UNA DISFATTA MORALE
Filippo Stefani
L'8 settembre fu prima di tutto una disfatta morale. Il tessuto connettivo spi rituale e morale, faticosamente costruito dal 1848 in poì, subì una lacerazione ampia e profonda, di difficile e lunga rimarginazione, le cui cicatrici sono ancora visibili. Il disorientamento fu gravissimo e generale. Molti mali morali dei quali l'Italia, a quarant'anni dall'evento, continua a soffrire ebbero origine da quella catastrofe. Il marasma spirituale e morale non fu minore di quello politico e militare. Entrò in crisi la stessa coscienza unitaria della nazione, messa in grave pericolo dalla divisione in due tronconi del territorio nazionale, uno alla mercé degli anglo‑americani, l'altro dei tedeschi. 1 valori tradizionali, per la cui affermazione e difesa si erano battute intere generazioni ed avevano sacrificato la vìta centinaia di migliaia dì soldati, persero, nella coscienza di molti, credibilità ed affidabilità. La sedizione di Mussolini e dei fascisti, decisi a continuare la lotta a fianco dei nazisti, provocò la guerra civile. Nuovamente terra di dominìo degli stranieri, l'Italia sembrò tornare alle forme deteriorì del periodo medioevale. La depressione spirituale e morale incentivò l'obnubilamento di molte coscienze, indusse a scelte opportunistiche e di comodo, favorì la fuga dalle responsabilità.
Nel vuoto spirituale morale, singoli e gruppi, in buona parte, non seguirono che l'impulso di interessi contingenti e materiali, ignorando i diritti e le ragioni della Patria, e si ebbe così un processo di dissoluzione che parve inarrestabile, ma che per grazia di Dio non lo fu.
Della disfatta militare abbiamo già trattato, ma ci sembra conveniente riassumere in un quadro unitario le cause che ne furono l'origine. Di queste la principale non fu la superiorità delle forze tedesche. A tale riguardo occorre precisare che le forze tedesche erano inferiori numericamente a quelle italiane: 17 divisioni tedesche contro 24 italiane (delle quali 9 in ricostituzione) nel territorio nazionale, Sardegna compresa; 20 divisioni tedesche contro 35 italiane nei territori occupati ed in Egeo. Ferma restando la relatività del valore del raffronto numerico tra divisioni con coefficienti di potenza e di capacità operativa assai diversi, non si può egualmente parlare di superiorità quantitativa tedesca. In particolare, ad esempio, a Roma le forze tedesche terrestri l'8 settembre erano inferiori di circa un terzo rispetto a quelle italiane; in Sardegna contro 25 mila tedeschi di tutte le tre forze armate erano presenti 132 mila ufficiali, sottufficiali e soldati dell'esercito italiano; in Corsica le forze armate tedesche comprendevano in tutto meno di 5 mila uomini, mentre quelle italiane (esercito, marina, aeronautica, guardia di finanza, milizia), raggiungevano circa le 80 mila unità. Riferita alla qualità dei mezzi blindocorazzati e dei mezzi meccanici di trasporto, la superiorità dei tedeschi era invece quasi ovunque di un qualche rilievo, ma occorre aggiungere che, mentre essi si giovarono sempre con grande profitto dell'elevato grado di mobilità delle loro unità, raramente sentirono il bisogno dì fare ricorso a formazioni massive di carri armati e di mezzi blindati, dei quali si servirono essenzialmente per esercitare minacce potenziali utilizzando in genere reparti di livello modesto. Più che alla disponibilità di ottimi carri armati, cannoni, pezzi controcarri e contraerei, la superiorità qualitativa dei tedeschi fu espressa dalla loro abilità tattica, dalla loro flessibilità