Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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venerdì 11 maggio 2012

Convegno Organizzato dalla Sezione di Matino 17 marzo 2012. Relazione di Giorgio Prinzi

In esito allo spazio disponibile sulla Rivista"Il Secondo Risorgimento d'Italia", la Direzione ritiene opportuno presentare lavori e note sul blog onde evitare la non pubblicazione. Per il Convegno di Matino del 17 marzo 2012 saranno pubblicate le relazioni e gli interventi, mentre sulla rivtsà apparirà la relazione illustrativa. Via via che le relazioni saranno pronte si pubblicheranno. Si inizia con la Relazione di Giorgo Prinzi




Relazione di Giorgio Prinzi
 al Convegno di Gallipoli del 17 marzo 2012.

Non sono uno storico, quindi affronterò l’argomento assegnatomi non da storico, ma da curioso di storia nel senso di chi cerca di capire il passato per meglio comprendere il presente. Sotto certi aspetti è il concetto classico di “storia maestra di vita”.

La prima cosa che salta in evidenza se ci si accosta all’argomento del Secondo Risorgimento d’Italia, come lo definiamo noi dell’Ancfargl, è il fatto che si ha l’impressione che la Resistenza, dizione più comunemente usata soprattutto per indicare la partecipazione popolare in armi, e la Guerra di Liberazione, la dizione propria degli storici di eventi militari, siano un fenomeno prettamente localizzato al Nord; questo in particolare se si usa la dizione Resistenza, meno se si fa riferimento alla dizione di Guerra di Liberazione, che però è tipica degli studiosi non dell’approccio popolare.

Perché questo? Forse perché, citando von Clausewitz in senso molto lato la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, letteralmente con la completa dizione «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi», quindi, non essendo ancora rinata in Italia alla data dell’armistizio dell’8 settembre 1943 la politica, la guerra come serie di eventi conflittuali sul campo e non come proiezione della politica e della sua conflittualità con altri mezzi non assurge, senza la politica e senza promanare da essa, neppure al livello di memoria collettiva, tanto meno di ricordo storico.

La svolta politica che rende gli eventi bellici una sua continuazione con altri mezzi si avrà infatti solo dopo il 4 giugno del 1944, quando con l’ingresso in Roma delle truppe della Nazioni Unite, questa era la denominazione della coalizione contrapposta all’Asse da cui tra origine e continuità per un nuovo ordine mondiale l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la politica, con il trapasso dei poteri dal Governo di Brindisi al Comitato di Liberazione Nazionale, torna a riproporsi nella vita nazionale a divenire terreno di confronto e di scontro, a porsi come visione ideologica sul campo, in particolare nell’ottica delle formazioni non regolari, di quella resistenza che finirà nel dopo guerra per venire strumentalizzata e quasi esclusivamente letta in chiave radicalizzata e di parte.

Ripeto, non sono uno storico e pertanto non intendo fare una trattazione puntuale ed esauriente sotto il profilo rigorosamente storico. Mi limito a citare una figura emblematica, cara alla realtà pugliese, quella del generale Nicola Bellomo, che riassumo per quanti non pugliesi ci leggeranno negli Atti.

Il generale Bellomo era stato richiamato in servizio dalla riserva nel febbraio del 1941 e assegnato alla difesa territoriale di Bari. Dopo il 25 luglio del 1943 ricevette l’incarico di fare transitare nei quadri dell’esercito gli appartenenti alla milizia. Questo era il suo compito alla data dell’armistizio.

La mattina del 9 settembre venne casualmente a sapere che i tedeschi erano in procinto di fare terra bruciata prima di ritirarsi, minando il porto di Bari per distruggerne le infrastrutture. Bellomo, di iniziativa, come si dice in gergo militare, raccolse alcuni nuclei di militari italiani presso la caserma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Guardia di Finanza A questi si affiancarono dei genieri del 9º Reggimento guidati dal sottotenente Michele Chicchi. Con queste forze, una sessantina di uomini, attaccò i guastatori tedeschi (circa duecento) che avevano già preso posizione nei punti chiave, costringendoli alla ritirata e infine alla resa. Bellomo rimase ferito; ritiratisi i tedeschi, gli inglesi poterono successivamente sbarcare a Bari in completa sicurezza, usufruendo di infrastrutture portuali pienamente efficienti

