Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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lunedì 21 maggio 2012

Un contributo di Von Peck

La pietas degli Alpini*

A Leuca, nell’estrema punta meridionale della penisola salentina ha vissuto, nella sua bella casa di fronte al mare Ionio, gli ultimi trent’anni della sua lunga vita, operosa e solidale, un grande Alpino: il conte milanese Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo (1896-1992).

Si è spento alla bella età di 96 anni durante i quali molto ha dato, in pace e in guerra, per l’edificazione del genere umano.

Figlio di un conte lombardo che aveva abbracciato la carriera diplomatica, venne presto in contatto con culture diverse, per via dei consueti trasferimenti cui vanno soggette le famiglie dei diplomatici di carriera. Così ebbe modo di conoscere realtà diverse e di attingere alle enormi ricchezze spirituali, nate dalle notevoli differenze culturali allora esistenti nei diversi Paesi, ancora molto lontani dall’essere travolti dall’attuale tsunami della globalizzazione, che tutto tende a uniformare e a distruggere insieme con le ricche specificità antropologiche accumulatesi nei secoli. Infatti, allora si diceva: “il mondo è bello perché è vario”. Negli anni fondamentali della formazione, l’infanzia e l’adolescenza, il figlio del diplomatico soggiornò a lungo e frequentò le scuole nelle varie sedi diplomatiche di Francia, Austria-Ungheria, Tunisia ed Egitto.

Nel Paese delle Piramidi, monumenti che perpetuano la gloria dei Faraoni, anch’egli ha edificato un monumento che perpetua la gloria dei nostri eroici e sfortunati Caduti: il Sacrario di El Alamein a Quota 33. L’opera sua più fulgida, bella ed insigne per gli enormi contenuti umanitari che addita alle generazioni future come concreto esempio di fratellanza fra i popoli.

L’Egitto, con le potenti suggestioni che continua ad esercitare una civiltà tanto antica su ogni animo sensibile e colto, occupa un posto assai rilevante nelle vicende spirituali e professionali del conte.

Era studente d’ingegneria quando fu nominato Sottotenente di complemento del Genio Alpino e inviato sul Carso durante la prima Guerra Mondiale. Finita la guerra riprese gli studi.

Conseguita la laurea in ingegneria ed architettura, sente l’attrazione fatale per l’Egitto, dove si trasferisce nel 1922. Qui si dedicò con passione e bravura alla libera professione che lo portò presto ad essere un architetto di successo, molto richiesto anche negli altri Paesi del Vicino Oriente, dove nell’intervallo fra le due guerre progettò centinaia di opere.

Allo scoppio della seconda Guerra Mondiale fu richiamato in servizio col grado di Maggiore. Nell’epica battaglia di El Alamein (23 ottobre-6 novembre 1942), col grado di Tenente Colonnello, comandava il 31° Battaglione Guastatori Alpini Genio che dovette ripiegare nella disfatta generale, ma sfondò l’accerchiamento e non si arrese mai agli inglesi.

Da grande Soldato quale era ravvisò mancanza di stile nelle memorie scritte dal Feldmaresciallo inglese Montgomery per esaltare e magnificare la sua vittoria sulle forze italo-tedesche. Ebbe la fierezza di indirizzargli, presso il Circolo Ufficiali di Londra, una lettera aperta per rammentargli il non trascurabile fatto che egli fu e restava, insieme con i suoi alpini, uno dei suoi vincitori, poiché gli inglesi le avevano prese di santa ragione dal 31° Battaglione Genio Guastatori Alpini.

Forse, anche per il fatto che Sua Maestà britannica lo aveva nominato visconte di El Alamein, il Feldmaresciallo non sapeva contenersi, perciò si dava arie di “Gran Condottiere”. Il Colonnello alpino Caccia Dominioni trovava fuori luogo quelle rodomontate, a suo dire forse più adatte ad un caporale che ad un generale giunto al massimo degli onori. Con fine eleganza lo fece notare a quel visconte di fresca nomina.

Il nostro, discendente da una Casata molto antica, resa illustre dalle gesta di molti Uomini d’Arme, Alti Prelati, Governatori, Lui, conte e barone, con tredici secoli di nobiltà alle spalle, trovava disdicevole il «forsennato orgoglio» di quell’inglese «sempre bisbetico, autoritario, intollerante e ingiurioso». Inoltre, congetturava che l’alterigia «caricaturale» che ostentava abitualmente, forse era da mettersi in relazione con la «tragedia interna di sapersi fisicamente miserello e rachitico, fatto intollerabile nell’esercito imperiale britannico».

Le parole virgolettate si trovano alle pagine 451-452 del libro ALAMEIN 1933-1962, scritto dal Conte nel 1962 e pubblicato da Longanesi & C. (Me ne volle fare graditissimo dono). Un libro di larghissima fortuna, che ha avuto successive numerose edizioni. E’ stato anche «Premio Bancarella», forse perché il vero protagonista del libro è un insolito Battaglione di Alpini che operò in Egitto fino al 1962, ancora vent’anni dopo l’epica battaglia di El Alamein.

Passato il turbine della guerra, sempre sotto la stessa bandiera, quel battaglione eccezionale s’era ridotto, ormai, a due rari Cavalieri dell’Ideale, il Comandante Caccia Dominioni e l’Alpino milanese di Porta Ticinese Renato Chiodini, decorato di Medaglia d’Argento al V.M. sul campo. Questi, a guerra finita, con umanità, coraggio e generosità, volle raggiungere il suo comandante nel gran deserto libico, per “dargli una mano” ancora una volta. Così usano gli Alpini.

In uniforme e col cappello alpino in testa, per onorare i morti, giravano nel deserto della Marmarica e nella depressione di Qattara brulicanti di vipere e scorpioni. Correndo molti rischi fra bombe e molte decine di migliaia di mine inesplose, andarono alla ricerca dei Caduti per dare Loro onorata sepoltura.

Quella che culminò ad El Alamein fu forse l’ultima campagna di guerra combattuta nell’alveo di antichi costumi cavallereschi, quindi senza odio da ambo le parti; ma le perdite in vite umane furono ugualmente spaventose. Dopo quella battaglia sanguinosa, in cui solo le perdite italiane furono di quasi 15.ooo morti, i Governi dei Paesi belligeranti poco avevano fatto per recuperarne le salme. Ci pensarono loro due. Nella solitudine del deserto, dove gli anacoreti si ritiravano per essere più vicini a Dio, spesero oltre dodici anni delle loro belle vite generose, in quell’opera di misericordia spirituale, portata avanti con grande umanità e religiosa pietà.

Avevo appena compiuto quarant’anni nel 1984, quando ebbi la fortuna di incontrare il Conte per la prima volta. Allora ignoravo completamente le sue gesta. Rimasi subito conquistato dalla signorile modestia di quel gentile vegliardo di 88 anni. Semplice, signore, Alpino e fiero di esserlo, mi accolse con garbo e affabilità paterna nella sua casa di Leuca, divenuta il suo “buen retiro”.

Al momento del commiato, m’invitò a tornare in visita e di portare anche la mia famiglia, poiché desiderava conoscerla.

In una delle visite successive mi mise in mano il registro dei visitatori illustri della sua Casa, chiedendomi di apporvi anche la mia firma. Non mi aspettavo tanta considerazione e la cosa mi confuse un po’. Cercai di schermirmi, ma il Conte insistette.

Per superare quel momento di comprensibile imbarazzo da parte mia, mi misi a sfogliare quel registro. Rimasi molto colpito nel leggere le firme, accompagnate spesso anche da frasi laudative e di commosso ringraziamento, di persone che erano venute apposta a Leuca partendo dalle lontane Australia, Nuova Zelanda, oppure dal Sud Africa, per conoscerlo e ringraziarlo personalmente per le singolari manifestazioni di cortesia e di umanità ricevute.

Era accaduto che il Conte, svolgendo pazienti e difficili ricerche, spesso partendo da un anello nobiliare del caduto, grazie alle sue enormi conoscenze dell’araldica, li aveva rintracciati per dar notizie dei loro congiunti, quando gli era capitato di rinvenire anche i resti mortali degli ex nemici.

Sono fermamente convinto che certi atti disinteressati si fanno solo quando s’è raggiunto un sublime livello spirituale e un raro senso umanitario. Non certo per dovere d’ufficio.

Ad ogni visita s’accresceva la mia ammirazione per quel Gentiluomo, tanto “grande” e tanto semplice nello stesso tempo. Sarà stata la purificazione nel deserto, oppure perchè la sua bella anima aveva risposto positivamente al «daimónion» che c’è in ciascuno di noi. Non saprei dire. (Daimónion è parola greca antica che i cristiani traducono con angelo custode).

Una volta di fronte a Lui mi assalì, improvvisamente, una strana sensazione che non ho conosciuto mai, né prima né dopo.

Ero in visita insieme con mia moglie e le due prime figlie, bimbette. Ebbi quasi l’impressione di trovarmi in presenza di una persona consacrata a una religione universale, quella che fa crescere gli uomini dentro il loro animo e porta al pieno sviluppo della persona umana. Mi venne spontaneo chiedergli di benedire le bambine, come se fosse stato un sacerdote. Mi guardò e capì.

Poggiò la mano sinistra sul capo di Letizia, mentre con la destra tracciava nell’aria un segno di croce recitando sommessamente una giaculatoria. La stessa cosa fece poi con Barbara.

La memoria del suo spirito, che aleggia ancora sul Capo di Leuca che tanto amò, possa continuare a benedire così tutti i giovani salentini. Sono passati, ormai, tanti anni e il ricordo dei suoi doni spirituali mi commuove ancora. Gli giunga riconoscente il mio commosso ringraziamento nel Paradiso degli Alpini.