ordinativa e dalla perfezione delle loro tecniche d'impiego, comprese quelle di carattere psicologico. Altro fattore della superiorità tedesca fu la capacità del personale militare addetto a compiti territoriali, logistici e burocratici a trasformarsí rapidamente, al momento del bisogno, in soldati combattenti, professionalmente non meno abili di quelli inquadrati nelle unità di impiego tattico. Niente di simile nella pletora di scritturali, magazzinieri, piantoni, attendenti dell'esercito italiano e neppure nei reparti di difesa territoriale o di truppe ai depositi, sebbene non siano mancati, da parte di queste ultime, episodi brillanti di resistenza
imperniata su fattori morali più che sostenuta da adeguata perizia professionale. Oltre che possedere un elevato grado di addestramento, le unità tedesche erano state psicologicamente preparate all'aggressione ed al ricorso alla sorpresa, all'astuzia, all'inganno, alla rapidità delle azioni. Last but not least, i tedeschi ricorsero in larga misura alla malafede, al ricatto, al tradimento della parola data, al terrore, alla minaccia ed all'effettuazione di rappresaglie degne di barbari. 1 punti di debolezza delle unità italiane, dislocate in patria e nei territori occupati, erano la grande diluizione degli schieramenti ed il disequilibrato frazionamento dei reparti, aggravati in taluni settori dal frammischiamento con le unità tedesche. Sebbene diverso da unità ad unità, il morale era generalmente basso e l'improvvisa notizia dell'armistizio non giovò al mantenimento dei vincoli disciplinari nei reparti. Nessuno, in definitiva, può contestare che nel pomeriggio dell'8 settembre la situazione strategica e militare italiana fosse difficile, delicata, incerta e minacciata da gravi pericoli ovunque, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che entro 72 ore, l'esercito italiano, come tale, sarebbe scomparso da tutti i campi di battaglia, ad eccezione della aliquota della 7 a armata dislocata in Calabria, in Basilicata e nelle Puglie, delle forze esistenti in Sardegna ed in Corsica e di poche unità che resistettero più a lungo nelle isole greche. Senza nessuna grande battaglia ‑ l'unica ingaggiata venne fatta sospendere, ordinando il rompete le righe alle grandi unità dei corpi d'armata di Roma, nella sua fase decisiva, quando era ancora prevedibile il successo ‑ 52 divisioni 16, ancorché di efficienza e di capacità combattiva ridotte, cessarono di esistere dopo che la gran parte dei comandi d'armata e di corpo d'armata che le inquadravano o si erano autosciolti, od erano stati catturati, o avevano cercato e raggiunto intese con i tedeschi. Spesso fu il disarmo morale dell'alto a provocare quello materiale del basso. Molte, dunque, furono le concause della disfatta militare, ma è fuori della obiettività storica chi non vi inserisce la pronta disponibilità di molti comandanti e stati maggiori di livello elevato alla trattativa con i tedeschi. Può non essere priva di fondamento la tesi che, dalle precedenti direttive delle autorità militari centrali, molti comandi periferici elevati possano avere dedotto che l'armistizio fosse stato concordato con gli stessi tedeschi. Come spiegare diversamente, si chiesero molti comandanti, che per 45 giorni si era tollerato l'ininterrotto afflusso di forze germaniche nella penisola e nei territori occupati e che a queste era stato consentito di assumere lo schieramento più idoneo e vantaggioso per incapsulare, intrappolare e paralizzare al momento voluto le unità italiane, e di farla da padrone sulle vie di