Di iniziativa agì a Roma nel settembre 1943, in quella che da parte tedesca viene definita la battaglia per Roma e da parte italiana la difesa di Roma, anche il generale Gioacchino Solinas, Comandante della Divisione Granatieri di Sardegna, che aveva appreso dell’armistizio via radio mentre in casa di amici stava sorbendo il forse più amaro caffè della sua vita, sempre che non si trattasse di un surrogato. Come a Bari con Bellomo, fu a Roma la determinazione di Solinas a consentire con truppe messe insieme per l’emergenza la riconquista delle posizioni strategiche, che avrebbero consentito di difendere la Capitale e che in seguito vennero fatte abbandonare d’ordine per consentire alle truppe tedesche di affluire al Sud e contrastare lo sbarco in atto a Salerno, anche se queste poi non giungeranno in tempo utile, proprio per l’ostacolo frapposto dall’iniziativa di Solinas che si portò dietro il dispositivo schierato intorno Roma e che in base agli ordini lasciati in appunto da Roatta prima di incamminarsi con il corteo reale verso Chieti e diramati solo in mattinata avrebbe dovuto rischierarsi sul crinale dei Monti Tiburtini per contrastare una presunta offensiva proveniente da sbarchi anglo americani alle foci del Tevere. Una tesi sviluppata compiutamente in “Salvare il salvabile”, il volume da me firmato insieme a Massimo Coltrinari, al quale richiamo per approfondimenti.

Perché questo inconsueto accostamento? Perché le decisioni prese indipendentemente e senza correlazione alcuna, se non quella del contingente temporale, da Bellomo e da Solinas erano esclusivamente dettate da ragioni di comportamento militare, non erano decisioni scaturite da posizioni o considerazioni politiche, quindi loro continuazione e messa in atto con le armi. Solo in seguito verranno lette e giudicate in chiave politica, per giunta avulsa dal contesto in cui erano scaturite.

Il generale Solinas aderirà in seguito alla Repubblica Sociale Italiana, schierandosi in tal modo in campo opposto a quello della cultura che si è appropriata dei fatti d’arme dirette conseguenze della sua iniziativa di soldato e ha risolto l’apparente contraddizione ignorando il dopo, la scelta di campo del generale Solinas non certo inquadrabile in essa.

Andò peggio a Bellomo quando la politica riprese il sopravvento e tentò di riappropriarsi con effetto retroattivo della sua continuazione con altri mezzi anche se nel momento contingente essa era latitante o comunque del tutto ininfluente sui fatti relativi. Per ragioni strategiche i tedeschi decisero di attestarsi più a nord e si ritirarono dalle Puglie e dalle regioni più meridionali della penisola. Se la tesi sostenuta in “Salvare il salvabile” ha, come siamo convinti, basi fondate, la politica che si riappropriava in senso retroattivo della sua continuazione con altri mezzi non poteva non vedere in Bellomo altro che un traditore, anche se la politica, secondo la tesi sostenuta in “Salvare il salvabile” era rimasta in quell’occasione prigioniera di un ingannevole gioco, che era fallito provocando la tragedia dell’8 Settembre,

Il generale Bellomo verrà fucilato dagli inglesi dopo un processo, che da adito a moltissimi dubbi, ad esempio sull’attendibilità delle testimonianze italiane decisive dopo una totale “ripuntualizzazione”; l’argomento è stato peraltro in passato già affrontato in chiave critica nell’ambito di convegni dell’Ancfargl. Forse potrà e dovrà solo venire ripreso più approfonditamente e riletto senza le originali distorsioni.

Allo stesso modo si dovranno rileggere gli avvenimenti della Battaglia per Roma, inquadrandola peraltro nel suo complesso e non solo nelle fasi finali del 10 settembre 1943 a Porta San Paolo. La politica che trasforma la guerra in una sua continuazione con un effetto retroattivo si trasformerebbe allora in uno dei elementi di rilettura e di ricostruzione storica, non più di sua disinformazione. Nel nostro piccolo, lo abbiamo fatto con “Salvare il salvabile”, l’amico Coltrinari che al contrario di me è realmente uno storico si è per certi versi specializzato in questo settore della rilettura di pagine di storia acquisite con deformazioni dovute a circostanze contingenti, mai poi più rimosse.

