Il caso McChrystalAfghanistan,
qualcosa non funziona
Mario Arpino
08/07/2010
La “questione McChrystal” è stata subito liquidata come un grave gesto di insubordinazione. Un gesto non tollerabile, ed in effetti con rapidità estrema lo stesso generale ed il Comandante in Capo ne hanno tratto le debite conseguenze. Nelle accademie si insegna che chi non riesce a stare al passo è meglio che esca dai ranghi. È quel che si è fatto, senza andare troppo per il sottile. Ma i suoi soldati lo amavano perché era come loro, li proteggeva e sapeva combattere. Era un Capo credibile. La scelta del sostituto operata da Barack Obama e dal ministro della Difesa Robert Gates è ineccepibile, operativamente la migliore, ma “tecnicamente” non può non suscitare qualche perplessità. Certo, Stanley McChrystal l’ha fatta grossa, ma non va dimenticato che non è né un pazzo, né uno sprovveduto. Eseguiva i piani elaborati dal generale David Petraeus, approvati da Gates ed in linea con la politica presidenziale. Ma Gates è rimasto al suo posto e, cosa davvero inconsueta in ambito militare, Petraeus ha assunto direttamente un comando prima tenuto da un suo subordinato. Siamo nell’esercito americano, non in una procura periferica, dove il procuratore capo avoca a sé il fascicolo di un sostituto poco convincente.C’è qualcosa che non va…Decisamente ci deve essere qualcosa che non va in questa campagna afgana, perché, non molto tempo fa, in Inghilterra aveva dato le dimissioni il generale Andrew Mackay, il protagonista della riconquista di Musa Qala, nel nord dell’Helmand. Aveva espresso l’opinione che la politica ministeriale fosse troppo lontana dalla realtà sul terreno e “istituzionalmente incapace” di gestire la missione in Afghanistan. C’è da riflettere. Probabilmente politici e militari non si sono intesi bene sulle procedure e sulle finalità. McChristal continuava a chiedere le truppe che gli erano state promesse perché probabilmente era convinto di dover vincere davvero sul terreno, e aveva capito – anzi, aveva segnalato – che i tempi sarebbero stati molto lunghi. Incompatibili con la data di “inizio ritiro” - agosto 2011 - indicata inequivocabilmente dal Comandante in Capo. Ora Petraeus, che non è più né a Tampa né in Iraq, ma in Afghanistan, dovrà necessariamente far quadrare il cerchio delle incompatibilità tra “ordini ricevuti” e “impossibilità pratiche”. Senza protestare, senza chiedere troppo e senza farsi cacciare, come accaduto al suo discepolo e amico McChrystal. È un militare abituato alla politica, e probabilmente ce la farà. Riuscirà a dividere, come gli è stato richiesto, i talebani buoni da quelli cattivi, a convincerli, almeno per il tempo necessario, che il governo Karzai è onesto, giusto, legittimo ed efficiente, e a convincere se stesso – anche in questo caso per il tempo necessario – che le forze armate afghane e la polizia in poco tempo hanno fatto passi da gigante e saranno in breve in grado di controllare autonomamente la situazione sul terreno, magari aiutati a mantenere l’ordine e la disciplina dalle bande formate con i 20 mila uomini armati del clan degli Haqqani. Con l’aiuto dell’Isi (interservice intelligence) e con il capo di stato maggiore pachistano Kayani come mediatore.Politici e generaliPuò anche darsi che le cose vadano diversamente, perché è anche vero che non tutti i politici sono uguali, così come non lo sono tutti i generali. Il problema è che, nessuno si offenda, le due categorie sono nate, cresciute e vivono rispettando - o meno - principi diversi. Non migliori o peggiori, solo diversi. Questo è il motivo per cui, a volte, al di là della cortesia, il loro è un rapporto sofferto. E gente come Stanley McChristal e il britannico Andrew Mackcay ci soffre parecchio. Bisognerebbe non farli generali o, in alternativa, individuarli prima e non mandarli a combattere guerre che non sono tali e, quindi, non hanno necessità di essere vinte. Ma non è la regola. Ci sono dei militari che con i politici ci si trovano benissimo, tanto da dedicare a questo rapporto gran parte