comunicazione e sui centri nodali dei trasporti? E che cosa dire dell'ambiguità di tutte le direttive ricevute dai comandi di grande unità dal 10 agosto in poi e dello stesso proclama del maresciallo Badoglio? Le responsabilità dei vertici ‑ lo abbiamo chiaramente sottolineato ‑ furono enormi, ma molte rinunzie aprioristiche alla lotta da parte di alti comandi periferici sulla base di valutazioni precipitose, agitate, di comodo, o sulla base di presunzioni infondate e comunque di per sé prive di riscontro obiettivo, o volute giustificare con la necessità di evitare massicci bombardamenti aerei sulle città ovvero scontri giudicati frettolosamente perduti in partenza, furono fuori della logica operativa e ispirate più dall'istinto dell'autoconservazione che non dall'esame ponderato delle contingenze. Vi furono sbandamenti e abbandoni da parte di singoli e di interi reparti; non vi furono ammutinamenti e diserzioni in massa. L'ordine di cessare il fuoco, di consegnare le armi, di rompere le righe partì quasi sempre dall'alto. Là dove i comandanti vollero, ripresero subito alla mano le loro unità e repressero rapidamente con opera di persuasione la confusione morale, il disordine e le fughe in uniforme o in abiti civili. Attribuire lo sfacelo al basso tono morale ed alla scarsa volontà dei soldati di continuare a combattere a fronte rovesciata, significa generalizzare i casi particolari. La grandissima maggioranza delle grandi e delle minori unità deposero le armi o perché materialmente sopraffatte o in obbedienza agli ordini dei comandi gerarchici superiori. La disponibilità alla lotta contro i tedeschi era molto più elevata di quanto gli alti comandi avessero valutato. Anche reparti e soldati della milizia imbracciarono le armi contro i tedeschi. Gli ufficiali, i sottufficiali ed i soldati che accettarono di passare dalla parte tedesca furono pochissimi; la grandissima maggioranza rifiutò ogni forma di collaborazione con la Germania preferendo darsi alla montagna e alla guerriglia o lasciandosi internare nei campi di concentramento in terra straniera. Della disponibilità alla lotta contro i tedeschi dettero prova, a cominciare da Roma, anche semplici cittadini che inviarono propri comitati presso i comandi delle grandi unità complesse, o quelli della difesa territoriale, per chiedere armi al fine di affiancarsi ai soldati. A Roma, a Torino, a Milano ed altrove i comandi ritennero di non poter aderire alle richieste, rifiutando un concorso che sarebbe stato quanto mai vantaggioso ai fini morali e quanto mai utile per anticipare i tempi di organizzazione e di entrata in azione della resistenza. Abbiamo ricordato i combattimenti, i fatti d'arme, gli episodi principali nei quali intere divisioni e molte unità di livello subordinato non si ritrassero dalla lotta ed è proprio la lunga serie di tanti nobili e gloriosi sacrifici ‑ che
ebbero protagonisti ufficiali generali, superiori ed inferiori, sottufficiali, graduati e soldati ‑ che illumina la tenebra dell'8 settembre.