Ma torniamo al tema generale. La Puglia, il Salento, ha visto la resistenza in armi sin dal primo momento. Il nostro Presidente Nazionale, il generale senatore Luigi Poli, allora giovanissimo subalterno, ha avuto il suo battesimo del fuoco proprio qui in Puglia, dove era giunto per imbarcarsi per i Balcani. Il sopraggiungere dell’armistizio lo vide protagonista di una scelta di campo, in un primo tempo dettata più dalle regole comportamentali di soldato, poi con il tempo divenuta sempre più consapevole e profonda. Ma anche noi dell’Ancfargl poniamo l’accento sulla battaglia di Montelungo e non ricordiamo con la stessa enfasi, ad esempio data agli avvenimenti concomitanti di Porta San Paolo a Roma, gli omologhi eventi e fatti d’arme avvenuti qui nelle Puglie. Per questi motivi le Vostre iniziative, questi convegni, i libri che cominciano a venire scritti sulla transizione armistiziale in Puglia assumono un significato particolare.

La ritirata tedesca renderà le Puglie retrovie sotto l’aspetto delle operazioni militari, ma la renderanno prima linea sotto quello della politica, di quella stessa politica che in altre parti d’Italia, trasformandosi con l’avanzare del fronte, continuava e si concretizzava con mezzi diversi.

Il Governo di Brindisi non venne mai riconosciuto dalla controparte della firma armistiziale, ma venne riconosciuto dall’Unione Sovietica di Stalin nell’ottica di quel tradizionale realismo opportunista che cercava di ottenere trattando su più tavoli quegli spazi che si vedeva precluso da un armistizio che era divenuto solo e soltanto una pesantissima resa senza condizioni. L’arrivo in Italia di Ercole Ercoli, pseudonimo di Palmiro Togliatti, si inquadra in queste poco note vicende, che prevedevano di fatto la collocazione dell’Italia nella sfera di influenza sovietica con concessione alla medesima di importanti basi militari sullo stesso territorio pugliese in cui furono di stanza reparti militari russi. La monarchia si illudeva di salvare se stessa cercando intese ad Est attraverso un nuovo regime totalitario; il possibilismo istituzionale di Togliatti, rientrato con regolare salvacondotto, è frutto di questo poco noto accordo, poi definitivamente superato e compromesso dalle spartizioni di Yalta.

Alcuni aspetti della guerra combattuta non con le armi sono poco noti e sono da me stati raccolti attraverso testimonianze dirette, quali quella dell’ingegner Antonio Ambra, protagonista di quegli eventi e testimone diretto.

Quelli dell'Esercito del Sud, ricostituito proprio qui in Puglia divenuta centro di addestramento e base di partenza, vengono e sono ancora oggi definiti con l’epiteto di "badogliani". È semmai vero il contrario, secondo quanto mi ha riferito l’ingegner Ambra, le cui dichiarazioni ho riportato in un articolo pubblicato su Agenzia Radicale sabato 9 maggio 2009.

La tesi prevalente tra i politici di allora che operavano nell’ambito dei “partiti antifascisti” era quello di « la guerra lasciatela agli americani ». Noto e citatissimo è il passo di un articolo a firma di Antonio Maccanico, futuro Segretario Generale alla Presidenza della Repubblica ai tempi del Presidente Sandro Pertini, pubblicato su "Irpinia Libera", organo del Comitato di Liberazione Nazionale, sul n° 6 del 4 dicembre 1943, pochi giorni prima del battesimo del fuoco del rifondato Esercito a Montelungo. Scriveva Maccanico «Si sappia una volta per sempre, noi non ci lasceremo cucire patacche, né ci faremo irreggimentare in compagnie di ventura: sappiamo l'importanza che avrebbe per gli sfruttatori una cieca frenesia bellica e le conseguenze di una falsa union sacrée, perciò non ci prestiamo al gioco»

Come puntualizzato qualche riga sopra e che per enfasi ribadisco, il Governo di Brindisi venne riconosciuto solo dall'ex Unione Sovietica con un accordo che prefigurava la collocazione dell'Italia nella sua sfera di influenza. Ercole Ercoli, alias Palmiro Togliatti, ebbe il lasciapassare per il suo rientro in Italia proprio a seguito di questo accordo e del probabile illudersi della monarchia e del governo da essa ispirato di potere perpetuare l'istituzione con l'appoggio di un nuovo totalitarismo, quello comunista in luogo del precedente fascista.