della loro carriera. Con questo tipo di generali, anche i politici vanno d’accordo, e tra loro si capiscono immediatamente. Con gli altri sono più attenti, ed è difficile – talvolta succede – che il rapporto si trasformi in amicizia. Si tratta di culture diverse, originate, più che dal male o dal bene, da differenti esigenze. In effetti, un politico avrebbe i giorni contati se applicasse alle lettera i principi che le accademie militari cercano di inculcare negli allievi, e, se un allievo si muovesse con la disinvoltura con cui usualmente devono muoversi i politici, sarebbe ben presto espulso dall’istituto. Ci sono poi dei casi in cui qualche generale diventa egli stesso un politico, ma solo di rado l’operazione ha successo. Non ci sono invece politici che diventano generali. Qualcuno in verità ha provato ad assumerne le prerogative, ma il risultato è stato ciò che oggi possiamo osservare in Afghanistan e che avevamo già visto in Iraq. Ricordiamo, a questo punto, anche le dimissioni del generale Franks al termine della campagna, o del generale Shinsechi, capo dell’esercito, che considerava insufficienti a controllare il territorio le truppe assegnategli dal tecnologico Rumsfield. Se la guerra è cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali, farla fare ai politici può essere un disastro. In Italia, a dir la verità, gli “scontri” veri e propri si contano sulla punta delle dita, perché i militari sanno bene che “la politica è tutto” e che loro ne sono un mero strumento, assieme alla diplomazia ed altri ancora. I militari rimangono molto male quando si accorgono che quelle che essi ritengono essere virtù, quali la disciplina e il senso del dovere, vengono scambiate per debolezza, o remissività. Il fatto è che, in genere, dopo aver detto le loro ragioni, fanno un passo indietro e obbediscono, anche se sono convinti di non avere torto. In questi casi, nel ritirarsi, cercano solo di limitare i danni, facendosi a volte carico di responsabilità non proprie.Limitare i danniAnche Petraeus cercherà di limitare i danni, ma non quelli “collaterali”. Assumendo il comando, infatti, ha già dichiarato che dovrà rivedere le regole di ingaggio, per adattarle all’offensiva già in preparazione per liberare l’area di Kandahar. Qualcosa come era stato fatto a Marijah nell’Helmand, ma con più forze e maggiori mezzi e, possibilmente, anche con maggiore successo, visto che la città è già stata in parte rioccupata dai talebani. McChrystal, ligio agli ordini ricevuti, aveva disposto di ricorrere all’uso dell’artiglieria e dell’aviazione solo in casi estremi. Petraeus, invece, non potrà permettersi di lesinare troppo. McChristal aveva dovuto rallentare perché, specie negli ultimi mesi, aveva visto raddoppiare il numero dei morti. Petraeus sa che dovrà vincere su altri tavoli piuttosto che sul terreno, diminuendo anche drasticamente il numero delle vittime americane. Ma se proprio, visto che siamo in guerra, i morti ci devono essere – metterà ogni cura perché non succeda – ovviamente è di gran lunga preferibile che siano afghani. Il generale, più vicino alla politica del predecessore, si ricorda che prima di iniziare la campagna irachena e quella afghana, era stato valutato che il numero massimo di vittime che il popolo americano era in grado di “assorbire” era all’incirca di cinquemila. Ormai ci siamo. Quattromila in Iraq e mille in Afghanistan. Basta così. Ora bisogna davvero “vincere” comunque e iniziare il rientro delle truppe secondo il calendario indicato dal Presidente al Congresso ed al popolo. Ne va della sua credibilità come Comandante in Capo di fronte all’America. E non pare proprio sia questa la stagione più adatta.
Mario Arpino, già capo di SMA e di SMD, è presidente di Vitrociset S.p.A. (tecnologie avanzate, spazio, ingegneria logistica e reti digitali). Giornalista pubblicista, è membro del comitato direttivo dell’Istituto Affari Internazionali.
(Tratto da Affari Internazioli, Rivista online di Politica, strategia ed economia,
http://www.affarinternazionali.it/) ( luglio 2010)