L’istituzione
della Regia Guardia per la Pubblica Sicurezza, nel 1920, per volontà
di Francesco Saverio Nitti (erede delle scelte del predecessore
Vittorio Emanuele Orlando, che già aveva assegnato a Camillo
Corradini il compito di insediare una Commissione in grado di
modificare la Pubblica Sicurezza), aveva obbedito alla necessità di
creare una forza armata non rispondente al Ministero della Guerra, ma
al Ministero dell’Interno, in modo che fosse una polizia ampia e
moderna, al passo con i tempi, dipendente dall’autorità civile.
L’organizzazione era di tipo militare, con un organico quattro
volte più ampio rispetto al precedente e possibilità di accesso
all’arruolamento facilitate, con avanzamenti di carriera più
rapidi, stipendi più alti rispetto agli altri corpi armati e la
difesa dello Stato liberale più attiva, in un momento di profonda
crisi sociale come quello dell’immediato primo dopoguerra, già
sfociato nel tristemente famoso biennio rosso.
La
Regia Guardia verrà subito sciolta, dopo soli tre anni di attività,
dal governo Mussolini non appena insediatosi; sarebbe stata
sostituita dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
L’istituzione
di una nuova Polizia si era resa necessaria perché l’uso di
adoperare i soldati per controlli di ordine pubblico era diventato
difficile: le sorti della guerra, pur vinta dall’Italia, avevano
minato la fiducia nello Stato, e quindi nei suoi rappresentanti,
tanto che spesso, date le manifestazioni e le proteste dei sudditi,
si vedevano i militari solidarizzare con loro, rendendo vana quindi
la stessa azione di controllo. Il governo, inoltre, non riponeva più
molta fiducia nei militari, in quanto tra i ranghi ufficiali c’erano
molti rivoluzionari, e il timore di colpi di Stato erano sempre in
primo piano nelle preoccupazioni dell’Interno.
Per
quanto riguarda l’altra Forza Armata deputata all’attività di
polizia militare, svolta dall’Arma dei Carabinieri, risultava priva
della fiducia degli italiani, in quanto era stata vista come
un’accolita di militari imboscati che, durante la guerra non aveva
svolto altro che attività di polizia di controllo e caccia degli
imboscati e dei disertori, rendendo invisa ai più la divisa stessa.
Prova ne sia che i bandi di arruolamento del dopoguerra andavano
praticamente deserti.
Era
necessario non solo ritornare alla fiducia nell’attività dello
Stato, ma anche arginare i fenomeni sempre meno controllabili di
rivolte, scioperi e disturbi dell’ordine pubblico da parte di
persone di fiducia e non, pronte a connivenze con i facinorosi.
Questo
aspetto divenne quanto mai importante con gli squadristi, proprio
quelle squadre formate prevalentemente da ex militari da poco tornati
dal fronte, e altri desiderosi di disturbo che avevano preso a
scorazzare per le campagne e le città, alla ricerca di quell’ordine
e di quel menar le mani che non sembrava ricostituito dopo il
conflitto appena trascorso e che non aveva, con le risoluzioni prese
in favore dell’Italia, soddisfatto giovani che si ritrovavano
deprecati, quasi fossero stati la causa del disfacimento sociale
generale.
Peraltro
la Pubblica Sicurezza era già garantita dalle Guardie di Città che,
come per i carabinieri, non godevano del rispetto generale, né della
popolazione, né degli esponenti del Regno.
Pericolosamente,
poi, anche le forze già esistenti di Pubblica Sicurezza si stavano
orientando verso quella sinistra che sembrava avere il vero controllo
politico del Regno, con divulgazione di giornali e di proclami
socialisteggianti, incitazione alla lotta e alla rivoluzione,
organizzazione di scioperi per ottenere aumenti di stipendi,
l’assegnazione delle terre (annoso problema che dovrà aspettare
un’altra guerra mondiale per essere risolto) e miglioramenti di
trattamento e di carriera. Anche la polizia esistente, pertanto, non
poteva considerarsi affidabile nell’intento di arginare quella
deriva socialista che guardava ai fatti che si andavano aggravando in
Russia, dove la guerra civile dimostrava come la mancanza di
controllo poteva diventare ancora guerra e sovvertimento di tutta la
vita com’era costituita.