Il primo Raggruppamento Motorizzato, quello che combatté a Montelungo e che era stato costituito il 27 settembre 1943 a San Pietro in Vernotico (LE), era inviso al governo di Brindisi e allo speculare e concorrente "contro governo" del Comitato dei Partiti antifascisti, divenuto Comitato di Liberazione Nazionale. Le ragioni erano differenti, ma lo sforzo sinergico. Il Governo Badoglio aveva dei complessi nei confronti dell’ex alleato tedesco, non voleva caratterizzarsi troppo sul piano dell’impegno militare in un conflitto che in quel frangente aveva le caratteristiche di guerra civile. L’Italia era divisa in due, non solo geograficamente. In armi si contrapponevano italiani in uniforme inglese ed italiani in uniforme tedesca. A Montelungo, venendo da Cassino, c’è una stele che ricorda il capitano/maggiore a seconda dell’ottica di schieramento (maggiore per la Repubblica Sociale Italiana, grado non riconosciuto dalla controparte) Rino Cozzarini eroicamente caduto alla testa di un battaglione di italiani che avevano fatto una scelta di campo diversa e combattevano con l’uniforme tedesca. Con un gesto di pietas e di riappacificazione nazionale, sconosciuto a che ancor oggi vive quegli avvenimenti con emotività ideologica, il nostro Presidente Nazionale generale Poli, prima di annualmente recarsi a ricordare la memoria dei commilitoni caduti inquadrati nei reparti del rifondato Esercito nazionale, si ferma in raccoglimento e depone un mazzo di fiori nel punto in cui cadde Cozzarini, segnato da quella stele.

Perché parlando dell’accordo tra governo di Brindisi e Mosca abbiamo parlato di illusione sulla continuità istituzionale? Perché il partito comunista dell’epoca aveva elaborato una strategia che fosse strumentale alla definitiva sua presa del potere a guerra finita. Il piano, definito in codice “Paino E”, prevedeva che il Congresso del Comitato di Liberazione Nazionale, svoltosi al Teatro Piccinni di Bari il 28 e 29 gennaio 1944, avesse come culmine la proclamazione di Togliatti, che per questo non vi prendeva parte, come Capo provvisorio del futuro governo nazionale,

L’intelligence statunitense venne a conoscenza del piano, che fu fatto fallire dall'intervento dell'ingegnere Antonio Ambra, allora volontario del Raggruppamento Motorizzato, che benché ferito e ricoverato in ospedale venne dimesso e portato a Bari a bordo di un gippone statunitense proprio per contrastarne la messa in atto. In realtà ad Ambra, che si presentò all’ingresso del Teatro Piccinni in uniforme, venne impedito di entrare; per aggirare l’ostacolo Ambra si recò a denunziare la cosa ad una concomitante riunione di area cattolica e liberale che si svolgeva al Teatro Petruzzelli. L’effetto della pubblica denunzia fu devastante e fece fallire il piano a causa del timore che colse i protagonisti che si erano sentiti spiati e scoperti.

Tornato al Piccinni, Ambra ebbe un violento scontro verbale con i partecipanti che uscivano e venne da alcuni di costoro selvaggiamente aggredito. Per la “rissa” subì un formale processo al rientro al reparto, proprio per il fatto che aveva agito in uniforme, ma ovviamente venne scagionato da ogni addebito con la motivazione che aveva agito per l'onore del Reparto e dei suoi commilitoni.

Questa chiave di lettura è stata confermata da analoghe dichiarazioni di Giorgio Spini, che oltre essere uno storico, come aderente al Partito d’Azione, partecipò di persona a quella riunione La sua testimonianza è, inoltre, particolarmente attendibile in quanto, dopo aver attraversato il fronte che divideva la Penisola ed essere giunto a Bari, entrò a far parte dell’Ufficio Stampa del Comando supremo badogliano, da cui venne poi, allontanato per le idee sovversive. Entrò quindi a far parte del «Pwb Combat Team», un’unità incaricata di occuparsi d’informazione e di controinformazione.

Ad Ambra promisero che gliela avrebbero fatta pagare. Mentre era impegnato in prima linea come capo della pattuglia osservazione e comunicazione venne a sapere della sua incriminazione, tra l'altro formalizzata a distanza di quattro mesi dal presunto evento, per diserzione in quanto si era arruolato volontario nel Raggruppamento Motorizzato pur essendo effettivo a un battaglione universitario di allievi ufficiali, chiamati per punizione alla armi per avere nel dicembre del 1940 manifestato, a Roma sotto la guida di Ambra, contro la politica del regime fascista e l'entrata in guerra a fianco dei tedeschi.

