrebbero perso molto peso politico, aumentando la libertà di manovra del governo.
Questa a grandi linee era la strategia che da mesi cercava di mettere in atto Tony Blair, ex primo ministro britannico e fino al 2015 capo del Quartetto per il Medio Oriente, composto dagli Stati Uniti, Russia, Onu e Ue. Dopo una lunga serie di contatti con i leader della coalizione Unione sionista (24 seggi) e del Likud (30 seggi), tutto sembrava pronto. In cambio dell’entrata nel governo, i leader dell'Unione avrebbero ottenuto il ministero degli esteri (dal 2013 nelle mani di Netanyahu), il dossier dei negoziati con i palestinesi e un impegno a limitare la costruzione di insediamenti nei territori occupati.
Netanyahu ha però preferito un passaggio intermedio, optando per l’opzione Lieberman che coalizza tutti i partiti di destra all’interno del governo. Questo rafforza nettamente la sua posizione anche nel contesto dei negoziati, ancora in corso, per un accordo di unità nazionale con i leader dell'Unione sionista.
Anche se molti ci sperano, sono altrettanti coloro che pensano che l’ultima mossa del Likud mostri che il vero obiettivo di Netanyahu sia semplicemente quello di prendere tempo, trarre profitto da un miglioramento dei rapporti con la comunità internazionale ed evitare di avanzare qualsiasi proposta concreta di negoziati con i palestinesi.
È per questa ragione che l'Unione sionista insiste per mettere nero su bianco una serie di impegni che suggellino l’alleanza con Bibi, superando anche l’impasse che si era creata nei giorni antecedenti all’entrata di Lieberman nel governo.
Non è chiaro se la deriva a destra della politica israeliana sia solo un passaggio tattico prima di una virata verso il centro. Non vi sono dubbi che in molte capitali mondiali, così come al recente incontro internazionale di Parigi, la speranza sia proprio questa: che Netanyahu scelga il buonsenso. La biografia personale e politica del leader israeliano riduce però l’ottimismo.
Andrea Dessì è dottorando in relazioni internazionali alla LSE di Londra e ricercatore IAI nell’area Mediterraneo e Medioriente.
|