La Guerra di Liberazione fuori dai confini nazionali
Il Quadro generale
della Resistenza dei Militari Italiani all’estero.
L’Albania.
Itinerario di Ricerca
Il
fascismo e il nazismo hanno segnato la storia dell’Europa nella prima metà del
Novecento; se, in modo succedaneo, si accettano elementi che ancora
sopravvivono di queste esperienze in Europea o in Italia, o addirittura si
abbracciano queste ideologie, si deve negare in modo chiaro che non si può
parlare né di Resistenza, in Europa, né di Guerra di Liberazione, in Italia. Lo
spartiacque di questa impostazione è quello al di qual del quale non si
accettano né fascismo né nazismo; al di là li si accettano, pur nella
esperienza di oltre 60 anni di vita
repubblicana ed unitaria in Europa. Se si è al di qua di detto spartiacque
allora si può parlare di Resistenza, intesa come la lotta dei popoli europei,
in generale, ed italiano, in particolare,
contro i predetti e fascismo e nazismo. In Italia, secondo il nostro
approccio, emerge nella sua reale dimensione la crisi seguita alla dichiarazione dell’armistizio dell’8
settembre, in cui arrivò alla sua naturale soluzione la crisi del nostro Paese
dovuta al fallimento morale e materiale del fascismo culminata il 25 luglio
1943 con la destituzione di Mussolini e la cancellazione con tre decreti leggi
del fascismo come regime.[1]
Questo è l’ulteriore spartiacque che occorre segnare per comprendere, a noi
Italiani, perché il fascismo ha fallito. Occorre riprendere alla mano tutte le
fonti, alzare il velo della ideologia e del vittimismo e giustificazionismo e
capire, con documenti alla mano, perché si arrivò a quel grande disastro
materiale che fu la seconda guerra mondiale (1940-1943) ove collezionammo una
serie di sconfitte e umiliazioni, oltre al discredito ed al disprezzo di nemici
e alleati, a cominciare dal principale alleato del fascismo, la Germania
nazista. I Nazisti disprezzarono, in generale, l’alleato fascista, in
particolare, e diedero nuova linfa al disprezzo risorgimentale ed antiunitario
verso gli Italiani nutrito dalle popolazioni germaniche. Comprendere perché non
conquistammo la loro fiducia, stima e considerazione, almeno in campo militare.
Si può vincere e si può perdere, ma forse è più importante il come si vince e
il come si perde. Noi su questo punto fummo sempre deficitari. L’unico che ebbe
una qualche ammirazione per noi, per il Duce,in particolare, fu Hitler, che lo
manifestò fino alla fine. Ma i vertici nazisti, basta leggere i Diari di
Himmler e di Goebbels per averne un riscontro diretto. Himmler aveva donato
alla Milizia 36 carri Tigre, con istruttori tedeschi, e la Divisione di Camicie
Nere stanziata a Chiusi doveva essere un serio baluardo contro i nemici del
fascismo. Il 25 luglio non si mosse, come non si mossero i Moschettieri del
Duce, la guardia scelta che avrebbe dovuto essere l’ultimo baluardo, fino
all’estremo sacrificio della vita, ad ogni minaccia. Tutti fini in un
fallimento prima morale e poi materiale. Quando nel 1922 il Fascismo andò al
potere, l’Italia era una nazione agricolo-pastorale, divisa tra Nord e Sud,
povera e sottosviluppata, ma che si era convinta che aver vinto la Grande Guerra
e la conquista di Trento e Trieste di aver risolto tutti i suoi problemi, molti
secolari altri recenti. Il Fascismo andò al potere trainato da un gruppo di
uomini decisi, impreparati ideologicamente, lontani da filosofie, digiuni di
ogni preparazione di alto livello. Si mise all’opera per fare dell’Italia una
Potenza, e nelle apparenze, agli inizi degli anni trenta presentò ad una Europa
più sorpresa che attonita, una Italia diversa. Un Italia che l’Europa conosceva
come disordinata, portata per abitudine al compromesso ed all’inganno, alla
frode spicciola e al raggiro di bassa lega, con un tessuto sociale friabile,
messa la camicia nera era diventata in pochi anni ordinata, precisa degna di proporre all’Europa stessa qualcosa