Per evitare di doverlo consegnare a quelle che formalmente erano comunque le superiori autorità, il Comando del Raggruppamento mise Ambra in licenza straordinaria per sei mesi, consentendogli di trovare asilo presso la Divisione statunitense Texas di cui godeva stima e fiducia, e presso la quale continuerà a combattere per tutto il resto della guerra, nonostante nel frattempo, pur essendo impegnato in prima linea, venisse condannato a morte per diserzione. La paradossale vicenda venne definitivamente “archiviata” solo molti anni dopo la fine della guerra.

Non fu un caso isolato, perché il battaglione universitario di allievi ufficiali "Marostica" venne in massa processato per ammutinamento in quanto aveva collettivamente protestato contro lo scioglimento del Primo Raggruppamento Motorizzato. I suoi membri vennero rinchiusi nella fortezza di Sant'Elmo, a Napoli, e liberati dopo prese di posizioni politiche inspirate dallo stesso Ambra a guerra finita da tempo.

Secondo quanto riferitomi dallo stesso Ambra furono questi i reali motivi che portarono allo scioglimento del 1° Raggruppamento Motorizzato e la sua immediata ricostituzione, per motivi speculari opposti da parte statunitense, in Corpo Italiano di Liberazione, il CIL.

Di queste testimonianza da me raccolta direttamente dall’ingegner Ambra si trova traccia anche in suo articolo pubblicato su “il Secondo Risorgimento d’Italia”, che ho letto in citazione senza riferimento al numero di fascicolo ed alla data di pubblicazione, «I soldati pensarono di farsi giustizia da soli.- Io che da acceso repubblicano e portavoce del partito popolare avevo capeggiato i moti studenteschi dell'Università di Roma contro il fascismo nel 40 organizzai coi bersaglieri del LI una spedizione punitiva, guidata dal comandante dell'11° artiglieria, aiutante di campo del re, contro i denigratori asserragliati nella tipografia Pergola.. prendemmo a calci nel sedere gli studenti imboscati e qualche tipografo e Antonio Maccanico».

Come si vede la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, anche con le denominazioni e con le parole, con la propaganda e con le azioni di guerra psicologica.

Ed è ancora la politica le cui vicende maturano a seguito degli sviluppi militari sul campo che si riappropria con effetto retroattivo di essi come sua continuazione in senso clauseviziano. L’entrata in Roma il 4 giugno 1944, che è un fatto militare, ha effetti politici. Il riferimento istituzionale, perché non si può parlare di responsabilità di governo nel significato sostanziale del termine, passa dal Governo di Brindisi, al Comitato di Liberazione Nazionale con sede a Roma. È una transizione di un potere virtuale, ma di grande impatto politico, perché informa la politica nazionale italiana, almeno quella parvenza che si tentava di ricostruire dopo un ventennio di regime, al compromesso che caratterizzerà l’Italia del dopoguerra anche dopo l’abbattimento del Muro di Berlino e, forse, sino ancora ad oggi.

Come abbiamo di recente in maniera documentale appreso dall’apertura degli archivi dell’ex Unione Sovietica, anche se la questione è agli Atti del Convegno Ancfargl di Bari del 28, 29, 30 aprile del 1994, pagina 217 e seguenti nella Relazione di Nicola Oddati “1944: dal ripristino delle relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica alla svolta di Salerno”, Stalin intenzionato a trovare un compromesso tra partiti antifascisti, monarchia e Governo Badoglio, che consentisse la formazione di un governo di unità nazionale, decise di temporaneamente accantonare la questione istituzionale. inviando a tal fine in Italia il diplomatico Vichinsky, tristemente noto per i processi di Mosca, che propose all'ambasciatore Renato Prunas una collaborazione tra Stato Italiano e Partito Comunista Italiano. L'obiettivo primario di Stalin non era quello di portare sotto influenza sovietica l'Italia, bensì rendere legale il partito, anche se l’accordo prevedeva la concessioni di basi militari all’Urss in territorio italiano a guerra finita.

Questa linea politica, che caratterizzerà l’azione del Partito Comunista Italiano sino alla scelta istituzionale, era stata in precedenza anticipata con due sue interviste rilasciate al Cairo e ad Algeri, ma venne resa nota per la prima volta in Italia, il 31 marzo del 1944 nel corso della riunione dei quadri dirigenti del 1° Consiglio nazionale delle regioni liberate, convenuti a Napoli, dove Togliatti era sbarcato giorno 27 marzo.