Qualora i vertici e molti altri capi fossero stati pronti a dare testìmonianze, anche a costo della vita, della loro determìnazìone nell'opporsi ai tedeschi, malgrado la drammaticità di molte situazìoni, forse gli eventi avrebbero seguito un corso diverso ‑ basti ricordare la difesa di Roma ‑ e certamente dalla inevitabile sconf itta‑disf atta, non sarebbero derìvati il decadimento generale degli ideali e dei sentimenti di amore della Patria, la diffidenza contro l'autorità e contro qualsiasi forma di guida disciplinata, il misconoscimento dell'onore, dell'obbedienza, dell'impegno, del dovere, dell'ordine e della disciplina, il rifiuto dello spirito di sacrificio ‑ prìncipi basilari del soldato ‑ che furono le conseguenze più gravi dell'8 settembre e quelle che produssero la disfatta. Valori più o meno sfacciatamente messi ìn disparte, nell'imminenza del pericolo potenziale tedesco, da molti di coloro che di tali qualità e virtù avrebbero dovuto essere il modello. La causa prima della disfatta fu la penuria di capì competenti e capaci, ricchì di senso del reale, di padronanza di se stessi, di disinteresse personale, di fede nella grandezza del compito, di dignità, di decisione e di tenacia. Ancora peggio fu la mancata celebrazione in tempi posteriori di un processo a tutto lo staff politico e militare. Il silenzio su molte responsabilità venne interpretato come se non vi fosse stata materia per procedere. 1 processi celebratì a caldo a carico di alcuni generali non valsero a focalìzzare le responsabilità a monte. Vi furono molti comandanti liberi da ogni colpa, ma ve ne furono altri ‑ che pure in precedenti occasioni avevano reso eminenti servigi alla Patria in pace ed in guerra ‑ che avrebbero dovuto essere chiamati a giustificare il loro comportamento o la loro inerzia. Per molto meno, nel 1849, era stato condannato e fucilato il generale Ramorino 17 sul quale vennero scaricate, non tutte con fondamento, le responsabilità della sconfitta di Novara ed era stato sottoposto a giudizio del Senato del regno e degradato per inettitudine l'ammiraglio Pallion conte di Persano 18, battuto a Lissa il 20 luglio del 1866 dalla flotta dell'impero asburgico. Non è oggi, a quaranta anni di distanza, che si possano aprire istruttorie e celebrare processi, che allora gli stessi alleati impedirono, ma sul piano storico è necessario alzare i veli, ripudiare i falsi pudori, bandire gli eufemismi se si vogliono davvero restaurare tutti i valori che l'8 settembre vennero negletti e misconosciuti impunemente. Per coprire le responsabilità dei colpevoli furono enfatizzate la superiorità dei tedeschi, l'eccitazione prodotta dall'improvvisa notizia dell'armistizío, la disseminazione e la frammentarietà delle unìtà
e degli schieramenti (che pure esisteva), l'insufficienza del tono morale dei singoli e delle unità e la propensione generale a deporre le armi per fare ritorno alle proprie case. Parametri tutti indubbiamente presenti, ma che non bastano a spiegare l'8 settembre, senza dire che alcuni di essi erano l'effetto dell'insipienza e dell'imprevidenza dell'alto, e che tanto meno autorizzano a riversare sulla collettività dei gregari le colpe dei capi. Di queste ultime una delle più gravi fu proprio il non aver colto e l'aver trascurato l'anima dell'esercito, la quale, malgrado tutto, sopravviveva e là dove venne valorizzata dette prove luminose della sua vitalità. Altrimenti non vi sarebbero stati i tanti combattimenti che abbiamo ricordato, il rifiuto corale alla collaborazione con i tedeschi degli internati militari nei campi di concentramento, l'avvio immediato della lotta clandestina armata, la cui organìzzazione militare iniziale fu opera esclusiva, o quasi, di ufficiali, sottufficiali, graduati e soldati delle fone armate, soprattutto dell'esercito; la ricomparsa, in prima linea, esattamente due mesi dopo (8 dicembre), della prima formazione dell'esercito regolare sul costone di monte Lungo. Una configurazione diversa dell'8 settembre è pretestuosa o quanto meno reticente, se non addirittura deliberatamente falsa.