Alpino Salvatore Pecoraro (alias von Peck)

*Questo articolo è il contributo dell'Autore al convegno "Soldati Salentini: La memoria storica dell'impegno". Avendo la Segretaria Generale della Associazione Nazionali Combattetti ridotto da 6 a 4 i numeri della Rivista "Il Secondo Risorgimento d'Italia" il n.  5 doveva contenere gli atti del Convegno predetto. Ci si è costretti a pubblicare i contributi sul blog della Rivista.

giovedì 17 maggio 2012

Relazione: L'Esercito Italiano

CONVEGNO*
GALLIPOLI HOTEL COSTA BRAVA
17 MARZO 2012 – 
COL. Vittorio SCARLINO


L’Esercito Italiano nasce con la nota n° 76 del 4 maggio 1861 con cui il ministro della Guerra Manfredo Fanti “partecipa ufficialmente” che «Vista la Legge in data 17 marzo 1861, colla quale Sua Maestà ha assunto il titolo di Re d’Italia, il sottoscritto rende noto a tutte le Autorità, Corpi ed Uffici militari che d’ora in poi il Regio Esercito dovrà prendere il nome di Esercito Italiano, rimanendo abolita l’antica denominazione di Armata Sarda”.

Con questo atto ufficiale si concludevano con il cambio di denominazione le operazioni di riunione, di tutte le forze militari disponibili nel paese, iniziate negli ultimi mesi del 1859 e conclusesi con una prima fase organizzativa portata a termine nel marzo del 1861

Quindi, ancor prima che la componente borbonica e quella garibaldina venissero ad aggiungersi ad esso, 1'Esercito della nascente Italia era costituito con una sua struttura organica basata su cinque Corpi d'Armata dei quali quattro erano formati ognuno da tre divisioni, ciascuna con due brigate di Fanteria, due battaglioni Bersaglieri e tre batterie d'Artiglieria, più una brigata di Cavalleria su 3 reggimenti.

Fuori dai Corpi d'Armata c'era un'altra divisione di Cavalleria. I reggimenti di Fanteria e Cavalleria avevano rispettivamente ordinati su quattro battaglioni/squadroni.

L'Artiglieria comprendeva un totale di otto reggimenti.

Il Genio venne ordinato su due reggimenti di 16 compagnie ciascuno.

L’unità militare nazionale era costituita, ma quella politica e sociale non era stata compiuta. I primi anni postunitari si caratterizzarono per la cosiddetta lotta al brigantaggio, fenomeno particolarmente rilevante nel Meridione e nelle stesse Puglie, sintomo di un malessere di popolazione che erano state conquistate e rimanevano deluse del nuovo condizione che aveva acceso tante speranze.

In questo periodo di transizione, nell’ancora Regio Esercito prende corpo, riproponendo una soluzione per la prima volta applicata in Italia nel 1786, un reparto di soldati specializzati nei combattimenti in alta montagna, con la costituzione, fattivamente sostenuta dal Cavour, nel 1859 di un consistente gruppo di volontari al comando di Giuseppe Garibaldi denominati "Cacciatori delle Alpi". Questa nuova unità specializzata conquistò Varese, Como e Brescia. Ed ancora i Cacciatori delle Alpi ottennero a Bezzecca il 21 luglio 1866 l'unica vittoria italiana nella Terza Guerra d'Indipendenza. Sarà poi nel 1872 che verrà formato il nuovo corpo specializzato degli Alpini, come oggi noi li conosciamo Come noto, nascono da una iniziativa del capitano Giuseppe Perrucchetti, elaborata dal ministro della guerra Francesco Ricotti Magnani.

Altra tappa fondamentale, ancora oggi viva nel ricordo dell’immaginario collettivo, è stata la presa di Roma del 20 settembre 1870, quando i bersaglieri al comando del generale Raffaele Cadorna irruppero attraverso la breccia di Porta Pia per coronare il sogno unitario con Roma Capitale.

Segui un’opera di ristrutturazione condotta dal già citato ministro della Guerra Cesare Francesco Ricotti Magnani, L’Italia si affaccia allora sullo scenario internazionale con ambizioni, alle quale non sempre arrise il successo, di potenza coloniale. Queste le tappe fondamentali.

Il 5 febbraio 1885 il colonnello Tancredi Saletta sbarca con un migliaio di uomini a Massaua, in Eritrea, dando inizio al periodo coloniale italiano che subirà una battuta d'arresto nel 1896 con la disastrosa battaglia di Adua avvenuta nell'ambito della guerra di Abissinia.

In quest’ottica prendono corpo le truppe coloniali, costituite in Eritrea, Somalia e Libia per coadiuvare i nazionali nel controllo del territorio, ma con l’intenzione di formare anche una classe media coloniale legata agli interessi italiani. Esse seguiranno le sorti dell’esperienza coloniale italiana sino alla sua fine.

L’Italia si pone ora come potenza globale, in una sorta di anticipazione della odierna dottrina del Mediterraneo allargato. Iniziano così gli impegni internazionali, prima nell'ambito della collaborazione con il Corpo interalleato per la pacificazione della rivolta contro la dominazione turca, a cui l'Italia contribuì con un corpo di spedizione sbarcato a Suda, nell'isola di Creta, il 25 aprile 1897.

Il 14 luglio 1900 venne costituito a Napoli un corpo di spedizione da proiettare a notevole distanza dalla madrepatria finalizzato a la rivolta dei Boxer in Cina e difendere i protettorati europei. In quest’ottica si inquadra la guerra italo turca, intrapresa il 29 settembre 1911, che vide il Regio Esercito entrare a Tripoli il 5 ottobre, nella primavera del 1912 occupare il Dodecanneso e, infine, conquistare il Fezzan nel corso di un anno tra l’agosto del 1913 e l’agosto del 1914.

Si giunge così alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Ancor prima dell’entrata effettiva dell’Italia nel conflitto il 24 maggio 1915, l’Esercito aveva portato a 12 i corpi d'armata e a 25 le divisioni, fino a raggiungere le 900.000 unità.

Le esigenze belliche portarono inoltre alla costituzione degli Arditi, venne potenziata l’arma aerea, sviluppato il servizio automobilistico, fece la sua comparsa il carro armato.

Lo sforzo organizzativo fu davvero imponente sia nel campo operativo che logistico. La massa dei mobilitati da gestire in ogni loro esigenza, mise a dura prova lo strumento che reagì positivamente a questa improvvisa crescita, ponendo le basi per la creazione di un complesso militare ed industriale alla quale, l’arretrata società civile dell’epoca, era impreparata. Per questo il progresso scientifico e tecnologico dovuto allo sforzo bellico non venne in essa trasferito e a fine conflitto non vi fu riconversione nel settore civile.

Gli anni di guerra fino a Caporetto videro l'Isonzo protagonista delle battaglie; i primi successi di rilievo furono conseguiti con la 6a battaglia dell'Isonzo, che portò nell'estate del 1916 alla conquista di Gorizia; al contrario la 12 a ed ultima battaglia fu contrassegnata dalla sconfitta di Caporetto nell'ottobre 1917. Le forza austro-tedesche sfondarono nel settore del XXVII Corpo d'armata, ma la resistenza delle truppe sul Piave e sul monte Grappa posero fine alla fase negativa della guerra

Fu poi grazie alle eroiche battaglie d'arresto sul Piave e sul Grappa (10 novembre - 4 dicembre) che si riuscirono a tamponare le falle dell’offensiva nemica e, infine, con i successi del 1918 sul Piave (15-24 giugno) e di Vittorio Veneto (24 ottobre - 4 novembre) conseguire la vittoria definitiva e conclusiva del conflitto.

Durante il conflitto, l'Esercito fu impiegato a fianco degli alleati su alcuni fronti esteri. In Francia il II Corpo d'Armata, in Albania e in Macedonia le truppe italiane occuparono Durazzo (29 dicembre 1915), Monastir e Bitola (18 novembre 1916) e vinsero la battaglia di Malakastra (6-9 luglio 1918).

Il bilancio dello sforzo bellico viene sintetizzato con i seguenti aridi dati statistici di oltre 4.000.000 di mobilitati, circa 600.000 caduti e 1.500.000 di feriti e/o invalidi.

Smobilitato il grosso dei reggimenti di fanteria e cavalleria, disciolti i reparti "Arditi", l'Esercito affronta il dopoguerra ridimensionando la sua struttura per tempi e compiti di pace. Come accennavo sopra l’arretratezza della società civile del tempo rese impossibile la riconversione dell’apparato industriale d’avanguardia che si era formato con lo sforzo bellico creando gravi problemi di natura sociale e politica, che portarono alla nascita ed alla affermazione del fascismo.

Nel 1922 l’Esercito fu fatto intervenire in Libia per la riconquista dei territori che nel corso della guerra mondiale erano stati occupati dagli arabi ribelli. Furono anni di studio e di risveglio della cultura e della dottrina militare con lo sviluppo di nuove strategie di combattimento resa necessario dalla sviluppo tecnologico e dall’adozione di nuovi mezzi. L'arrivo del carro armato sui campi di battaglia nell'ultimo scorcio della prima guerra mondiale diede l'avvio alla costituzione di unità corazzate e alla elaborazione di appropriate dottrine relative al loro impiego.

In questo contesto evolutivo nel 1927 l’Aeronautica diviene Forza Armata autonoma, staccandosi dall'Esercito. Presero vita anche i primi reparti paracadutisti.

Nel corso degli anni trenta le truppe coloniali italiane coadiuvarono quelle nazionali durante il completamento dell'occupazione della Somalia, fino ad allora controllata solo parzialmente dalle truppe italiane nelle zone attorno alla capitale Mogadiscio e a pochi presidi lungo la costa.

Terminate queste operazioni, definite "cicli di polizia coloniale", nel 1935 l'Esercito fu impegnato di nuovo con la guerra d'Etiopia avviata con il superamento del confine del Mareb il 3 ottobre e l’ingresso in Addis Abeba il 5 maggio 1936, che ne segnerà la conclusione.