Essa venne meglio precisata nei dettagli nella risoluzione conclusiva dei lavori del Consiglio nazionale del partito comunista e nell’intervista che lo stesso Togliatti rilasciata all’Unità il successivo 2 aprile. In quella circostanza venne deciso di rinviare la soluzione delle questioni istituzionali alle decisioni di un’Assemblea nazionale costituente che si sarebbe dovuta convocare subito dopo la fine del conflitto; per l’immediato, si proponeva, di creare un nuovo governo provvisorio, rappresentativo di tutti i partiti antifascisti, che fosse in grado di creare un esercito in grado di combattere risolutamente contro i tedeschi ed i fascisti.

Dei lavori di quel Consiglio nazionale non esiste un verbale degli interventi, tuttavia, nonostante Togliatti avesse tracciato le linee di un radicale capovolgimento della strategia rispetto agli obiettivi perseguiti nei mesi precedenti ed alle aspettative dei propri militanti, non risulta vi siano state voci di opposizione.

Fece seguito la costituzione di un secondo Governo Badoglio, che si insediò a Salerno, dove rimase in “carica” sino alla conquista di Roma il 4 giugno 1944. Per queste circostanze questi eventi sono noti ed indicati dagli storici come la svolta di Salerno.

Altro momento fondamentale della politica che rende come sua continuazione retroattiva gli avvenimenti militari sul campo di battaglia è il primo discorso pubblico in Roma liberata che Alcide De Gasperi tenne al Teatro Brancaccio il 23 luglio 1944. Il testo integrale è consultabile sulla pagina web http://www.democraticicristiani.it/documenti/adg_01.html. Alcide De Gasperi, in quel momento storico parlavo in qualità di “ministro” del “governo” guidato da Ivanoe Bonomi, che era espressione del Comitato di Liberazione Nazionale

Il discorso viene così sintetizzato nella citata pagina web: «Si parla della guerra che continua da una parte e della ricostruzione che deve essere già avviata dall'altra, si parla degli Alleati, dell'armistizio e dei prigionieri. Molto delicata è la questione istituzionale (repubblica o monarchia?), e De Gasperi fa prevalere le ragioni della responsabilità di un momento critico come quello del momento sulla necessità di una scelta immediata con la guerra ancora in atto. Molto delicato (e prudente) è anche il rapporto con i comunisti italiani e l'Unione Sovietica di Stalin, i primi alleati nel CLN ed i secondi in guerra contro Hitler: la necessità di salvaguardare l'unità di intenti con la guerra ancora in corso in metà paese è preponderante su qualunque possibile polemica».

Come si vede esso traccia le linee guida di quella che sarà lo scenario politico nazionale del dopoguerra, sino al cosiddetto compromesso storico e, per molti aspetti, sino ai nostri giorni. Questo scenario fu e per molti versi è ancora fortemente condizionato dagli accordi di Yalta, in Crimea, i cui lavori si svolsero nel Palazzo di Livadija, vecchia residenza estiva di Nicola II, fra il 4 e l'11 febbraio 1945. Una condizione che impediva al più grande partito comunista dell’Europa di aspirare di andare al governo, ma che proprio per questo contribuì a creare e rendere stabili il cosiddetto regime consociativo che ha impedito alla rinata democrazia italiana di divenire matura e completamente realizzata.

Ed in questa mia ottica di lettura, una sorta di retroattività dell’asserto di von Clausewitz, assumono valenza politica gli eventi militari sul campo, quale la ristrutturazione delle rifondate Forze Armate e il paggio dal Corpo Italiano di Liberazione ai Gruppi di Combattimento, progenitori dell’Esercito Italiano della Repubblica scaturita dalla consultazione referendaria del 2 giugno 1946.

Il comportamento sul campo di battaglia del Cil, le forti motivazioni dei combattenti e i loro sempre più stretti legami con gli eserciti loro nemici sino all’8 settembre 1943, portarono a rivedere la sorte riservata all’Italia già a dicembre del 1940. L’interesse angloamericano per l’Italia si limitava alla Sicilia, forse con estensione all’altra isola maggiore la Sardegna. Questo il reale motivo della conquista della Sicilia a seguito dello sbarco effettuato nel luglio del 1943 e degli avvenimenti che si susseguirono in quella regione, quali la creazione del Movimento Indipendentista Siciliano di Finocchiaro Aprile, di cui i miliziani al comando del colonnello Salvatore Giuliano costituivano il braccio armato combattente. La prospettiva era quella di un distacco della Sicilia dal resto dell’Italia con l’aspirazione a divenire all’epoca la quarantanovesima stella della bandiera statunitense. All’8 settembre del 1943 i piani delle Nazioni Unite non prevedevano alcuno sbarco, se non per motivo di alleggerimento nei territori viciniori alla Sicilia, in Italia, il cui territorio avrebbe dovuto subire pesanti bombardamenti volti a fiaccare il morale e la volontà di resistenza con la prospettiva di smembramento al termine della guerra.