Della disfatta militare abbiamo già trattato, ma ci sembra conveniente riassumere in un quadro unitario le cause che ne furono l'origine. Di queste la principale non fu la superiorità delle forze tedesche. A tale riguardo occorre precisare che le forze tedesche erano inferiori numericamente a quelle italiane: 17 divisioni tedesche contro 24 italiane (delle quali 9 in ricostituzione) nel territorio nazionale, Sardegna compresa; 20 divisioni tedesche contro 35 italiane nei territori occupati ed in Egeo. Ferma restando la relatività del valore del raffronto numerico tra divisioni con coefficienti di potenza e di capacità operativa assai diversi, non si può egualmente parlare di superiorità quantitativa tedesca. In particolare, ad esempio, a Roma le forze tedesche terrestri l'8 settembre erano inferiori di circa un terzo rispetto a quelle italiane; in Sardegna contro 25 mila tedeschi di tutte le tre forze armate erano presenti 132 mila ufficiali, sottufficiali e soldati dell'esercito italiano; in Corsica le forze armate tedesche comprendevano in tutto meno di 5 mila uomini, mentre quelle italiane (esercito, marina, aeronautica, guardia di finanza, milizia), raggiungevano circa le 80 mila unità. Riferita alla qualità dei mezzi blindocorazzati e dei mezzi meccanici di trasporto, la superiorità dei tedeschi era invece quasi ovunque di un qualche rilievo, ma occorre aggiungere che, mentre essi si giovarono sempre con grande profitto dell'elevato grado di mobilità delle loro unità, raramente sentirono il bisogno dì fare ricorso a formazioni massive di carri armati e di mezzi blindati, dei quali si servirono essenzialmente per esercitare minacce potenziali utilizzando in genere reparti di livello modesto. Più che alla disponibilità di ottimi carri armati, cannoni, pezzi controcarri e contraerei, la superiorità qualitativa dei tedeschi fu espressa dalla loro abilità tattica, dalla loro flessibilità ordinativa e dalla perfezione delle loro tecniche d'impiego, comprese quelle di carattere psicologico. Altro fattore della superiorità tedesca fu la capacità del personale militare addetto a compiti territoriali, logistici e burocratici a trasformarsí rapidamente, al momento del bisogno, in soldati combattenti, professionalmente non meno abili di quelli inquadrati nelle unità di impiego tattico. Niente di simile nella pletora di scritturali, magazzinieri, piantoni, attendenti dell'esercito italiano e neppure nei reparti di difesa territoriale o di truppe ai depositi, sebbene non siano mancati, da parte di queste ultime, episodi brillanti di resistenza
imperniata su fattori morali più che sostenuta da adeguata perizia professionale. Oltre che possedere un elevato grado di addestramento, le unità tedesche erano state psicologicamente preparate all'aggressione ed al ricorso alla sorpresa, all'astuzia, all'inganno, alla rapidità delle azioni. Last but not least, i tedeschi ricorsero in larga misura alla malafede, al ricatto, al tradimento della parola data, al terrore, alla minaccia ed all'effettuazione di rappresaglie degne di barbari. 1 punti di debolezza delle unità italiane, dislocate in patria e nei territori occupati, erano la grande diluizione degli schieramenti ed il disequilibrato frazionamento dei reparti, aggravati in taluni settori dal frammischiamento con le unità tedesche. Sebbene diverso da unità ad unità, il morale era generalmente basso e l'improvvisa notizia dell'armistizio non giovò al mantenimento dei vincoli disciplinari nei reparti. Nessuno, in definitiva, può contestare che nel pomeriggio dell'8 settembre la situazione strategica e militare italiana fosse difficile, delicata, incerta e minacciata da gravi pericoli ovunque, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che entro 72 ore, l'esercito italiano, come tale, sarebbe scomparso da tutti i campi di battaglia, ad eccezione della aliquota della 7 a armata dislocata in Calabria, in Basilicata e nelle Puglie, delle forze esistenti in Sardegna ed in Corsica e di poche unità che resistettero più a lungo nelle isole greche. Senza nessuna grande battaglia ‑ l'unica ingaggiata venne fatta sospendere, ordinando il rompete le righe alle grandi unità dei corpi d'armata di Roma, nella sua fase decisiva, quando era ancora