Siamo ormai alle soglie del secondo conflitto mondiale. In questo periodo di vigilia assume importanza fondamentale l’invio in missione in Spagna nel settembre del 1936 del generale di brigata Mario Roatta con il compito di creare sotto copertura la MMIS, Missione Militare Italiana in Spagna, che divenne operativa con sede a Siviglia 15 dicembre 1936; con il compito di inviare materiali, armi e istruttori, nonché di creare due Brigate Miste italo-spagnole.

Nell'aprile del 1939, in seguito all'annessione dell'Albania, l'esercito presidiò le più importanti città del territorio di nuova acquisizione.

Si arriva così al 10 giugno 1940, alla dichiarazione di guerra che porterà l’Esercito a combattere su vari fronti, in teatri operativi notevolmente differenti per latitudine e per caratteristiche geografiche e climatiche. Ne faccio cenno con una rapida panoramica.

In realtà il conflitto ebbe inizio nel settembre 1939, quando la Germania invase la Polonia, ma l'Italia consapevole del fatto che i conflitti di Etiopia e di Spagna avevano pesantemente intaccato le scorte dell'esercito e bloccato il suo ammodernamento, decise dunque di non intervenire dichiarando la propria "non belligeranza". Purtroppo, i folgoranti successi tedeschi e l'impressione che il conflitto sarebbe durato poco indussero ad entrare in guerra.

Il Regio Esercito, forte di 75 divisioni, presentava tuttavia gravi carenze nell'armamento. L'artiglieria risaliva al primo conflitto mondiale, i carri armati erano leggeri con corazza ed armamento inadeguati. Mancavano gli automezzi, le mitragliatrici erano insufficienti, le divise erano di pessima qualità e mancavano equipaggiamenti e attrezzature adatte alle aree dove si sarebbe operato dalla Libia all’Unione Sovietica, dall’Albania alla Grecia.

Certo, le ricerche in campo militare condotte nel precedente decennio avevano conseguito buoni risultati.

Anche l'armamento individuale presentava caratteristiche adeguate quali il moschetto automatico Beretta, in dotazione alle truppe speciali come la 185ª Divisione paracadutisti "Folgore", la mitragliatrice Breda Mod.37 o la pistola Beretta M34 per gli ufficiali.

Gravi carenze nel campo delle truppe corazzate. I carri armati in dotazione erano decisamente inferiore a quelli avversari sia come armamento che come potenza.

Le ostilità ebbero inizio con la battaglia delle Alpi Occidentali combattuta contro la Francia, che si risolse con una vittoria tattica francese bilanciata dall'occupazione italiana di alcuni comuni lungo il confine sancita dall’armistizio di Villa Incisa.

Si concluse con la sconfitta invece l'iniziativa in Africa orientale dove, nonostante il successo ottenuto con la conquista della Somalia Britannica, i reparti Esercito ivi stanziati rimasero fin dall'inizio isolati dalla Madrepatria finendo con il subire, nel maggio 1941, la disfatta nella seconda battaglia dell'Amba Alagi. Ai soldati italiani sconfitti venne comunque tributato da parte delle vittoriose truppe britanniche l'onore delle armi. L'ultima disperata resistenza in questo teatro di operazioni fu attuata dalle unità al comando del generale Guglielmo Nasi nel corso della Battaglia di Gondar, che ebbe termine con la resa degli ultimi presidi nel novembre 1941.

Nel contempo, in Africa settentrionale, le poco numerose ma molto mobili e ben equipaggiate forze della Western Desert Force sconfissero e fecero prigionieri decine di migliaia di soldati italiani, distruggendo inoltre le dieci divisioni della 10ª Armata e conquistando, oltre l’intera Cirenaica, le piazzeforti di Bardia e Tobruk.

In aiuto dell’alleato italiano in difficoltà in questo teatro i Tedeschi inviarono un gruppo di divisioni, denominate Afrika Korps, al comando del generale Erwin Rommel. L'Armata italo tedesca riuscirà a spingersi sino a circa 80 km da Alessandria d'Egitto, ma a seguito della sconfitta di El Alamein venne persa la Libia, presa dalle forze britanniche, con ultime resistenze nel maggio 1943 in Tunisia.

Nell'ottobre 1940 ebbe inizio anche la campagna italiana di Grecia. L'operazione risultò essere mal pianificata e mal preparata, con i soldati italiani che si ritrovarono quasi subito in inferiorità numerica e in una difficile situazione logistica rispetto ai Greci, venendo di conseguenza respinti fin dentro i confini albanesi. Il lento ma continuo affluire dei rinforzi italiani permise poi di fermare l'avanzata ellenica ma l'elemento determinante per l'esito del conflitto fu l'intervento tedesco. Contemporaneamente all'azione in Grecia reparti tedeschi, italiani e ungheresi invadevano la Jugoslavia, piegandone la resistenza in undici giorni.

Nel luglio 1941 il governo decise l'invio al fronte orientale di un corpo di spedizione italiano raggruppato nel CSIR, Corpo di Spedizione Italiano in Russia. La partecipazione dell’Italia alla guerra alla Urss, non richiesta dall’alleato germanico, all’inizio fu sgradita e mal tollerata dai vertici militari tedeschi, convinti che la Urss sarebbe crollata in pochi mesi. Ma fermati a Mosca nell’inverno 1941, la campagna di primavera richiese ai tedeschi l’impiego di maggiori forze, che si trovarono costretti a richiedere ai loro alleati, ungheresi, romeni, spagnoli, croati, finlandesi ed italiani.

L’Italia inviò altri 170.000 soldati, oltre ai 60.000 inviati nel 1941; questi uomini operarono sotto comando tedesco in Ucraina e nel dicembre 1941 erano attestati sul Don.

Il loro compito era quello di tenere, insieme agli altri alleati, la linea: in caso di attacco, resistere fino a che le forze mobili tedesche, attestate a tergo, non fossero intervenute, e, tamponate le falle, lanciare la controffensiva.

Nel dicembre 1942 gli Italiani furono attaccati dai sovietici (Operazione Piccolo Saturno). Ottemperano al compito loro ordinato, tenendo la linea per oltre 10 giorni, fino al 21 dicembre.

Le puntate offensive sovietiche sconvolsero, tra l’altro, le retrovie e l’organizzazione logistica dell’Asse, anche perché le forze mobili tedesche, attirate dalla fornace di Stalingrado, non intervennero e gli italiani, come i romeni e gli ungheresi furono abbandonati a loro stessi, con disprezzo della loro sorte.

Stalingrado divorò tutto, ed i Tedeschi vi colsero la più grande sconfitta della guerra, figlia diretta dei loro errori strategici, con primo fra tutti quello della divisione delle forze. I Comandanti Italiani, privi di mezzi per affrontare una ritirata in inverno, anziché arrendersi sul posto, dopo aver assolto il loro compito e nel constatare che i tedeschi li avevano abbandonati, presero la decisione fatale: ritirarsi dalla linea del Don. Senza una adeguata struttura logistica alle spalle era pura follia ritirarsi. E fu tragedia: si perse il 54%, della forza, ovvero101.000 uomini (10.800 prigionieri; il resto disperso, cioè morto durante la ritirata) su 191.000 effettivi e tutto il materiale. Le forze italiane furono distrutte.

Nella notte tra il 9 ed il 10 luglio 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia e in circa quaranta giorni presero il completo controllo dell'isola. Nel frattempo, il 25 luglio, il maresciallo Pietro Badoglio prese la guida del governo e da li a poco iniziò a intavolare trattative di cessazione delle ostilità con gli anglo americani. Come noto l'armistizio venne firmato il 3 settembre 1943 e reso pubblico dagli Alleati l'8 settembre, costringendo Badoglio a confermare la notizia con un proclama radiofonico.

All'annuncio dell'armistizio, la Wehrmacht diede infatti il via alla già pianificataa Operazione Achse, le truppe tedesche intimarono ai reparti italiani di scegliere se continuare a combattere al loro fianco o di deporre le armi, le unità dell’Esercito che rifiutarono queste intimazioni vennero attaccate e generalmente sopraffatte, in alcuni casi si ebbero fucilazioni di massa dei prigionieri come a Cefalonia, in altri casi alla resa seguì la decimazione degli ufficiali. Solo in Sardegna e Corsica l’Esercito ebbe la meglio sui tedeschi. Nei Balcani alcuni di coloro che riuscirono a fuggire all'internamento entrarono a far parte dei movimenti partigiani locali, creando anche proprie unità nazionali come le divisioni partigiane Garibaldi e Italia.

In Italia invece al Governo Badoglio, peraltro non riconosciuto neppure dalla controparte armistiziale e solo unilateralmente dall’Unione Sovietica, fu permesso di dar vita al Primo Raggruppamento Motorizzato per combattere insieme agli anglo-americani. Il battesimo del fuoco di questa unità si ebbe con la battaglia di Montelungo dell’8 e 16 dicembre 1943, successivamente con l’azione di occupazione, nell'aprile 1944, di Monte Marrone. Il nostro Presidente Nazionale, il generale senatore Luigi Poli, allora giovanissimo subalterno, fu protagonista di tutti questi eventi, avendo preso parte proprio qui in Puglia, dove era in attesa di imbarco per i Balcani, ad essi sin dalle prime fasi di contrasto all’azione delle truppe tedesche, non più alleate anche se non ancora formalmente nemiche, e di difesa delle infrastrutture nazionale, tra cui i porti.

Il Primo Raggruppamento Motorizzato, divenuto poi Corpo Italiano di Liberazione operò con tale dizione sino all'ottobre 1944, quindi furono organizzati cinque Gruppi di Combattimento che risalirono l'Italia, sempre insieme agli Alleati, fino alla completa liberazione di tutto il territorio nazionale e alla cessazione di ogni atto bellico sul fronte italiano il 2 maggio 1945, a seguito dell’Armistizio firmato nella Reggia di Caserta, dove il nostro sodalizio ha posto anni orsono una lapide in memoria dell’evento.