Ed ecco che con il trapasso dei poteri dal Governo Badoglio al Governo Bonomi, reso possibile e politicamente credibile dall’eroico impegno militare sul campo da parte dei combattenti del Sud, si comincia a prefigurare per l’Italia un destino meno tragico, quello del mantenimento dell’unità territoriale e di un’Italia nuovamente unita e solidale dopo le divisioni della guerra, con connotazioni di guerra civile, in quanto inquadrati nei due contrapposti schieramenti c’erano italiani che si combattevano in armi, indossando uniformi di eserciti stranieri. Da quella data, per tacito accordo delle potenze contrapposte gli italiani inquadrati nelle opposte coalizioni vennero impiegati su fronti diversi, sul versante adriatico quelli del Sud, sul versante tirrenico quelli della Rsi.

La prefigurazione di una futura Italia democratica rese inoltre possibile che si cominciasse a pensare alla ricostituzione organica delle sue Forze armate. Già il 31 luglio 1944, a solo circa due mesi dal ritorno di Roma quale capitale, venne autorizzata da parte della sino ad allora estremamente punitiva Commissione interalleata di controllo di sei Gruppi di Combattimento che assumeranno i nomi di sei gloriose divisioni: Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova e Piceno. Esse subentreranno al Corpo Italiano di Liberazione definitivamente sciolto il 25 settembre 1944, alla vigilia di un inverno impegnativo e pesante.

È questo il passaggio cruciale da esercito sconfitto, verso cui sussistevano enormi remore e diffidenze, a esercito sia ancora non completamente alleato con pieno riconoscimento politico, almeno a cobelligerante stimato e di pari dignità, tanto che alla ripresa dell’offensiva dopo la stasi invernale i reparti italiani, ai quali sino ad allora era stato impedito sfilare nelle città liberate, poterono essere tra i primi, se non i primi, ad entrare e sfilare nelle città che veniva via via raggiunte e liberate.

Questa la mia chiave di lettura che si distanzia molto da quella classica, quale un ponderoso saggio, redatto in occasione del Cinquantenario della Guerra di Liberazione, di cui sono Autori il nostro Presidente Nazionale generale e senatore Luigi Poli ed il professor Gianni Oliva, sotto il titolo “Le Forze Armate dalla Guerra di Liberazione alla nascita della Repubblica, 1943 - 1947” Il documento è scaricabile da internet in versione pdf alla pagina web http://www.dssm.uniba.it/docenti/didattica-orlandi/le_forse%20armate_parte_I.pdf. Ad esso richiamo chi volesse documentarsi secondo la chiave di lettura storica classica e non interpretativa degli avvenimenti, quali quella fatta da un non storico come chi vi parla.

Ed è ancora la politica a condizionare con la sua continuazione sul campo di battaglia in quello strano effetto retroattivo delineato all’inizio della mia esposizione le ultime fasi della guerra e la chiave di lettura storiografica ancora imperante ai nostri giorni. A rigore logica era il Cln centrale, di cui era espressione il Governo Bonomi, ad avere la responsabilità politica dello sforzo bellico e delle rifondate Forze armate. Nella realtà dei fatti, per un insieme di cause contingenti, ad effettivamente svolgere questa funzione nei durissimi anni 1944 - 1945 fu il Comitato di Liberazione Nazionale Nord Italia, impegnato soprattutto nella lotta e nell’attività politica clandestina. In genere i vari Comitati locali ritennero di avere riconquistato la libertà quando, indipendentemente dall’andamento delle operazioni sul campo, poterono svolgere apertamente attività pubblica senza correre alcun pericolo. Caso emblematico è quello di Firenze la cui ricorrenza della liberazione della città viene ricordata l’11 agosto con circa quaranta giorni di anticipo rispetto alla effettiva liberazione di tutto il territorio comunale, che si concluse il 20 settembre 1944.