prevedibile il successo ‑ 52 divisioni 16, ancorché di efficienza e di capacità combattiva ridotte, cessarono di esistere dopo che la gran parte dei comandi d'armata e di corpo d'armata che le inquadravano o si erano autosciolti, od erano stati catturati, o avevano cercato e raggiunto intese con i tedeschi. Spesso fu il disarmo morale dell'alto a provocare quello materiale del basso. Molte, dunque, furono le concause della disfatta militare, ma è fuori della obiettività storica chi non vi inserisce la pronta disponibilità di molti comandanti e stati maggiori di livello elevato alla trattativa con i tedeschi. Può non essere priva di fondamento la tesi che, dalle precedenti direttive delle autorità militari centrali, molti comandi periferici elevati possano avere dedotto che l'armistizio fosse stato concordato con gli stessi tedeschi. Come spiegare diversamente, si chiesero molti comandanti, che per 45 giorni si era tollerato l'ininterrotto afflusso di forze germaniche nella penisola e nei territori occupati e che a queste era stato consentito di assumere lo schieramento più idoneo e vantaggioso per incapsulare, intrappolare e paralizzare al momento voluto le unità italiane, e di farla da padrone sulle vie di
comunicazione e sui centri nodali dei trasporti? E che cosa dire dell'ambiguità di tutte le direttive ricevute dai comandi di grande unità dal 10 agosto in poi e dello stesso proclama del maresciallo Badoglio? Le responsabilità dei vertici ‑ lo abbiamo chiaramente sottolineato ‑ furono enormi, ma molte rinunzie aprioristiche alla lotta da parte di alti comandi periferici sulla base di valutazioni precipitose, agitate, di comodo, o sulla base di presunzioni infondate e comunque di per sé prive di riscontro obiettivo, o volute giustificare con la necessità di evitare massicci bombardamenti aerei sulle città ovvero scontri giudicati frettolosamente perduti in partenza, furono fuori della logica operativa e ispirate più dall'istinto dell'autoconservazione che non dall'esame ponderato delle contingenze. Vi furono sbandamenti e abbandoni da parte di singoli e di interi reparti; non vi furono ammutinamenti e diserzioni in massa. L'ordine di cessare il fuoco, di consegnare le armi, di rompere le righe partì quasi sempre dall'alto. Là dove i comandanti vollero, ripresero subito alla mano le loro unità e repressero rapidamente con opera di persuasione la confusione morale, il disordine e le fughe in uniforme o in abiti civili. Attribuire lo sfacelo al basso tono morale ed alla scarsa volontà dei soldati di continuare a combattere a fronte rovesciata, significa generalizzare i casi particolari. La grandissima maggioranza delle grandi e delle minori unità deposero le armi o perché materialmente sopraffatte o in obbedienza agli ordini dei comandi gerarchici superiori. La disponibilità alla lotta contro i tedeschi era molto più elevata di quanto gli alti comandi avessero valutato. Anche reparti e soldati della milizia imbracciarono le armi contro i tedeschi. Gli ufficiali, i sottufficiali ed i soldati che accettarono di passare dalla parte tedesca furono pochissimi; la grandissima maggioranza rifiutò ogni forma di collaborazione con la Germania preferendo darsi alla montagna e alla guerriglia o lasciandosi internare nei campi di concentramento in terra straniera. Della disponibilità alla lotta contro i tedeschi dettero prova, a cominciare da Roma, anche semplici cittadini che inviarono propri comitati presso i comandi delle grandi unità complesse, o quelli della difesa territoriale, per chiedere armi al fine di affiancarsi ai soldati. A Roma, a Torino, a Milano ed altrove i comandi ritennero di non poter aderire alle richieste, rifiutando un concorso che sarebbe stato quanto mai vantaggioso ai fini morali e quanto mai utile per anticipare i tempi di organizzazione e di entrata in azione della resistenza. Abbiamo ricordato i combattimenti, i fatti d'arme, gli episodi principali nei quali intere divisioni e molte unità di livello subordinato non si ritrassero dalla lotta ed è proprio la lunga serie di tanti nobili e gloriosi sacrifici ‑ che
ebbero protagonisti ufficiali generali, superiori ed inferiori, sottufficiali, graduati e soldati ‑ che illumina la tenebra dell'8 settembre.
