Convegno a Firenze 23 OTTOBRE 2008
Intervento
Massimo Coltrinari
Il quesito che ha posto il gen. Poli, ovvero rispondere alla domanda: perché i tedeschi si sono difesi su un simulacro di linee difensive nell’alta pianura romagnola e non nella valle del Po o sulle Alpi, trova il suo primo fondamento di risposta in alcune considerazioni che si possono fare analizzando il comportamento della Germania nella gestione della crisi armistiziali Italia del settembre 1943.
La Germania era ben conscia che l’Italia, nella primavera del 1943 non aveva i mezzi per continuare la lotta ed il fascismo, sia come regime che come movimento, aveva, come ben nota lo Zangrandi, aveva esaurito ogni sua energia. Fu un crollo prima che materiale psicologico e motivazionale. Nessuno in Italia era più in grado, anche volendo, di sostenere Mussolini e questo è dimostrato dall’azione dei gerarchi, che poi divennero i “traditori” del 25 luglio ed alcuni fucilati a Verona l’11 gennaio 1944, da un Tribunale Speciale della Repubblica Sociale Italiana. I piani tedeschi per assorbire l’uscita dell’Italia della guerra erano pronti da tempo. Hitler e l’OKW avevano già preordinato questa uscita creando due comandi, quello di Rimmel nella Italia settentrionale e quello di Kesserling nell’Italia meridionale, considerando persa in partenza l’Itala Centro meridionale tanto che fin dall’agosto avevano ridotto i rifornimenti ed i complementi alla 10a Armata del generale Vietinghoff. La difesa avanzata del fronte meridionale della Germania era sugli Appennini, mentre quella vera e propria doveva svolgersi sulle Alpi, da sempre il baluardo meridionale del mondo germanico. Lo stesso comportamento di Rommel nei giorni postarmistiziali, e di tantissimi altri tedeschi in Italia, era orientato a questo. Tutto era preordinato, ma come al solito i piani non corrisposero alla realtà
La Germania fu sorpresa dalle modalità dell’uscita dell’Italia, anche lei si fece trovare impreparata nei dettagli e nel contingente ad affrontare la situazione. In questa incertezza, ebbe gioco in modo oltre il preventivato l’azione del maresciallo Kesserling, che si trovo ad agire d’iniziativa senza il controllo dell’OKW e di Hitler. La prima mossa fu quella di bloccare la via di Fiumicino e il progetto Reale di raggiungere la Sardegna. Poi vi è tutta la vicenda della fuga a Pescar-Brindisi, da parte del vertice governativo-militare italiano, aspetto questo estremamente controverso in cui non si vuole entrare, che diede a Kesserling il grande vantaggio di agire senza l’opposizione delle forze armate italiane. Che le forze italiane non si opposero ai tedeschi non avendo ordini dall’alto è un dato oggettivo e questo lo si ebbe per 48 ore. Badoglio, giunti a Brindisi emana alle ore 11 del 11 settembre 1943 da Radio Bari. Vi furono episodi isolati, grandi moralmente, eccezionali per la prospettiva futura e per la dignità di noi italiani, ma Kesserling ebbe modo di non solo conseguire il risultato che si era promesso, ovvero quello di recuperare e salvare il maggior numero dei soldati tedeschi stanziati nella Italia centro meridionale. Ma riuscì anche ad ottenere di più, ovvero quello di contrastare e contrattaccare le forze alleante che stavano sbarcando in continente.
Kesserling occorre ricordarlo, riuscì a ritardare l’avanzata dell’8a Armata britannica, fino quando necessario per portare in salvo la 15ma Divisione Granatieri Corazzati e la 16ma Divisione Corazzata che l’8 settembre 1943 si trovavano in
Calabria; ad impadronirsi quasi senza colpo ferire di Roma, ed ad assicurare il possesso per 8 mesi: a contenere la testa di ponte di Salerno per il tempo necessario a costituire una posizione difensiva continua dall’Adriatico al Tirreno, la linea Reinhardt, che nel settore occidentale s’impegnava sulla stretta di Mignano. Proprio in uno dei convegni organizzati dalla Associazione combattenti della Guerra di Liberazione, da parte del gen. Boscardi si sostenne la tesi, ben documentata, che se non ci fossero stati i combattimenti di Porta San Paolo le divisioni tedesche impegnate dagli Italiani a Roma sicuramente sarebbero giunte in tempo a Salerno e influire positivamente sull’andamento dello sbarco dal punto di vista tedesco.