L'Italia contribuì alla lotta contro i Tedeschi anche all'estero, in particolare nei Balcani (1943 - 1944), dove si distinsero le divisioni partigiane "Garibaldi" e "Italia", costituite con i Reparti ed i superstiti sfuggiti alla deportazione tedesca.

Il tributo di sacrificio e di sangue della Seconda Guerra Mondiale si può riassumere in 161.729 caduti e dispersi sui vari fronti fino alla data dell'8 settembre 1943; 18.655 perdite in Italia e 54.622 perdite sui fronti esteri nel periodo settembre - ottobre 1943 per le reazioni ai Tedeschi; circa 12.000 caduti tra militari inquadrati nelle unità regolari e nelle bande partigiane durante la Guerra di Liberazione; infine, circa 60.000 internati militari morti nei campi di concentramento. Cifre elevate e non definitive.

Non mi dilungo oltre sul punto specifico della Guerra di Liberazione sul quale verrà tenuta una dettagliata specifica relazione. Focalizzo invece l’attenzione sulla rinascita del dopoguerra.

Il 14 novembre 1945 gli Alleati stabilirono la struttura dell’Esercito italiano da mantenere in vigore fino alla stipulazione del trattato di pace. Le forze italiane vennero dunque ripartite in quattro sezioni:

forze mobili e locali (90.000 soldati) organizzate in 3 divisioni per la sicurezza interna (28ª Divisione fanteria "Aosta", 31ª Divisione fanteria "Calabria" e divisione "Reggio"), 10 reggimenti di fanteria (di cui 3 Alpini) e 5 divisioni binarie (con due soli reggimenti) di fanteria (44ª Divisione di fanteria "Cremona", 58ª Divisione fanteria "Legnano", Divisione meccanizzata "Folgore", 20ª Divisione fanteria "Friuli" e Divisione meccanizzata "Mantova");

organizzazione centrale e 11 comandi territoriali con giurisdizione simile agli ex comandi di corpo d'armata (9.000 unità);

amministrazione (31.000 uomini);

addestramento e complementi (Centro Addestramento Complementi di Cesano e scuole) su 10.000 uomini[15]

Lo Stato Maggiore diramò disposizioni in tal senso nel marzo 1946. Ognuno degli 11 comandi territoriali disponeva di un centro addestramento reclute a livello reggimentale e di un reggimento fanteria autonomo, tranne la Sicilia che poteva avvalersi di due divisioni. Una divisione, due battaglioni e 6 raggruppamenti rimasero invece alle dirette dipendenze degli Alleati. Nel corso del 1946 le tre divisioni di sicurezza interna si tramutarono in brigate su due reggimenti di fanteria e un gruppo di artiglieria, mentre la cavalleria riprese vita tramite l'assegnazione ad ogni divisione di un gruppo di squadroni dotati di veicoli cingolati.

Con la nascita della Repubblica Italiana e la decisione di Umberto II di abbandonare il paese, al Regio Esercito venne a mancare la condizione essenziale del mantenimento nella propria denominazione del riferimento alla monarchia, per cui si ritornò alla originaria denominazione postunitaria di Esercito Italiano, voluta dal repubblicano ministro Fanti, suo primo ordinatore.

Dopo una fase di transizione, con l'adesione dell'Italia nella NATO, le forze armate vengono rinforzate e riarmate, con un consistente concorso degli Stati Uniti in termini di mezzi; la dottrina di impiego e l'addestramento vengono uniformati agli standard dell'alleanza, e vengono tenute regolarmente esercitazioni congiunte. La consistenza dei reparti operativi cresce fino a raggiungere dieci divisioni di fanteria e tre corazzate (Ariete, Centauro e Pozzuolo del Friuli) cui si aggiungevano cinque brigate alpine. Nel 1954 la struttura di comando viene organizzata su due armate e cinque corpi d'armata, cui si aggiungeva il Corpo per la sicurezza della Somalia, paese affidato all'Italia per mandato fiduciario dalle Nazioni Unite fino al 1956; di conseguenza, il corpo viene sciolto nello stesso anno.

Con il concretizzarsi della minaccia di invasione da parte del Patto di Varsavia viene definita dalla NATO la dottrina di difesa avanzata, che in Italia porta alla denominazione della soglia di Gorizia come linea di difesa alla quale doveva essere idealmente fermata l'eventuale invasione.

In questo scenario viene creata la III Brigata missili che, dotata di missili Honest John prima (32 lanciatori) e Lance poi, acquisendo la capacità di lancio di testate tattiche nucleari.

Con l'inizio degli anni ottanta l'esercito affronta, dal 1980 al 1982, la sua prima missione armata (cioè non limitata alla sola presenza di osservatori) all'estero, denominata Italcon, come forza di pace in Libano. Durante la missione, effettuata congiuntamente con forze di altri paesi NATO tra i quali Stati Uniti e Francia, il contingente guadagna la fiducia delle parti contrapposte, riuscendo a non essere vittima di disastrosi attacchi che invece colpiranno le altre forze multinazionali e perdendo alla fine un solo uomo a causa dell'esplosione di una mina.[

La caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento del Patto di Varsavia daranno una nuova dimensione alle forze armate italiane, non più in funzione esclusivamente difensiva ma anche e soprattutto in supporto alle iniziative di peace-keeping, come vengono denominate internazionalmente le operazioni di mantenimento della pace.

Nell’ambito di una di queste missioni un contingente italiano viene inviato in missione di pace in Somalia con l'operazione IBIS 1992-1994, una delle operazioni più complesse in teatro estero dalla fine della seconda guerra mondiale. Purtroppo il contingente italiano nello svolgere il suo delicato lavoro, sul campo somalo subisce un'imboscata in cui muoiono alcuni nostri soldati.

Nel 2000, con l'emanazione della legge 31 marzo 2000, n. 78 l'Arma dei Carabinieri, come già accennato sopra, diventa la quarta forza armata italiana, cessando di essere una specialità dell'esercito.

Inoltre, con il termine del servizio militare di leva obbligatorio, nel 2005, (o meglio con la sua sospensione, come disposto dalla legge 226/2004) l'Esercito attraversa una fase di radicale ristrutturazione, tesa a diminuire il personale dedicato a funzioni non operative per diminuire i costi derivanti da tale voce.

A seguito della ristrutturazione del 2010 l'Esercito conta 108.155 unità, e cessa di essere la prima forza armata in fatto di dotazioni organiche in quanto superato dai Carabinieri sono 117.943 unità. Il personale dell'Esercito risulta suddiviso a tale data in 13.174 ufficiali tra ruolo normale, ruolo speciale e ferma prefissata, 25.916 sottufficiali tra marescialli e sergenti, 31.120 Graduati in servizio permanente e 68.170 Militari di truppa, a loro volta suddivisi in Volontari in Ferma Breve (VFB) , Volontari in ferma prolungata di 4 anni (VFP4) e volontari in ferma prefissata (VFP1).

A questi vanno aggiunti gli 895 allievi in formazione presso l'Accademia Militare di Modena, la Scuola Sottufficiali dell'Esercito di Viterbo e le Scuole militari "Nunziatella" e "Teuliè". Le donne rappresentano circa il 5% di tutti i militari. Possono accedere a tutti i ruoli, da quelli logistici a quelli operativi.

Il comando di vertice dell'Esercito Italiano è rappresentato dallo "Stato Maggiore dell’Esercito" (SME) a Roma che è l'organismo deputato alla definizione delle politiche di Forza Armata. Per l'attività di comando e controllo sulle unità dell'Esercito, il capo di stato maggiore dell'Esercito italiano si avvale di quattro Alti Comandi retti da quattro generali di corpo d'armata e da un Ispettorato diretto da un tenente generale. Questi cinque Enti assieme allo SME nel loro insieme strutturano le cosiddette "Aree di vertice":

Comando delle Forze Operative Terrestri o COMFOTER, acquartierato a Verona, che è responsabile del governo delle unità di manovra, pedine operative dell'Esercito;

Comando Militare della Capitale con sede a Roma, che coordina le attività legate al Reclutamento, alle Forze di Completamento e alla Promozione e Pubblica Informazione sul territorio nazionale;

Comando Logistico, acquartierato a Roma, da cui dipendono, sul piano tecnico-funzionale, le unità della logistica di sostegno e della logistica di aderenza;

Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell'Esercito di Torino, che si occupa della formazione iniziale di tutto il personale militare dell'Esercito;

Ispettorato delle Infrastrutture, organo che presiede gerarchicamente gli enti del Servizio dei Lavori e del Demanio, i quali sul piano amministrativo e tecnico-funzionale ricevono le istruzioni dalla Direzione generale dei lavori e del demanio, parte del Segretariato Generale della Difesa (SEGREDIFE).

Dalle Aree di vertice dipendono pertanto, in un elenco riepilogativo: Stato Maggiore dell'Esercito, Roma Centro di Selezione e Reclutamento Nazionale dell'Esercito (Foligno), Centro Sportivo Olimpico dell'Esercito, Organizzazione penitenziaria militare (Santa Maria Capua Vetere).

Dal Comando delle Forze Operative Terrestri dipendono: Verona COMFOD1 (Vittorio Veneto), COMFOD2 (San Giorgio a Cremano), Comando Truppe Alpine (Bolzano), CoTIE (Anzio), Comando Aviazione dell'Esercito (Viterbo), Comando NRDC-IT (Solbiate Olona), Comando dei Supporti delle FOD (Roma).