A
quel punto della situazione, non restava al governo liberale che
chiedere, com’era d’uso, aiuto alla “parte sana” della
popolazione, aiuto volontario per il controllo della protesta. Ma
quale poteva essere, in quei momenti, la parte sana della
popolazione, rimasta liberale? E come si poteva scegliere tra i
volontari ex combattenti, i volontari futuristi, i volontari dei
Fasci di Combattimento che si erano costituiti nel marzo 1919, in un
1919 denso di fenomeni rivoltosi, in un’Italia scontenta?
Diventava
difficile, perché ogni ardito poteva scontrarsi con le forze
dell’ordine non rispettandone la divisa, mentre i regi poliziotti
non volevano compiti di normale amministrazione, ma incarichi di tipo
militare, come ci si era abituati durante la guerra a preferire la
militarizzazione e l’uso della violenza. Questa era dilagata in
ogni ambito civile e per lo Stato liberale fidarsi di qualcuno era
sempre più difficile, a difesa della liberalità stessa. L’impiego
divenne pertanto soprattutto in chiave anticomunista, antibolscevico
come si diceva citando sempre la paurosa rivoluzione russa, che
costituiva uno spauracchio non tanto millantato quanto tangibile per
tutti coloro che temevano di perdere i proprio averi e, allo stesso
tempo, era un miraggio per coloro che auspicavano la
collettivizzazione, un benessere diffuso, un miglioramento della vita
miserabile che i più spesso conducevano. Inoltre, alla novella
Polizia veniva data un’autonomia impensabile in altri casi, come
per i commissariati, per ogni aspetto dell’attività organizzativa.
Il
comando veniva affidato ad un comandante di Corpo d’Armata che
agiva in modo altrettanto autonomo rispetto al potere centrale,
generando anche nella singola guardia la certezza di poter agire
secondo un ampio potere di discrezionalità, in linea con lo stesso
criterio di arruolamento che dava ampi spazi di libertà rispetto a
quello degli altri Corpi.
Interessante
però sottolineare che, dato che molti militari erano stati
smobilitati, con il dilagare della disoccupazione durante il biennio
rosso, molti ex militari erano stati portati ad arruolarsi nella
Regia Guardia, ottenendo migliori condizioni di trattamento, più
possibilità di carriera ma, soprattutto, assicurando il governo
sull’affidabilità del personale arruolato, già fedele alla Patria
e all’obbedienza (veniva riconosciuto anche l’uso delle stellette
a cinque punte sul colletto delle uniformi, sottolineando
l’appartenenza e la disciplina militare).
In
alcuni casi, tuttavia, non venne attuata un’adeguata selezione (sia
fisica che di capacità oggettive e di preparazione al lavoro da
svolgere)
e spesso c’era discrezionalità di arruolamento da parte del
superiore, con scarso controllo della disciplina, più votata allo
sparare che ad intervenire diversamente.
Gli
incarichi non venivano dati per forza nella propria regione, creando
dei pregiudizi da parte dei cittadini nei confronti delle guardie
provenienti da altre parti del Regno, e diffondendo l’idea di
personaggi che si comportavano, o si dovevano comportare, soltanto
come degli odiati sbirri di antica memoria.
Il
Corpo aveva la propria bandiera e la propria banda, reparti armati e
a cavallo. Si componeva del Comando e di sette Legioni dislocate a
Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia a loro volta
divise in divisioni, battaglioni, compagnie, squadroni, tenenze,
plotoni e stazioni. Le divisioni erano presenti a Brescia e ad
Ancona, ad esempio.