Qualora i vertici e molti altri capi fossero stati pronti a dare testìmonianze, anche a costo della vita, della loro determìnazìone nell'opporsi ai tedeschi, malgrado la drammaticità di molte situazìoni, forse gli eventi avrebbero seguito un corso diverso ‑ basti ricordare la difesa di Roma ‑ e certamente dalla inevitabile sconf itta‑disf atta, non sarebbero derìvati il decadimento generale degli ideali e dei sentimenti di amore della Patria, la diffidenza contro l'autorità e contro qualsiasi forma di guida disciplinata, il misconoscimento dell'onore, dell'obbedienza, dell'impegno, del dovere, dell'ordine e della disciplina, il rifiuto dello spirito di sacrificio ‑ prìncipi basilari del soldato ‑ che furono le conseguenze più gravi dell'8 settembre e quelle che produssero la disfatta. Valori più o meno sfacciatamente messi ìn disparte, nell'imminenza del pericolo potenziale tedesco, da molti di coloro che di tali qualità e virtù avrebbero dovuto essere il modello. La causa prima della disfatta fu la penuria di capì competenti e capaci, ricchì di senso del reale, di padronanza di se stessi, di disinteresse personale, di fede nella grandezza del compito, di dignità, di decisione e di tenacia. Ancora peggio fu la mancata celebrazione in tempi posteriori di un processo a tutto lo staff politico e militare. Il silenzio su molte responsabilità venne interpretato come se non vi fosse stata materia per procedere. 1 processi celebratì a caldo a carico di alcuni generali non valsero a focalìzzare le responsabilità a monte. Vi furono molti comandanti liberi da ogni colpa, ma ve ne furono altri ‑ che pure in precedenti occasioni avevano reso eminenti servigi alla Patria in pace ed in guerra ‑ che avrebbero dovuto essere chiamati a giustificare il loro comportamento o la loro inerzia. Per molto meno, nel 1849, era stato condannato e fucilato il generale Ramorino 17 sul quale vennero scaricate, non tutte con fondamento, le responsabilità della sconfitta di Novara ed era stato sottoposto a giudizio del Senato del regno e degradato per inettitudine l'ammiraglio Pallion conte di Persano 18, battuto a Lissa il 20 luglio del 1866 dalla flotta dell'impero asburgico. Non è oggi, a quaranta anni di distanza, che si possano aprire istruttorie e celebrare processi, che allora gli stessi alleati impedirono, ma sul piano storico è necessario alzare i veli, ripudiare i falsi pudori, bandire gli eufemismi se si vogliono davvero restaurare tutti i valori che l'8 settembre vennero negletti e misconosciuti impunemente. Per coprire le responsabilità dei colpevoli furono enfatizzate la superiorità dei tedeschi, l'eccitazione prodotta dall'improvvisa notizia dell'armistizío, la disseminazione e la frammentarietà delle unìtà
e degli schieramenti (che pure esisteva), l'insufficienza del tono morale dei singoli e delle unità e la propensione generale a deporre le armi per fare ritorno alle proprie case. Parametri tutti indubbiamente presenti, ma che non bastano a spiegare l'8 settembre, senza dire che alcuni di essi erano l'effetto dell'insipienza e dell'imprevidenza dell'alto, e che tanto meno autorizzano a riversare sulla collettività dei gregari le colpe dei capi. Di queste ultime una delle più gravi fu proprio il non aver colto e l'aver trascurato l'anima dell'esercito, la quale, malgrado tutto, sopravviveva e là dove venne valorizzata dette prove luminose della sua vitalità. Altrimenti non vi sarebbero stati i tanti combattimenti che abbiamo ricordato, il rifiuto corale alla collaborazione con i tedeschi degli internati militari nei campi di concentramento, l'avvio immediato della lotta clandestina armata, la cui organìzzazione militare iniziale fu opera esclusiva, o quasi, di ufficiali, sottufficiali, graduati e soldati delle fone armate, soprattutto dell'esercito; la ricomparsa, in prima linea, esattamente due mesi dopo (8 dicembre), della prima formazione dell'esercito regolare sul costone di monte Lungo. Una configurazione diversa dell'8 settembre è pretestuosa o quanto meno reticente, se non addirittura deliberatamente falsa.
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