Dal Comando Militare della Capitale dipendono: Roma Basi Logistiche della Forza Armata, Banda musicale dell'Esercito Italiano, Raggruppamento Logistico Centrale (RA.LO.CE.) (Roma), Reparto Supporti Logistici di Monte Romano, Museo Storico della fanteria (Roma), Museo Storico dei Bersaglieri (Roma), Museo Storico del Genio (Roma).

Comando Regione Militare Nord (Torino),

Comando Regione Militare Sud (Palermo)

Comando Militare Esercito Toscana (Firenze)

Comando Militare Autonomo Sardegna (Cagliari)

Comando Logistico dell'Esercito Roma Comando Logistico Nord (Padova)

Comando Logistico Sud (Napoli)

Centro di Amministrazione e Commissariato (Roma)

Policlinico militare del "Celio" (Roma)

Centro Studi e Ricerche di Sanità e Veterinaria dell'Esercito (RM)

Centro militare di veterinaria (Grosseto)

Ospedale militare veterinario (Montelibretti)

Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell'Esercito

Torino Accademia Militare di Modena (Modena)

Centro di Simulazione e Validazione dell'Esercito (Civitavecchia)

Scuola Sottufficiali Esercito (Viterbo)

Raggruppamento Unità Addestrative (Capua)

Scuola lingue estere dell'Esercito (Perugia)

Ispettorato delle Infrastrutture Roma Comando Infrastrutture Nord (Padova)

Comando Infrastrutture Centro (Firenze)

Comando Infrastrutture Sud (Napoli)



Nelle Forze Operative Terrestri si inquadra il Comando di Corpo d'Armata di Reazione Rapida (NRDC-ITA) di Solbiate Olona, il Comando Trasmissioni e Informazioni di Anzio, Comando dell'Aviazione dell'Esercito di Viterbo, 1º Comando delle Forze Operative di Difesa (1° FOD o COMFOD1) di Vittorio Veneto, 2º Comando delle Forze Operative di Difesa (2° FOD o COMDOF2) di San Giorgio a Cremano, Comando dei Supporti delle Forze Operative Terrestri di Roma.

Dal Comando Roma Capitale dipendono tutti gli enti territoriali come i CEDOC - CME , basi logistiche , Il comando divenuto comando di vertice dipende direttamente dal Sottocapo di SME.

Dal COMFOTER dipende anche il Comando dei Supporti delle Forze Operative Terrestri dal quale dipendono le quattro Comandi e le Scuole di Specialità. Pertanto detto Comando sarà responsabile per il Supporto Operativo alle Forze Terrestre (dipendenti principalmente da 1° FOD, 2° FOD e T.A.), oltre che gestire le attività di specializzazione del personale attraverso le scuole d'arma.

Le funzioni di intelligence, che afferiscono alle tematiche raggruppate nella sigla C4I (comando, controllo, comunicazione, computer, informazione) vengono assolte in parte dall'accoppiata AISI/AISE e in parte dalla Brigata RISTA - EW, che raggruppa le unità di guerra elettronica appartenenti all'Esercito Italiano, alle dipendenze del Comando delle Trasmissioni ed Informazioni dell'Esercito (COTIE). La sigla RISTA-EW sta per Reconnaissance, Intelligence, Surveillance, Target Acquisition - Electronic Warfare.

Inoltre, in ogni tragedia che ha colpito il popolo italiano le forze armate sono state sempre in prima fila nel soccorso, anticipando le funzioni attualmente ricoperte dalla Protezione civile. Dal terremoto del Friuli al terremoto dell'Irpinia fino alla partecipazione annuale alle operazioni antincendio con i propri mezzi aerei (come gli elicotteri Chinook CH-47 dotati di secchio), l'Esercito ha partecipato alle operazioni di soccorso in caso di calamità naturali, schierando ospedali da campo e mezzi per movimento terra.

E concludo con un cenno alla cronaca, con un pensiero ai nostri due commilitoni del Battaglione San Marco, reparto della Marina, a cui siamo particolarmente vicini come militari e come connazionali.

Grazie per la cortese attenzione.


* E' stata presa la decisione dalla Presidenza Nazionale su proposta della Segretaria , in contrasto con accordi verbali, che i numeri della Rivista per il 2012 saranno 4 anzichè 6. Pertanto il numero speciale dedicato al Covegno " I Soldati Salentini.La memoria storica dell'impegno" non potrà essere edito. Le relazioni che non possono trovare spazio sulla rivista verranno pubblicate, come d'uso, su questo blog.

venerdì 11 maggio 2012

Convegno Organizzato dalla Sezione di Matino 17 marzo 2012. Relazione di Giorgio Prinzi

In esito allo spazio disponibile sulla Rivista"Il Secondo Risorgimento d'Italia", la Direzione ritiene opportuno presentare lavori e note sul blog onde evitare la non pubblicazione. Per il Convegno di Matino del 17 marzo 2012 saranno pubblicate le relazioni e gli interventi, mentre sulla rivtsà apparirà la relazione illustrativa. Via via che le relazioni saranno pronte si pubblicheranno. Si inizia con la Relazione di Giorgo Prinzi




Relazione di Giorgio Prinzi
 al Convegno di Gallipoli del 17 marzo 2012.

Non sono uno storico, quindi affronterò l’argomento assegnatomi non da storico, ma da curioso di storia nel senso di chi cerca di capire il passato per meglio comprendere il presente. Sotto certi aspetti è il concetto classico di “storia maestra di vita”.

La prima cosa che salta in evidenza se ci si accosta all’argomento del Secondo Risorgimento d’Italia, come lo definiamo noi dell’Ancfargl, è il fatto che si ha l’impressione che la Resistenza, dizione più comunemente usata soprattutto per indicare la partecipazione popolare in armi, e la Guerra di Liberazione, la dizione propria degli storici di eventi militari, siano un fenomeno prettamente localizzato al Nord; questo in particolare se si usa la dizione Resistenza, meno se si fa riferimento alla dizione di Guerra di Liberazione, che però è tipica degli studiosi non dell’approccio popolare.

Perché questo? Forse perché, citando von Clausewitz in senso molto lato la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, letteralmente con la completa dizione «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi», quindi, non essendo ancora rinata in Italia alla data dell’armistizio dell’8 settembre 1943 la politica, la guerra come serie di eventi conflittuali sul campo e non come proiezione della politica e della sua conflittualità con altri mezzi non assurge, senza la politica e senza promanare da essa, neppure al livello di memoria collettiva, tanto meno di ricordo storico.

La svolta politica che rende gli eventi bellici una sua continuazione con altri mezzi si avrà infatti solo dopo il 4 giugno del 1944, quando con l’ingresso in Roma delle truppe della Nazioni Unite, questa era la denominazione della coalizione contrapposta all’Asse da cui tra origine e continuità per un nuovo ordine mondiale l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la politica, con il trapasso dei poteri dal Governo di Brindisi al Comitato di Liberazione Nazionale, torna a riproporsi nella vita nazionale a divenire terreno di confronto e di scontro, a porsi come visione ideologica sul campo, in particolare nell’ottica delle formazioni non regolari, di quella resistenza che finirà nel dopo guerra per venire strumentalizzata e quasi esclusivamente letta in chiave radicalizzata e di parte.

Ripeto, non sono uno storico e pertanto non intendo fare una trattazione puntuale ed esauriente sotto il profilo rigorosamente storico. Mi limito a citare una figura emblematica, cara alla realtà pugliese, quella del generale Nicola Bellomo, che riassumo per quanti non pugliesi ci leggeranno negli Atti.

Il generale Bellomo era stato richiamato in servizio dalla riserva nel febbraio del 1941 e assegnato alla difesa territoriale di Bari. Dopo il 25 luglio del 1943 ricevette l’incarico di fare transitare nei quadri dell’esercito gli appartenenti alla milizia. Questo era il suo compito alla data dell’armistizio.

La mattina del 9 settembre venne casualmente a sapere che i tedeschi erano in procinto di fare terra bruciata prima di ritirarsi, minando il porto di Bari per distruggerne le infrastrutture. Bellomo, di iniziativa, come si dice in gergo militare, raccolse alcuni nuclei di militari italiani presso la caserma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Guardia di Finanza A questi si affiancarono dei genieri del 9º Reggimento guidati dal sottotenente Michele Chicchi. Con queste forze, una sessantina di uomini, attaccò i guastatori tedeschi (circa duecento) che avevano già preso posizione nei punti chiave, costringendoli alla ritirata e infine alla resa. Bellomo rimase ferito; ritiratisi i tedeschi, gli inglesi poterono successivamente sbarcare a Bari in completa sicurezza, usufruendo di infrastrutture portuali pienamente efficienti

Di iniziativa agì a Roma nel settembre 1943, in quella che da parte tedesca viene definita la battaglia per Roma e da parte italiana la difesa di Roma, anche il generale Gioacchino Solinas, Comandante della Divisione Granatieri di Sardegna, che aveva appreso dell’armistizio via radio mentre in casa di amici stava sorbendo il forse più amaro caffè della sua vita, sempre che non si trattasse di un surrogato. Come a Bari con Bellomo, fu a Roma la determinazione di Solinas a consentire con truppe messe insieme per l’emergenza la riconquista delle posizioni strategiche, che avrebbero consentito di difendere la Capitale e che in seguito vennero fatte abbandonare d’ordine per consentire alle truppe tedesche di affluire al Sud e contrastare lo sbarco in atto a Salerno, anche se queste poi non giungeranno in tempo utile, proprio per l’ostacolo frapposto dall’iniziativa di Solinas che si portò dietro il dispositivo schierato intorno Roma e che in base agli ordini lasciati in appunto da Roatta prima di incamminarsi con il corteo reale verso Chieti e diramati solo in mattinata avrebbe dovuto rischierarsi sul crinale dei Monti Tiburtini per contrastare una presunta offensiva proveniente da sbarchi anglo americani alle foci del Tevere. Una tesi sviluppata compiutamente in “Salvare il salvabile”, il volume da me firmato insieme a Massimo Coltrinari, al quale richiamo per approfondimenti.