Ancora maggiore sarebbero stati i risultati positivi qualora Hitler e l’OKW non avessero rifiutato al maresciallo Kesserling le due divisioni richieste fin dal mese di agosto. Queste divisioni avrebbero potuto giungere in forze in molto meno di sei giorni. Ma all’indomani dell’annuncio dell’armistizio con l’Italia già l’8a Armata stava avvicinandosi a Potenza e la 7a divisione corazzata (britannica) e la 3a divisione (statunitense) la testa di sbarco. La battaglia per la testa di ponte sarebbe durata più a lungo ma nella sostanza, a Salerno, il risultato non sarebbe, con l’intervento di queste due divisioni da terra, probabilmente cambiato. La differenza si sarebbe fatta sentire poco più tardi. Kesserling avrebbe potuto resistere a sud di Napoli ed essere in grado di tenere quell’importante porto e gli aeroporti di Foggia finché l’inverno non fosse intervenuto in suo soccorso. Sempre nel campo delle probabilità, quello che sarebbe stato e non fu, con la resistenza di Kesserling a sud di Napoli, i capi di stato maggiore britannici avrebbero perduto la causa e gli statunitensi avrebbero preso il definitivo sopravvento nelle decisioni. La decisione di Kesserling di ritirarsi sul Volturno attirò gli alleati come una calamita e creò quella situazione che il gen. Marschall aveva sempre temuto. Sarebbero stati i tedeschi a tenere impegnate il maggior numero di divisioni alleate e non viceversa.
Questo, sommato agli errori tattici dei Comandi Alleati, quali la scelta sbagliata delle località di sbarco, la punta della Calabria e la zona di Salerno, troppo a sud per aggirare le possibili difese tedesche, (uno sbarco a nord di Roma, ancorché fuori dalla copertura aerea, in presenza di una scarsa presenza aerea tedesca, era un rischio calcolato che poteva essere corso), e dalla mancata realizzazione della sorpresa, che condussero una campagna lenta frammentaria ed indecisa, permise a Kesserling di tenere il più possibile a sud di Roma, e non di Napoli, il fronte tedesco. Sempre un successo.
Le difese dell’Appennino tosco-romagnolo, che dovevano essere investite e tenute per un breve periodo nel settembre- ottobre 1943, furono raggiunge dagli Alleati solo a settembre-ottobre 1944, 12 mesi dopo del preventivato e , con il sopraggiungere dell’inverno, non furono superate.
Nel quadro generale della campagna d’Italia, quindi, queste difese rappresentano il migliore rapporto tra costo ed efficacia. Se da una parte esse assorbirono 10 divisioni che potevano essere utilizzate sul fronte occidentale e affittire le difese del vallo atlantico, dall’altra furono il minor presso da pagare per tenere gli alleati lontani dalla Germania, in attesa che la decisone sull’esito della guerra si palesasse sul fronte orientale.
Le difese sull’Appennino tosco-emiliano tennero e sarebbero state più produttive se Hitler non avesse insisto nella sua fissazione della difesa ad oltranza e della manovra di arresto.
Quando Kesserling cedette il comando a Vietinghoff il 9 marzo 1945 era chiaro che gli alleati stavano per sferrare una offensiva su larga scala.Vietinghoff non era Kesserling e non godeva delle simpatie presso Hitler come il maresciallo. Non ebbe la forza di convincere Hitler ad autorizzarlo a passare dalla manovra di arresto alla manovra in ritirata, da fiume a fiume e negò anche l’arretramento sul PO, proposto il 14 aprile, che segnò la fine della difesa tedesca in Italia. Quanto il 20 aprile 1945 questa autorizzazione giunse era ormai troppo tardi.
Quindi alla domanda posta dal generale Poli: perché i tedeschi si sono difesi sull’Appennino tosco-emiliano e non sul Po o sulle Alpi, si può rispondere in un modo che quanto detto ne traccia già le linee guida: I tedeschi si sono difesi in Italia già dall’8 settembre il più a sud possibile, consci che la Germania doveva avere il tempo per vincere la guerra in Russia,. Perché era lì che la guerra si decideva.