Il
13 giugno 1921 vennero ribaditi gli ambiti di intervento della Regia
Guardia che prevedevano, oltre alla tutela dell’ordine pubblico,
lavoro di polizia giudiziaria, amministrativa e di pubblica
sicurezza; l’arresto di renitenti alla leva o disertori; l’arresto
di criminali comuni e la sorveglianza del territorio, comprese le
fabbriche e i depositi d’armi; il pattugliamento di porti e zone
marittime; la sorveglianza sui teatri e sui locali pubblici anche
dove si svolgevano spettacoli.
Rimaneva
espressamente adoperata in chiave antirivoluzionaria e, pertanto,
antisommossa; in caso di guerra, era prevista la partecipazione alla
difesa dello Stato. Appositi agenti si sarebbero occupati delle
attività d’investigazione. La struttura rimaneva di stampo
militare.
Il
caso dell’impiego come antisommossa fu evidente ad Ancona, il 26
giugno 1920, quando l’11° Reggimento Bersaglieri era in partenza
per l’Albania. Un reparto si ribellò
riuscendo ad asserragliarsi nella Caserma
Villarej,
appropriandosi di corazzati con i quali uscì ottenendo l’appoggio
di rivoltosi cittadini. Gli scontri a fuoco con le guardie regie e i
carabinieri presenti in città durarono tre giorni, mentre arrivavano
rinforzi da Roma, costretti ad asserragliarsi in stazione, in mano ai
rivoltosi protetti anche da mitragliatrici.
A
quel punto, fu possibile organizzare il contrattacco, con la
copertura di una torpediniera della Marina Militare e l’ausilio
delle linee telefoniche che permisero l’organizzazione migliore.
Era indispensabile riprendere il controllo della stazione ferroviaria
e dei quartieri popolari, come brillantemente avvenne.
Per
i fatti di Ancona vennero assegnate alle guardie regie una Medaglia
d’Argento al Valor Militare al tenente Umberto Rolli e di Bronzo al
tenente Ernesto Paglione; una Medaglia di Bronzo al Valor Militare
anche ad Antonino Bellitto, Giacomo Dominici, Ciro Falcone, Salvatore
Gerbino, Antonio Sgroi, Gavino Fiori, Calogero Lo Giudice, guardie
regie; al brigadiere Sante Fargione che rimase ucciso in azione; al
vice brigadiere Fedele Foglietti.
Altri
casi di ribellione e insurrezione si ripeterono in altre zone
d’Italia.
Nello
stesso anno, a dicembre, dalla vigilia di Natale, il Battaglione
Roma
della Regia Guardia venne impiegato nell’espugnazione della città
di Fiume in mano ai Legionari dannunziani.
Un
po’ più difficile era il mantenimento dell’ordine pubblico
contro le rivolte o le violenze fasciste perché, se a Sarzana e a
Modena si riuscì nell’intento, si era anche riusciti a non capire
bene se e come intervenire, anche per le connivenze di cui abbiamo
scritto, ma senza chiarezza politica, tanto che anche quelle
operazioni aumentarono la rabbia nei confronti delle guardie regie
fino al loro scioglimento.
Sul
piano politico ci fu acceso dibattito tra chi non era d’accordo che
anche il Ministero dell’Interno avesse un proprio Corpo armato,
come già esisteva la Guardia di Finanza; chi pensava che il governo
volesse distruggere l’Arma dei Regi Carabinieri; chi temeva
l’eccessivo potere che il governo poteva prendere avendo ai suoi
ordini diretti poco più di 25mila uomini, quasi il doppio rispetto
alle Guardie di città preesistenti.
Nitti,
dal canto suo, era convinto di dover avere a disposizione un Corpo
che mettesse il governo liberale al riparo dal temuto colpo di Stato
che poteva soltanto essere condotto dai militari, riequilibrando
quindi le forze.
Era
imperante, a quel punto, che la Polizia fosse apolitica e apartitica,
come venne ripetutamente dichiarato e come si voleva garantire, anche
se i detrattori la dichiaravano forza di Nitti, suo creatore, e
quindi di un ben determinato indirizzo politico.