Perché questo inconsueto accostamento? Perché le decisioni prese indipendentemente e senza correlazione alcuna, se non quella del contingente temporale, da Bellomo e da Solinas erano esclusivamente dettate da ragioni di comportamento militare, non erano decisioni scaturite da posizioni o considerazioni politiche, quindi loro continuazione e messa in atto con le armi. Solo in seguito verranno lette e giudicate in chiave politica, per giunta avulsa dal contesto in cui erano scaturite.

Il generale Solinas aderirà in seguito alla Repubblica Sociale Italiana, schierandosi in tal modo in campo opposto a quello della cultura che si è appropriata dei fatti d’arme dirette conseguenze della sua iniziativa di soldato e ha risolto l’apparente contraddizione ignorando il dopo, la scelta di campo del generale Solinas non certo inquadrabile in essa.

Andò peggio a Bellomo quando la politica riprese il sopravvento e tentò di riappropriarsi con effetto retroattivo della sua continuazione con altri mezzi anche se nel momento contingente essa era latitante o comunque del tutto ininfluente sui fatti relativi. Per ragioni strategiche i tedeschi decisero di attestarsi più a nord e si ritirarono dalle Puglie e dalle regioni più meridionali della penisola. Se la tesi sostenuta in “Salvare il salvabile” ha, come siamo convinti, basi fondate, la politica che si riappropriava in senso retroattivo della sua continuazione con altri mezzi non poteva non vedere in Bellomo altro che un traditore, anche se la politica, secondo la tesi sostenuta in “Salvare il salvabile” era rimasta in quell’occasione prigioniera di un ingannevole gioco, che era fallito provocando la tragedia dell’8 Settembre,

Il generale Bellomo verrà fucilato dagli inglesi dopo un processo, che da adito a moltissimi dubbi, ad esempio sull’attendibilità delle testimonianze italiane decisive dopo una totale “ripuntualizzazione”; l’argomento è stato peraltro in passato già affrontato in chiave critica nell’ambito di convegni dell’Ancfargl. Forse potrà e dovrà solo venire ripreso più approfonditamente e riletto senza le originali distorsioni.

Allo stesso modo si dovranno rileggere gli avvenimenti della Battaglia per Roma, inquadrandola peraltro nel suo complesso e non solo nelle fasi finali del 10 settembre 1943 a Porta San Paolo. La politica che trasforma la guerra in una sua continuazione con un effetto retroattivo si trasformerebbe allora in uno dei elementi di rilettura e di ricostruzione storica, non più di sua disinformazione. Nel nostro piccolo, lo abbiamo fatto con “Salvare il salvabile”, l’amico Coltrinari che al contrario di me è realmente uno storico si è per certi versi specializzato in questo settore della rilettura di pagine di storia acquisite con deformazioni dovute a circostanze contingenti, mai poi più rimosse.

Ma torniamo al tema generale. La Puglia, il Salento, ha visto la resistenza in armi sin dal primo momento. Il nostro Presidente Nazionale, il generale senatore Luigi Poli, allora giovanissimo subalterno, ha avuto il suo battesimo del fuoco proprio qui in Puglia, dove era giunto per imbarcarsi per i Balcani. Il sopraggiungere dell’armistizio lo vide protagonista di una scelta di campo, in un primo tempo dettata più dalle regole comportamentali di soldato, poi con il tempo divenuta sempre più consapevole e profonda. Ma anche noi dell’Ancfargl poniamo l’accento sulla battaglia di Montelungo e non ricordiamo con la stessa enfasi, ad esempio data agli avvenimenti concomitanti di Porta San Paolo a Roma, gli omologhi eventi e fatti d’arme avvenuti qui nelle Puglie. Per questi motivi le Vostre iniziative, questi convegni, i libri che cominciano a venire scritti sulla transizione armistiziale in Puglia assumono un significato particolare.

La ritirata tedesca renderà le Puglie retrovie sotto l’aspetto delle operazioni militari, ma la renderanno prima linea sotto quello della politica, di quella stessa politica che in altre parti d’Italia, trasformandosi con l’avanzare del fronte, continuava e si concretizzava con mezzi diversi.

Il Governo di Brindisi non venne mai riconosciuto dalla controparte della firma armistiziale, ma venne riconosciuto dall’Unione Sovietica di Stalin nell’ottica di quel tradizionale realismo opportunista che cercava di ottenere trattando su più tavoli quegli spazi che si vedeva precluso da un armistizio che era divenuto solo e soltanto una pesantissima resa senza condizioni. L’arrivo in Italia di Ercole Ercoli, pseudonimo di Palmiro Togliatti, si inquadra in queste poco note vicende, che prevedevano di fatto la collocazione dell’Italia nella sfera di influenza sovietica con concessione alla medesima di importanti basi militari sullo stesso territorio pugliese in cui furono di stanza reparti militari russi. La monarchia si illudeva di salvare se stessa cercando intese ad Est attraverso un nuovo regime totalitario; il possibilismo istituzionale di Togliatti, rientrato con regolare salvacondotto, è frutto di questo poco noto accordo, poi definitivamente superato e compromesso dalle spartizioni di Yalta.

Alcuni aspetti della guerra combattuta non con le armi sono poco noti e sono da me stati raccolti attraverso testimonianze dirette, quali quella dell’ingegner Antonio Ambra, protagonista di quegli eventi e testimone diretto.

Quelli dell'Esercito del Sud, ricostituito proprio qui in Puglia divenuta centro di addestramento e base di partenza, vengono e sono ancora oggi definiti con l’epiteto di "badogliani". È semmai vero il contrario, secondo quanto mi ha riferito l’ingegner Ambra, le cui dichiarazioni ho riportato in un articolo pubblicato su Agenzia Radicale sabato 9 maggio 2009.

La tesi prevalente tra i politici di allora che operavano nell’ambito dei “partiti antifascisti” era quello di « la guerra lasciatela agli americani ». Noto e citatissimo è il passo di un articolo a firma di Antonio Maccanico, futuro Segretario Generale alla Presidenza della Repubblica ai tempi del Presidente Sandro Pertini, pubblicato su "Irpinia Libera", organo del Comitato di Liberazione Nazionale, sul n° 6 del 4 dicembre 1943, pochi giorni prima del battesimo del fuoco del rifondato Esercito a Montelungo. Scriveva Maccanico «Si sappia una volta per sempre, noi non ci lasceremo cucire patacche, né ci faremo irreggimentare in compagnie di ventura: sappiamo l'importanza che avrebbe per gli sfruttatori una cieca frenesia bellica e le conseguenze di una falsa union sacrée, perciò non ci prestiamo al gioco»

Come puntualizzato qualche riga sopra e che per enfasi ribadisco, il Governo di Brindisi venne riconosciuto solo dall'ex Unione Sovietica con un accordo che prefigurava la collocazione dell'Italia nella sua sfera di influenza. Ercole Ercoli, alias Palmiro Togliatti, ebbe il lasciapassare per il suo rientro in Italia proprio a seguito di questo accordo e del probabile illudersi della monarchia e del governo da essa ispirato di potere perpetuare l'istituzione con l'appoggio di un nuovo totalitarismo, quello comunista in luogo del precedente fascista.

Il primo Raggruppamento Motorizzato, quello che combatté a Montelungo e che era stato costituito il 27 settembre 1943 a San Pietro in Vernotico (LE), era inviso al governo di Brindisi e allo speculare e concorrente "contro governo" del Comitato dei Partiti antifascisti, divenuto Comitato di Liberazione Nazionale. Le ragioni erano differenti, ma lo sforzo sinergico. Il Governo Badoglio aveva dei complessi nei confronti dell’ex alleato tedesco, non voleva caratterizzarsi troppo sul piano dell’impegno militare in un conflitto che in quel frangente aveva le caratteristiche di guerra civile. L’Italia era divisa in due, non solo geograficamente. In armi si contrapponevano italiani in uniforme inglese ed italiani in uniforme tedesca. A Montelungo, venendo da Cassino, c’è una stele che ricorda il capitano/maggiore a seconda dell’ottica di schieramento (maggiore per la Repubblica Sociale Italiana, grado non riconosciuto dalla controparte) Rino Cozzarini eroicamente caduto alla testa di un battaglione di italiani che avevano fatto una scelta di campo diversa e combattevano con l’uniforme tedesca. Con un gesto di pietas e di riappacificazione nazionale, sconosciuto a che ancor oggi vive quegli avvenimenti con emotività ideologica, il nostro Presidente Nazionale generale Poli, prima di annualmente recarsi a ricordare la memoria dei commilitoni caduti inquadrati nei reparti del rifondato Esercito nazionale, si ferma in raccoglimento e depone un mazzo di fiori nel punto in cui cadde Cozzarini, segnato da quella stele.

Perché parlando dell’accordo tra governo di Brindisi e Mosca abbiamo parlato di illusione sulla continuità istituzionale? Perché il partito comunista dell’epoca aveva elaborato una strategia che fosse strumentale alla definitiva sua presa del potere a guerra finita. Il piano, definito in codice “Paino E”, prevedeva che il Congresso del Comitato di Liberazione Nazionale, svoltosi al Teatro Piccinni di Bari il 28 e 29 gennaio 1944, avesse come culmine la proclamazione di Togliatti, che per questo non vi prendeva parte, come Capo provvisorio del futuro governo nazionale,

L’intelligence statunitense venne a conoscenza del piano, che fu fatto fallire dall'intervento dell'ingegnere Antonio Ambra, allora volontario del Raggruppamento Motorizzato, che benché ferito e ricoverato in ospedale venne dimesso e portato a Bari a bordo di un gippone statunitense proprio per contrastarne la messa in atto. In realtà ad Ambra, che si presentò all’ingresso del Teatro Piccinni in uniforme, venne impedito di entrare; per aggirare l’ostacolo Ambra si recò a denunziare la cosa ad una concomitante riunione di area cattolica e liberale che si svolgeva al Teatro Petruzzelli. L’effetto della pubblica denunzia fu devastante e fece fallire il piano a causa del timore che colse i protagonisti che si erano sentiti spiati e scoperti.