Ogni linea in Italia era una linea di difesa di arresto temporaneo e in qualche caso con la possibilità di reazioni dinamiche, tutte brillantemente sfruttate. Se Kesserling fosse rimasto in Italia ed agito per manovrare in ritirata sicuramente le forze tedesche avrebbero passato il Po in modo più o meno ordinato e si sarebbero attestate sulle Alpi, ove le avrebbero raggiunti la notizia della resa, su posizioni organizzate a difesa.
La campagna dei tedeschi in Italia, quindi conclusasi con la capitolazione, fu sotto il profilo tecnico-militare un vero saggio di bravura difensiva. Non si può dire altrettanto della
campagna d’Itala dei Comandi Alleati, che come già accennato la condussero tra errori e incapacità.
La campagna d’Italia fu la cartina di tornasole del dissidio tra Statunitensi e Britannici. I primi volevano, ed ottennero, di adottare una strategia diretta, ovvero concentrare tutte le forze sul fronte francese, da aprire al più presto, e puntare il più velocemente su Berlino e porre fine alla guerra; i secondi cultori della strategia indiretta volevano attaccare si dalla Francia ma anche dall’Italia, per puntare su Vienna e raggiungere il cuore d’Europa nel più breve tempo possibile. Il risultato di una campagna condotta male e con risultati scarsi e deludenti.
A chi giovò maggiormente, ai tedeschi o agli Alleati?. Per la Germania la campagna era stata una necessità assoluta. L’abbandono dell’Italia avrebbe consentito piena libertà di movimento agli Alleati sia in direzione della Francia che in quella dell’Austria e dei Balcani ed avrebbe offerto loro la disponibilità di basi aeree ravvicinate per bombardare la Germania meridionale e l’Austria e minacciare le vie di rifornimento e gli arroccamenti fra la fronte occidentale e quella orientale.
Per gli Alleati la campagna d’Italia fu una libera scelta per perseguire fini strategici rimasti, però, sulla carta. La tattica usata dagli alleati fu del tutto inadeguata, nonostante che non mancassero loro forze e mezzi aerei, navali ed anfibi per dare vita a manovre ampie e profonde che eludessero o riducessero gli sforzi frontali. Sul piano tecnico-militare, perciò, mentre i tedeschi raggiunsero nel corso dell’intera campagna il massimo risultato conseguibili in quella situazione, gli Alleati non ottennero quanto virtualmente avrebbero potuto e offrirono,tutto sommato, un saggio scadente , non già del valore dei loro soldati, ma della loro abilità manovriera. Ma portavano la Libertà e la Democrazia, ed ovunque furono accolti come liberatori. Commisero errori strategici e tattici addirittura grossolani, e conclusero vittoriosamente la campagna solo per la loro schiacciante superiorità materiale. Ma avevano dalla loro il nuovo, il futuro, il fatto che combattevano contro il regime del genocidio, e questo diede loro tutto l’appoggio della popolazione in cui operavano, quella italiana.
Questi gli aspetti della Campagna d’Italia da parte di Eserciti estranei a noi italiani, Campagna d’Italia che occorre sempre differenziare dalla guerra di Liberazione, che intendiamo come secondo risorgimento d’Italia nell'approccio che abbiamo adottato
[1].
Dato infine che questo è un convegno dedicato ai soldati italiani sulla linea gotica occorre a questa relazione fare una postilla, che va oltre la domanda posta dal gen. POLI. Un convegno dedicato ai militari Italiani sulla linea gotica non può dimenticare quei soldati italiani che come prigionieri cooperatori erano inquadrati nelle Unità da combattimento britanniche e statunitensi, nella ISU e nelle BTU. L’esempio della testa di ponte di Anzio è troppo noto. Se si parla di gruppi di Combattimento, di salmerie da combattimento, di tutto e di più, occorre rammentare anche questi soldati che, occorre ricordare erano sotto giurisdizione alleata e non italiana, ma che al momento della fine della guerra, nella smobilitazione alleata, senza soluzione di continuità ritornarono sotto giurisdizione Italia e furono coloro che, ricevendo tutto il materiale che gli alleati ci lasciarono diedero vita alle Forze Armate del dopoguerra. La loro azione meriterebbe una maggiore attenzione almeno da parte nostra.
[1] Coltrinari M., La Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti 1943-1945, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008.