Spentosi
il biennio rosso, e quindi la paura del dilagare comunista della
rivoluzione, anche le regie guardie presero atteggiamenti di
connivenza con il fascismo in auge, rifornendo armi e chiudendo uno,
o talvolta due occhi, sugli atteggiamenti violenti, tanto da essere o
appartenente al partito, o comunque filofascista.
Sarà
la mancanza di ordini e direttive precisi, in una sorta di vuoto di
potere, a dare meno forza alle regie guardie e più spazio per lo
squadrismo che non voleva soltanto agire in modo sovversivo, ma agire
come garante dell’ordine. Spesso le guardie erano impotenti dinanzi
alla violenza squadrista e alla capacità di porsi al centro della
scena anche politica. Quindi il posto delle guardie veniva preso
dagli squadristi, spesso con l’aiuto delle guardie stesse. Siamo
nel 1921 e l’anno dopo si avrà la netta abdicazione del controllo
sociale da parte delle forze dell’ordine in favore di uno
squadrismo fascista sempre più impudente, sempre più protetto:
addirittura vennero agevolate le fughe dal carcere di fascisti
arrestati per azioni violente.
Colonne
di camicie nere si concentravano in alcune città e devastavano le
sedi sindacali o partitiche o dei giornali non conniventi. Si parlava
di oltre sessantamila persone a Ferrara, ad esempio: sarebbe stato
impossibile per le guardie regie agire in difesa delle istituzioni e
dell’ordine pubblico.
Le
indicazioni che arrivavano al Viminale rispetto alla presa di potere
capillare che stavano conducendo i fascisti, di punti nevralgici
delle città e delle campagne, non venne ascoltata e così, tra
impossibilità di far fronte alla forza fascista e connivenze di
vario grado, il fascismo aveva mano a mano preso il potere del Paese,
senza che una forza gli si opponesse in modo serio e, soprattutto,
adeguatamente organizzato.
Per
quel motivo, alla marcia su Roma della camicie nere, fu dato il
potere ai militari per preparare lo stato d’assedio, ma le camicie
nere il potere territoriale l’avevano già, oppure facilmente lo
ottennero.
I
comandanti generali dell’Arma dei Carabinieri e della Regia
Guardia, il 4 novembre 1922, ricevettero una circolare con la quale
Aldo Finzi, sottosegretario all’Interno, dispose di non dare luogo
a procedere contro quegli uomini che, durante la marcia, vi avessero
partecipato in vario modo.
La
Regia Guardia venne sciolta il 31 dicembre 1922, dopo adeguata opera
di verifica dei comportamenti, generando non pochi momenti di
tensione e ribellioni da parte delle guardie stesse.
Il
prefetto di Brescia Arturo Bocchini, che diventerà capo della
Polizia, segnalò che le guardie volevano scendere in piazza per
protestare e così accadde in molti altri posti, dove vennero anche
assaltate le sedi dei sindacati fascisti o del partito, tra numerosi
atti di insubordinazione.
Naturalmente
la scelta di sciogliere le Regie Guardie era dettata dalla volontà
di togliersi di torno coloro che potevano non rispondere al Ministero
della Guerra, favorendo i fascisti e i nazionalisti di destra,
accontentando chi non voleva più vedere la famosa polizia di Nitti e
dimostrando di voler primariamente controllare il territorio con una
milizia gestibile.
Riuscire
però a rendere la Milizia parte dell’Esercito avrebbe comportato
un onere troppo alto, mentre lo stesso Mussolini voleva risolvere
quel problema per poter controllare gli squadristi. Lo stesso 31
dicembre venne creato un reparto specializzato dei carabinieri, nel
quale però confluirono pochi uomini delle guardie e, alla fine, ci
si rese conto del fallimento dell’operazione, dato che sul
territorio non c’erano persone adatte a gestire l’ordine
pubblico, tanto che fu necessario creare il Corpo degli Agenti di
Pubblica Sicurezza.