Perché cito questo caso emblematico? Perché la data del 25 aprile 1945, che viene celebrata come ricorrenza della Liberazione nazionale risente del modo in cui la componente politica clandestina visse gli eventi militari, sui quali non aveva controllo effettivo. La vittoria finale per i Comitati di liberazione locali, a Firenze come a Milano veniva conseguita dalla loro ottica nel momento in cui aveva fine la clandestinità. Più che di liberazione in senso compiuto di tutte le operazioni militare deve pertanto intendersi quello della fine dell’incubo poliziesco, la riconquista delle più elementari libertà democratiche da parte dei “governi” provvisori clandestini sino a quel momento.

A Milano il trapasso di giurisdizione avvenne il 25 aprile senza grossi traumi militari, con l’assunzione del controllo dei principali edifici pubblici da parte della Guardia di Finanza. Non fu una vittoria militare sul campo, ma un avvicendamento concordato. Solo che questo consentì al Cln del Nord Italia, l’unica componente del Cln effettivamente operativa con rischi enormi e con enormi sacrifici di uscire di clandestinità, di assaporare i momenti della riconquistata libertà democratica apertamente e senza per questo correre più rischi di venire arrestati e processati e, magari, passati per le armi. Era per loro la liberazione, da un incubo ancora prima che da un regime e da una occupazione militare.

La cessazione delle ostilità si ebbe in effetti sul fronte italiano il 2 maggio successivo, in tutta Europa l’8 maggio del 1945, che a causa della differenza di fuso orario in Russia cadde il giorno successivo, il 9 maggio. Queste sono le date significative sul piano strettamente militare delle ostilità. Ma dai patrioti che non combattevano inquadrati in eserciti regolari, la fine dell’incubo si ebbe con l’uscita della clandestinità. Questo fu per loro il giorno della vittoria e siccome proprio per l’assurdo asserzione fatta all’inizio della nostra relazione che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, addirittura con effetto retroattivo, il giorno della vittoria finale da questa prospettiva non coincide con la fine effettiva di ogni ostilità militare.

Detto per inciso, il primo 25 aprile a Milano venne festeggiato il 4 maggio 1945 con una sfilata in corteo aperto dai protagonisti del Comitato di Liberazione Nazionale del Nord Italia.

Mi si consenta una divagazione, prima di concludere. Matino, della cui Sezione Ancfargl oggi siamo ospiti, più in generale le Puglie hanno un ruolo importante sotto il profilo della formazione culturale nella storia di quel periodo.

Apprendiamo da un saggio del professor di Jerzy Adam Radomski, gentilmente inviatoci in lingua italiana dall’Accademia Polacca delle Scienze di Roma, che dal 21 settembre 1944 su disposizione del gen. Anders venne organizzato un servizio di istruzione e di educazione del 2 Corpo Polacco. A capo del servizio venne posto il prof. Jerzy Aleksandrowicz il quale organizzò un continuo aggiornamento dell’istruzione e dell’educazione dei soldati che si teneva fuori dalla prima linea e, nel caso dei soldati di linea anche durante le pause nei combattimenti.

Ad Alessano e a Matino vennero tenuti corsi per la preparazione agli esami di maturità; furono organizzati ginnasi e licei a Trani, Amendola, un istituto commerciale a Casarano, un istituto tecnico meccanico ad Altamura, un istituto tecnico agricolo a Lecce, una scuola per meccanici (Junacka Szkoła Mechaniczna) a Barletta.

Purtroppo lo sforzo del generale Anders di creare una classe dirigente per una Polonia risorta dalle vicende belliche falli una seconda volta di fronte alla repressione della dittatura comunista, che si era già resa responsabile dell’eliminazione della precedente classe dirigente con l’eccidio di Katyn.

La quasi totalità degli oltre centomila reduci dalla guerra in Europa che decisero di tornare in Polonia sperando di contribuire a ricostruirla, giunti in patria, vennero deportati senza spesso neppure riuscire a mettere piede a terra. Molti insieme alla proprie famiglie.

Mi auguro che questo prezioso documento venga presto pubblicato su “il Secondo Risorgimento d’Italia”. Credo sia un doveroso riconoscimento a quei soldati che combatterono anche in Italia e nei cui ranghi vennero inquadrati i nostri Gruppi di Combattimento. La Polonia, nonostante il valore ed il sacrificio di centinaia di migliaia di suoi cittadini ebbe meno fortuna dell’Italia, essendosi venuta a trovare dalla parte sbagliata della linea di demarcazione convenuta ad Yalta.

Giorgio Prinzi

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