Tornato al Piccinni, Ambra ebbe un violento scontro verbale con i partecipanti che uscivano e venne da alcuni di costoro selvaggiamente aggredito. Per la “rissa” subì un formale processo al rientro al reparto, proprio per il fatto che aveva agito in uniforme, ma ovviamente venne scagionato da ogni addebito con la motivazione che aveva agito per l'onore del Reparto e dei suoi commilitoni.

Questa chiave di lettura è stata confermata da analoghe dichiarazioni di Giorgio Spini, che oltre essere uno storico, come aderente al Partito d’Azione, partecipò di persona a quella riunione La sua testimonianza è, inoltre, particolarmente attendibile in quanto, dopo aver attraversato il fronte che divideva la Penisola ed essere giunto a Bari, entrò a far parte dell’Ufficio Stampa del Comando supremo badogliano, da cui venne poi, allontanato per le idee sovversive. Entrò quindi a far parte del «Pwb Combat Team», un’unità incaricata di occuparsi d’informazione e di controinformazione.

Ad Ambra promisero che gliela avrebbero fatta pagare. Mentre era impegnato in prima linea come capo della pattuglia osservazione e comunicazione venne a sapere della sua incriminazione, tra l'altro formalizzata a distanza di quattro mesi dal presunto evento, per diserzione in quanto si era arruolato volontario nel Raggruppamento Motorizzato pur essendo effettivo a un battaglione universitario di allievi ufficiali, chiamati per punizione alla armi per avere nel dicembre del 1940 manifestato, a Roma sotto la guida di Ambra, contro la politica del regime fascista e l'entrata in guerra a fianco dei tedeschi.

Per evitare di doverlo consegnare a quelle che formalmente erano comunque le superiori autorità, il Comando del Raggruppamento mise Ambra in licenza straordinaria per sei mesi, consentendogli di trovare asilo presso la Divisione statunitense Texas di cui godeva stima e fiducia, e presso la quale continuerà a combattere per tutto il resto della guerra, nonostante nel frattempo, pur essendo impegnato in prima linea, venisse condannato a morte per diserzione. La paradossale vicenda venne definitivamente “archiviata” solo molti anni dopo la fine della guerra.

Non fu un caso isolato, perché il battaglione universitario di allievi ufficiali "Marostica" venne in massa processato per ammutinamento in quanto aveva collettivamente protestato contro lo scioglimento del Primo Raggruppamento Motorizzato. I suoi membri vennero rinchiusi nella fortezza di Sant'Elmo, a Napoli, e liberati dopo prese di posizioni politiche inspirate dallo stesso Ambra a guerra finita da tempo.

Secondo quanto riferitomi dallo stesso Ambra furono questi i reali motivi che portarono allo scioglimento del 1° Raggruppamento Motorizzato e la sua immediata ricostituzione, per motivi speculari opposti da parte statunitense, in Corpo Italiano di Liberazione, il CIL.

Di queste testimonianza da me raccolta direttamente dall’ingegner Ambra si trova traccia anche in suo articolo pubblicato su “il Secondo Risorgimento d’Italia”, che ho letto in citazione senza riferimento al numero di fascicolo ed alla data di pubblicazione, «I soldati pensarono di farsi giustizia da soli.- Io che da acceso repubblicano e portavoce del partito popolare avevo capeggiato i moti studenteschi dell'Università di Roma contro il fascismo nel 40 organizzai coi bersaglieri del LI una spedizione punitiva, guidata dal comandante dell'11° artiglieria, aiutante di campo del re, contro i denigratori asserragliati nella tipografia Pergola.. prendemmo a calci nel sedere gli studenti imboscati e qualche tipografo e Antonio Maccanico».

Come si vede la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, anche con le denominazioni e con le parole, con la propaganda e con le azioni di guerra psicologica.

Ed è ancora la politica le cui vicende maturano a seguito degli sviluppi militari sul campo che si riappropria con effetto retroattivo di essi come sua continuazione in senso clauseviziano. L’entrata in Roma il 4 giugno 1944, che è un fatto militare, ha effetti politici. Il riferimento istituzionale, perché non si può parlare di responsabilità di governo nel significato sostanziale del termine, passa dal Governo di Brindisi, al Comitato di Liberazione Nazionale con sede a Roma. È una transizione di un potere virtuale, ma di grande impatto politico, perché informa la politica nazionale italiana, almeno quella parvenza che si tentava di ricostruire dopo un ventennio di regime, al compromesso che caratterizzerà l’Italia del dopoguerra anche dopo l’abbattimento del Muro di Berlino e, forse, sino ancora ad oggi.

Come abbiamo di recente in maniera documentale appreso dall’apertura degli archivi dell’ex Unione Sovietica, anche se la questione è agli Atti del Convegno Ancfargl di Bari del 28, 29, 30 aprile del 1994, pagina 217 e seguenti nella Relazione di Nicola Oddati “1944: dal ripristino delle relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica alla svolta di Salerno”, Stalin intenzionato a trovare un compromesso tra partiti antifascisti, monarchia e Governo Badoglio, che consentisse la formazione di un governo di unità nazionale, decise di temporaneamente accantonare la questione istituzionale. inviando a tal fine in Italia il diplomatico Vichinsky, tristemente noto per i processi di Mosca, che propose all'ambasciatore Renato Prunas una collaborazione tra Stato Italiano e Partito Comunista Italiano. L'obiettivo primario di Stalin non era quello di portare sotto influenza sovietica l'Italia, bensì rendere legale il partito, anche se l’accordo prevedeva la concessioni di basi militari all’Urss in territorio italiano a guerra finita.

Questa linea politica, che caratterizzerà l’azione del Partito Comunista Italiano sino alla scelta istituzionale, era stata in precedenza anticipata con due sue interviste rilasciate al Cairo e ad Algeri, ma venne resa nota per la prima volta in Italia, il 31 marzo del 1944 nel corso della riunione dei quadri dirigenti del 1° Consiglio nazionale delle regioni liberate, convenuti a Napoli, dove Togliatti era sbarcato giorno 27 marzo.

Essa venne meglio precisata nei dettagli nella risoluzione conclusiva dei lavori del Consiglio nazionale del partito comunista e nell’intervista che lo stesso Togliatti rilasciata all’Unità il successivo 2 aprile. In quella circostanza venne deciso di rinviare la soluzione delle questioni istituzionali alle decisioni di un’Assemblea nazionale costituente che si sarebbe dovuta convocare subito dopo la fine del conflitto; per l’immediato, si proponeva, di creare un nuovo governo provvisorio, rappresentativo di tutti i partiti antifascisti, che fosse in grado di creare un esercito in grado di combattere risolutamente contro i tedeschi ed i fascisti.

Dei lavori di quel Consiglio nazionale non esiste un verbale degli interventi, tuttavia, nonostante Togliatti avesse tracciato le linee di un radicale capovolgimento della strategia rispetto agli obiettivi perseguiti nei mesi precedenti ed alle aspettative dei propri militanti, non risulta vi siano state voci di opposizione.

Fece seguito la costituzione di un secondo Governo Badoglio, che si insediò a Salerno, dove rimase in “carica” sino alla conquista di Roma il 4 giugno 1944. Per queste circostanze questi eventi sono noti ed indicati dagli storici come la svolta di Salerno.

Altro momento fondamentale della politica che rende come sua continuazione retroattiva gli avvenimenti militari sul campo di battaglia è il primo discorso pubblico in Roma liberata che Alcide De Gasperi tenne al Teatro Brancaccio il 23 luglio 1944. Il testo integrale è consultabile sulla pagina web http://www.democraticicristiani.it/documenti/adg_01.html. Alcide De Gasperi, in quel momento storico parlavo in qualità di “ministro” del “governo” guidato da Ivanoe Bonomi, che era espressione del Comitato di Liberazione Nazionale

Il discorso viene così sintetizzato nella citata pagina web: «Si parla della guerra che continua da una parte e della ricostruzione che deve essere già avviata dall'altra, si parla degli Alleati, dell'armistizio e dei prigionieri. Molto delicata è la questione istituzionale (repubblica o monarchia?), e De Gasperi fa prevalere le ragioni della responsabilità di un momento critico come quello del momento sulla necessità di una scelta immediata con la guerra ancora in atto. Molto delicato (e prudente) è anche il rapporto con i comunisti italiani e l'Unione Sovietica di Stalin, i primi alleati nel CLN ed i secondi in guerra contro Hitler: la necessità di salvaguardare l'unità di intenti con la guerra ancora in corso in metà paese è preponderante su qualunque possibile polemica».

Come si vede esso traccia le linee guida di quella che sarà lo scenario politico nazionale del dopoguerra, sino al cosiddetto compromesso storico e, per molti aspetti, sino ai nostri giorni. Questo scenario fu e per molti versi è ancora fortemente condizionato dagli accordi di Yalta, in Crimea, i cui lavori si svolsero nel Palazzo di Livadija, vecchia residenza estiva di Nicola II, fra il 4 e l'11 febbraio 1945. Una condizione che impediva al più grande partito comunista dell’Europa di aspirare di andare al governo, ma che proprio per questo contribuì a creare e rendere stabili il cosiddetto regime consociativo che ha impedito alla rinata democrazia italiana di divenire matura e completamente realizzata.