Esistevano
commissari volanti accanto a quelli di carriera ed esisteva anche una
non ben precisata CECA, polizia rivoluzionaria come quella sovietica,
che ebbe come massimo atto il rapimento e l’assassinio di Giacomo
Matteotti nel 1924, episodio che dimostrò a Mussolini come affidare
la polizia speciale a volontari di quel genere, disorganizzati e
violenti, non poteva essere accettato. Doveva essere addestrata e
fascistizzata una polizia che fosse preparata ad affrontare le
situazioni di pericolo per lo Stato.
Il
1925 sarà un anno cruciale per l’Italia, dal momento che si
passerà da un governo autoritario, ma ancora parlamentare, ad una
dittatura in cui le libertà erano fortemente limitate; venne
reintrodotta la pena di morte; i sindacati furono sciolti in favore
delle corporazioni, eccetera.
Nel
1926 venne varato il Testo Unico sulla Pubblica Sicurezza, con il
confino come metodo per liberarsi degli antifascisti o sospetti tali;
comunque dell’opposizione. In quell’anno vennero presi anche
altri provvedimenti per la difesa dello Stato, con l’istituzione
del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, ad esempio, e la
creazione della polizia segreta OVRA, sigla che ha varie spiegazioni,
sia di repressione degli antifascisti, sia di repressione di coloro
che erano contrari allo Stato, ma forse anche acronimo voluto da
Mussolini togliendo le prime lettere alla parola piovra. Alcuni ne
hanno negato l’esistenza, dal momento che essendo un elemento
segreto non tutti erano al corrente delle sue specificità, ma altri
ne attestarono l’azione.
Con
la riforma della polizia nasce quindi la polizia politica, OVRA, ai
cui incarichi si aggiunge anche il controllo del fascismo stesso e
dei suoi gerarchi. Era un organismo indispensabile, perché urgeva
uno strumento specializzato nel controllo dei comunisti che, avendo
scelto di non sciogliere le proprie file, potevano portare la lotta
all’interno dello Stato dove continuavano in segreto ad operare,
cercando di evitare l’arresto.
L’azione
repressiva si rivolgerà quindi contro socialisti, comunisti (Camilla
Ravera, ad esempio, una delle fondatrici del Partito Comunista e
membro del gruppo interno, riuscì a sfuggire alla cattura quando il
partito venne dichiarato illegale nel 1926 e poi dovette lasciare il
Paese per motivi di salute, rientrando nel 1928 per ricostituite il
centro clandestino interno; verrà arrestata nel 1930 e condannata a
15 anni e mezzo di reclusione) e Giustizia e Libertà, della quale
vennero arrestati i capi Ferruccio Parri, Ernesto Rossi e Riccardo
Bauer. Giustizia e Libertà era abbastanza scoperto come gruppo
clandestino, perché poco propenso alla cospirazione e alla difesa, e
questo lo rese molto vulnerabile.
L’attività
dell’OVRA si avvalse di funzionari di polizia, di spie, di persone
corrotte che, a fronte di un forte stipendio mensile, si occupavano
di infiltrarsi, sia in Italia che all’estero, nei gruppi e nella
società in genere, per avere informazioni sulla fedeltà al regime,
anche da parte di fascisti stessi.
Molti
documenti scomparvero o furono distrutti prima della fine della
guerra sull’operatività dell’organismo, ma gli operatori
dell’OVRA furono capaci di costruirsi anche una difesa per il
futuro mentre lavoravano per il regime.
La
decurtazione dei nomi di oltre seicento elementi della polizia
politica che furono pubblicati sul giornale Gazzetta Ufficiale, fu
attuata da Nenni (forse timoroso che nei documenti ci fosse qualche
chiacchiera di Mussolini del quale era amico in gioventù) e Sforza,
quando pare che ci si interessasse dei nomi dei collaboratori dei
vari gruppi clandestini per evitare che comparissero. La vicenda è
ancora avvolta nel mistero per molti aspetti, dal momento proprio che
interessò molte persone e sempre in modo segreto. Inoltre, alcune
persone, come Ugo Modesti (il vero nome era Luca Osteria), fecero il
doppio gioco quando si resero conto che non c’era futuro per il
nazifascismo. Ugo in modo particolare era in contatto con Ferruccio
Parri, tradendo i tedeschi ai quali propose di creare un servizio di
spionaggio in Svizzera, dove portò Indro Montanelli, arrestato nel
1944 e liberato proprio grazie al suo intervento. Il ruolo di
doppiogiochisti, in contatto con gli Alleati e con il Comitato di
Liberazione Nazionale, li fece spesso salvare anche dall’epurazione,
fondamentalmente perché si professarono servitori dello Stato,
quindi scevri di parte politica, durante il loro lavoro.
Nel
1931 venne adottato il Codice
Rocco
che apportò la riforma del Codice Penale.
Nel
Regno d’Italia, tra le varie forze dell’ordine, è esistita anche
la Polizia dell’Africa Italiana, con il fascio littorio come
simbolo, istituita infatti in periodo fascista, nel 1936, e operante
fino alla fine della seconda guerra mondiale, prima nelle colonie,
quindi in servizio anche in Italia dopo l’8 settembre.
Si
trattava di un corpo di polizia coloniale con compiti di ordine
pubblico, di polizia amministrativa, giudiziaria e di frontiera a
difesa delle colonie italiane, l’Etiopia e l’Africa Orientale
Italiana.
Inizialmente
il riferimento era il Ministero delle Colonie, poi rinominato
Ministero dell’Africa Italiana, istituzione civile che aveva al suo
comando una forza armata. Infatti, il decreto n. 1211 del 10 giugno
1937 istituiva il regolamento della polizia coloniale come corpo
civile militarmente organizzato e parte delle Forze Armate del Regno.
La
PAI era composta da ufficiali, sottoufficiali, agenti e ascari
locali; erano riuniti in battaglioni intitolati agli esploratori
italiani dell’Africa come Duca degli Abruzzi, Bottego, Ruspoli.
Le
questure si trovavano nelle città coloniali più grandi come
Tripoli, Bengasi, Asmara, Addis Abeba, Mogadiscio, Gondar.
Contraddistinti
da un’apposita divisa, i membri della PAI avevano in dotazione il
moschetto Carcano Mod. 91 e la pistola semiautomatica Beretta Mod.
34, oltre ad un’arma bianca corta ad imitazione dei pugnali somali
chiamata billao.
Per
la PAI il billao venne prodotto a livello industriale e non più
artigianale com’era l’uso locale, in forma di foglia asimmetrica
lunga 193 mm, mentre l’arma complessivamente era lunga 310 mm
compresa l’impugnatura con guancette di corno di bufalo fissate con
due rivetti; l’elsa era una crociera ovale in lamiera di ferro.
L’arma era riposta in un fodero di cuoio, fermata da una molla
interna e da una piccola cinghia con bottone.
La
PAI rientrava nel concetto di sicurezza pubblica e, soprattutto,
controllo del Regno.
Apparteneva
alla Polizia dell’Africa Italiana anche lo squadrone dei Lancieri
della guardia, preposti alla difesa del governatore della Somalia
Francesco Saverio Caroselli, comprendente sia agenti italiani che
somali; e un’unità a cavallo di cavalieri eritrei, comandata da
ufficiali italiani e composta da 137 ascari eritrei. Ascari erano
anche libici, che parteciparono ad azioni belliche durante la seconda
guerra mondiale in Tripolitania.
Dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943, la Polizia dell’Africa
Italiana venne impiegata per la difesa di Roma dichiarata città
aperta (dall’8 settembre 1943 al marzo 1944 il comando lo ebbe il
generale Umberto Presti).
Nei
pressi della capitale avvennero scontri con i tedeschi, sia a
Mezzocamino che lungo la via Tiburtina, anche di scorta all’uscita
dalla città del Re, verso Brindisi. Nello scontro con le forze
tedesche alla Magliana vennero ottenuti alcuni risultati, fino al
ripiegamento al Forte Ostiense. I nazisti riuscirono ad arrestare il
primo comandante della PAI, il generale Riccardo Maraffa, che venne
deportato nel campo di concentramento di Dachau dove morì.