Ed in questa mia ottica di lettura, una sorta di retroattività dell’asserto di von Clausewitz, assumono valenza politica gli eventi militari sul campo, quale la ristrutturazione delle rifondate Forze Armate e il paggio dal Corpo Italiano di Liberazione ai Gruppi di Combattimento, progenitori dell’Esercito Italiano della Repubblica scaturita dalla consultazione referendaria del 2 giugno 1946.

Il comportamento sul campo di battaglia del Cil, le forti motivazioni dei combattenti e i loro sempre più stretti legami con gli eserciti loro nemici sino all’8 settembre 1943, portarono a rivedere la sorte riservata all’Italia già a dicembre del 1940. L’interesse angloamericano per l’Italia si limitava alla Sicilia, forse con estensione all’altra isola maggiore la Sardegna. Questo il reale motivo della conquista della Sicilia a seguito dello sbarco effettuato nel luglio del 1943 e degli avvenimenti che si susseguirono in quella regione, quali la creazione del Movimento Indipendentista Siciliano di Finocchiaro Aprile, di cui i miliziani al comando del colonnello Salvatore Giuliano costituivano il braccio armato combattente. La prospettiva era quella di un distacco della Sicilia dal resto dell’Italia con l’aspirazione a divenire all’epoca la quarantanovesima stella della bandiera statunitense. All’8 settembre del 1943 i piani delle Nazioni Unite non prevedevano alcuno sbarco, se non per motivo di alleggerimento nei territori viciniori alla Sicilia, in Italia, il cui territorio avrebbe dovuto subire pesanti bombardamenti volti a fiaccare il morale e la volontà di resistenza con la prospettiva di smembramento al termine della guerra.

Ed ecco che con il trapasso dei poteri dal Governo Badoglio al Governo Bonomi, reso possibile e politicamente credibile dall’eroico impegno militare sul campo da parte dei combattenti del Sud, si comincia a prefigurare per l’Italia un destino meno tragico, quello del mantenimento dell’unità territoriale e di un’Italia nuovamente unita e solidale dopo le divisioni della guerra, con connotazioni di guerra civile, in quanto inquadrati nei due contrapposti schieramenti c’erano italiani che si combattevano in armi, indossando uniformi di eserciti stranieri. Da quella data, per tacito accordo delle potenze contrapposte gli italiani inquadrati nelle opposte coalizioni vennero impiegati su fronti diversi, sul versante adriatico quelli del Sud, sul versante tirrenico quelli della Rsi.

La prefigurazione di una futura Italia democratica rese inoltre possibile che si cominciasse a pensare alla ricostituzione organica delle sue Forze armate. Già il 31 luglio 1944, a solo circa due mesi dal ritorno di Roma quale capitale, venne autorizzata da parte della sino ad allora estremamente punitiva Commissione interalleata di controllo di sei Gruppi di Combattimento che assumeranno i nomi di sei gloriose divisioni: Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova e Piceno. Esse subentreranno al Corpo Italiano di Liberazione definitivamente sciolto il 25 settembre 1944, alla vigilia di un inverno impegnativo e pesante.

È questo il passaggio cruciale da esercito sconfitto, verso cui sussistevano enormi remore e diffidenze, a esercito sia ancora non completamente alleato con pieno riconoscimento politico, almeno a cobelligerante stimato e di pari dignità, tanto che alla ripresa dell’offensiva dopo la stasi invernale i reparti italiani, ai quali sino ad allora era stato impedito sfilare nelle città liberate, poterono essere tra i primi, se non i primi, ad entrare e sfilare nelle città che veniva via via raggiunte e liberate.

Questa la mia chiave di lettura che si distanzia molto da quella classica, quale un ponderoso saggio, redatto in occasione del Cinquantenario della Guerra di Liberazione, di cui sono Autori il nostro Presidente Nazionale generale e senatore Luigi Poli ed il professor Gianni Oliva, sotto il titolo “Le Forze Armate dalla Guerra di Liberazione alla nascita della Repubblica, 1943 - 1947” Il documento è scaricabile da internet in versione pdf alla pagina web http://www.dssm.uniba.it/docenti/didattica-orlandi/le_forse%20armate_parte_I.pdf. Ad esso richiamo chi volesse documentarsi secondo la chiave di lettura storica classica e non interpretativa degli avvenimenti, quali quella fatta da un non storico come chi vi parla.

Ed è ancora la politica a condizionare con la sua continuazione sul campo di battaglia in quello strano effetto retroattivo delineato all’inizio della mia esposizione le ultime fasi della guerra e la chiave di lettura storiografica ancora imperante ai nostri giorni. A rigore logica era il Cln centrale, di cui era espressione il Governo Bonomi, ad avere la responsabilità politica dello sforzo bellico e delle rifondate Forze armate. Nella realtà dei fatti, per un insieme di cause contingenti, ad effettivamente svolgere questa funzione nei durissimi anni 1944 - 1945 fu il Comitato di Liberazione Nazionale Nord Italia, impegnato soprattutto nella lotta e nell’attività politica clandestina. In genere i vari Comitati locali ritennero di avere riconquistato la libertà quando, indipendentemente dall’andamento delle operazioni sul campo, poterono svolgere apertamente attività pubblica senza correre alcun pericolo. Caso emblematico è quello di Firenze la cui ricorrenza della liberazione della città viene ricordata l’11 agosto con circa quaranta giorni di anticipo rispetto alla effettiva liberazione di tutto il territorio comunale, che si concluse il 20 settembre 1944.

Perché cito questo caso emblematico? Perché la data del 25 aprile 1945, che viene celebrata come ricorrenza della Liberazione nazionale risente del modo in cui la componente politica clandestina visse gli eventi militari, sui quali non aveva controllo effettivo. La vittoria finale per i Comitati di liberazione locali, a Firenze come a Milano veniva conseguita dalla loro ottica nel momento in cui aveva fine la clandestinità. Più che di liberazione in senso compiuto di tutte le operazioni militare deve pertanto intendersi quello della fine dell’incubo poliziesco, la riconquista delle più elementari libertà democratiche da parte dei “governi” provvisori clandestini sino a quel momento.

A Milano il trapasso di giurisdizione avvenne il 25 aprile senza grossi traumi militari, con l’assunzione del controllo dei principali edifici pubblici da parte della Guardia di Finanza. Non fu una vittoria militare sul campo, ma un avvicendamento concordato. Solo che questo consentì al Cln del Nord Italia, l’unica componente del Cln effettivamente operativa con rischi enormi e con enormi sacrifici di uscire di clandestinità, di assaporare i momenti della riconquistata libertà democratica apertamente e senza per questo correre più rischi di venire arrestati e processati e, magari, passati per le armi. Era per loro la liberazione, da un incubo ancora prima che da un regime e da una occupazione militare.

La cessazione delle ostilità si ebbe in effetti sul fronte italiano il 2 maggio successivo, in tutta Europa l’8 maggio del 1945, che a causa della differenza di fuso orario in Russia cadde il giorno successivo, il 9 maggio. Queste sono le date significative sul piano strettamente militare delle ostilità. Ma dai patrioti che non combattevano inquadrati in eserciti regolari, la fine dell’incubo si ebbe con l’uscita della clandestinità. Questo fu per loro il giorno della vittoria e siccome proprio per l’assurdo asserzione fatta all’inizio della nostra relazione che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, addirittura con effetto retroattivo, il giorno della vittoria finale da questa prospettiva non coincide con la fine effettiva di ogni ostilità militare.

Detto per inciso, il primo 25 aprile a Milano venne festeggiato il 4 maggio 1945 con una sfilata in corteo aperto dai protagonisti del Comitato di Liberazione Nazionale del Nord Italia.

Mi si consenta una divagazione, prima di concludere. Matino, della cui Sezione Ancfargl oggi siamo ospiti, più in generale le Puglie hanno un ruolo importante sotto il profilo della formazione culturale nella storia di quel periodo.

Apprendiamo da un saggio del professor di Jerzy Adam Radomski, gentilmente inviatoci in lingua italiana dall’Accademia Polacca delle Scienze di Roma, che dal 21 settembre 1944 su disposizione del gen. Anders venne organizzato un servizio di istruzione e di educazione del 2 Corpo Polacco. A capo del servizio venne posto il prof. Jerzy Aleksandrowicz il quale organizzò un continuo aggiornamento dell’istruzione e dell’educazione dei soldati che si teneva fuori dalla prima linea e, nel caso dei soldati di linea anche durante le pause nei combattimenti.

Ad Alessano e a Matino vennero tenuti corsi per la preparazione agli esami di maturità; furono organizzati ginnasi e licei a Trani, Amendola, un istituto commerciale a Casarano, un istituto tecnico meccanico ad Altamura, un istituto tecnico agricolo a Lecce, una scuola per meccanici (Junacka Szkoła Mechaniczna) a Barletta.

Purtroppo lo sforzo del generale Anders di creare una classe dirigente per una Polonia risorta dalle vicende belliche falli una seconda volta di fronte alla repressione della dittatura comunista, che si era già resa responsabile dell’eliminazione della precedente classe dirigente con l’eccidio di Katyn.

La quasi totalità degli oltre centomila reduci dalla guerra in Europa che decisero di tornare in Polonia sperando di contribuire a ricostruirla, giunti in patria, vennero deportati senza spesso neppure riuscire a mettere piede a terra. Molti insieme alla proprie famiglie.

Mi auguro che questo prezioso documento venga presto pubblicato su “il Secondo Risorgimento d’Italia”. Credo sia un doveroso riconoscimento a quei soldati che combatterono anche in Italia e nei cui ranghi vennero inquadrati i nostri Gruppi di Combattimento. La Polonia, nonostante il valore ed il sacrificio di centinaia di migliaia di suoi cittadini ebbe meno fortuna dell’Italia, essendosi venuta a trovare dalla parte sbagliata della linea di demarcazione convenuta ad Yalta.

Giorgio Prinzi