Il
suo successore Quirino Armellini, già Medaglia di Bronzo al Valor
Militare “Per
bella prova di accortezza e di ardimento data operando isolatamente
con la sua centuria sul fianco della colonna che ripiegava in
ritirata, e per fermezza d’animo dimostrata dopo di essere rimasto
ferito” a
Kuscia il 13 marzo 1915;
combattente
durante la Grande Guerra e insignito di Medaglia d’Argento al Valor
Militare per il suo impegno sul fronte macedone nel 1918 (“Nelle
funzioni di ufficiale di stato maggiore addetto al comando di una
colonna speciale incaricata di marciare celermente da Kruscevo su Sop
per sbarrare al nemico la strada Monastir-Kicevo, dava prova di
singolare ardimento e coraggio, portandosi nei vari punti della
linea, impegnata in vivace combattimento, incitandoli con la voce e
con l’esempio, per fornire al comandante precisi ragguagli sulla
situazione”),
quindi promosso tenente colonnello, venne impiegato nella riconquista
della Libia tra il 1926 e il 1927 (ancora Medaglia di Bronzo al Valor
Militare perché “Comandante
di un gruppo di manovra durante un lungo ciclo di operazioni ha
saputo guidarli in numerosi combattimenti in modo da conseguire i
maggiori successi, dimostrando sempre belle doti militari” ad
Abiar bu Sfeia il 2 gennaio 1927 e nello Gebel Centrale (Cirenaica),
tra l’ottobre 1926 e il maggio 1927).
Nel
1935 divenne uno stretto collaboratore di Pietro Badoglio durante la
guerra d’Etiopia, le cui memorie sono nel suo libro “Con Badoglio
in Etiopia”. Promosso generale di Brigata, assunse vari incarichi
fino alla promozione a generale di Divisione. Destituito Mussolini,
Badoglio lo volle comandante della Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale che sciolse.
Con
l’8 settembre, il suo ruolo doveva essere quello di comandante di
Roma, mentre era uno degli uomini più ricercati dai nazisti in
quelle tragiche ore, tanto che, non avendo ricevuto l’incarico,
cercò di seguire il Re in partenza per Brindisi. Non riuscendo
nell’intento, tornò nella capitale dove assunse il ruolo di
Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, arrestato dai nazisti, come
capo del Fronte Militare Clandestino, quindi della resistenza romana.
Per questo ricevette un’altra Medaglia d’Argento al Valor
Militare: “Durante
un difficile periodo organizzava e dirigeva in Roma, con fede ed
entusiasmo inesauribili, la rete informativa ed il movimento patriota
della zona. Con operosa sagace attività, eludendo la vigilanza
avversaria, forniva per più mesi preziose informazioni operative al
Comando Supremo Italiano e Alleato. Con il suo esempio animatore
manteneva viva nei patrioti la volontà di resistere e la fede nella
rinascita della Patria”.
Nel
corso del 1944, la PAI venne assorbita dal Corpo di Polizia
Repubblicana della Repubblica Sociale Italiana e poi dalla Guardia
Nazionale Repubblicana (guardie regie vennero impiegate anche nelle
stragi e fucilazioni di Forte Bravetta, nell’ambito dell’attività
antipartigiana, avvenute il 31 gennaio, il 7 marzo e il 3 giugno
1944), mentre nell’Italia del Sud la Polizia dell’Africa Italiana
affiancò altre unità operanti in zona, fino a quando non venne
sciolta il 9 marzo 1945, con il personale trasferito nella Pubblica
Sicurezza, prevalentemente nei ruoli amministrativi. Quindi le
vicende per quella branca di polizia furono diverse a seconda della
zona italiana dove i suoi uomini si trovavano ad operare.
Alessia
Biasiolo, CESVAM, vicepresidente della Federazione di Ancona