di diverso, di rivoluzionario, sotto la guida del “Duce”. Mussolini creò quello
che poi sono stati definiti gli anni del consenso. Con ordini perentori
dall’alto “metteva in riga” il popolo italiano. Presentava la Grande Guerra come una vittoria Italiana ove marginalmente francesi, belgi,
britannici, americani presero parte, era il protagonista della Storia, e con il
concordato l’”uomo della provvidenza”. Di fronte a lui tutti si inchinarono:
scrittori, giornalisti, uomini di cultura, preti di alto e basso clero,
insegnati e professori, il popolo tutto. L’opposizione si ridusse a pochissimi
uomini che dovettero andare in esilio, ed anche lì perseguitati dall’OVRA, e da
poche centinaia di migliaia di “mormoratori”. Al tempo dell’Impero, a metà
degli anni trenta, l’adesione, il “consenso” fu massiccio. Con la vittoria in
Abissina, contro un avversario finto, il popolo italiano, credeva di poter
piegare il mondo. Il 9 maggio 1936, giorno in cui fu proclamato l’Impero, fu il trionfo del fascismo, ma anche l’inizio
del suo declino. Avviatisi sulla strada delle conquiste, il popolo italiano
doveva diventare un popoli di soldati, invece si sentiva ed era un popolo di
operai e di contadini. Chi doveva sostenere questa azione, questa
trasformazione era il Partito Nazionale Fascista, il P.N.F. Il suo compito era
quello di tenere legati i milioni di italiani che dovevano essere trasformati
in soldati, in conquistatori. Il P.N.F. arruolò, in questo immane compito,
tutti, dai neonati agli ultra ottantenni, e mise tutti in divisa, in camicia
nera, in un orgia di militarismo ossessivo e ossessionante che non vide ne
prima ne poi alcun paragone in Italia.
Per gestire le masse, non puntò, e questo
forse il campo di ricerca più interessante, ai Quadri, a coloro che dovevano
gestire e orientare queste masse di popolo in camicia nera, a coloro che,
attraverso la selezione meritocratica dovevano diventare la dirigenza del
Partito, a cui affidare il raggiungimento degli obbiettivi primari. Puntò
invece all’esterno dell’uomo, alla apparenza, trascurando i cervelli, favorendo
i mediocri, i più controllabili, i più guidabili, creando baronie a tutti i
livelli, con una proliferazione di gerarchi, gerarchetti, gerarchicini servili,
forti con i deboli e deboli con i forti, una sconfinata schiera di “yes man”, che
non riuscirono a far altro che impantanare la Nazione in una ossessiva
burocrazia di ordini, fogli d’ordini, disposizioni, ordinanze, precetti,
circolari, ordini del giorno ecc. Achille Storace, segretario del PNF dal 1930
al 1940 fu protagonista e l’animatore di tutto questo. Il Partito fallì
nell’impresa di forgiare il nuovo italiano. Le piaghe di sempre non
scomparvero, la mafia e la camorra operavano in silenzio, la corruzione correva
come sempre ha corso, le tangenti la facevano da padrone, gli scandali si
susseguivano agli scandali, anche se era vietato parlarne, in un orgia di
retorica inconcludente e vuota e stantia, con una “intellighenzia” che si
prostituiva in modo tanto vergognoso quanto criminale.
Con la Guerra di Spagna, il popolo Italiano capì
che ci si era incamminati su cose più grande di Lui. L’Alleanza con la Germania
sempre più stretta, inorgogliva ma impauriva, vedendo i tedeschi sempre come
tedeschi. Con le leggi razziali il cammino divenne arduo e gli interrogativi
aumentarono, Monaco fu un sollievo, ma di breve durata. Ma dove il fallimento
del PNF fu più marcato fu la preparazione alla guerra. Un partito che predicava
il combattimento come suprema sfida e stile di vita, non curò la preparazione
militare della Nazione e la ragione era semplice: perché non era capace. Quel
coacervo di etnie che è il nostro Paese, lì dove si fabbricano 400 tipi di
pasta, che è il piatto nazionale, aveva
abitanti che non possedevano la stoffa del Protagonista, del dominatore della
scena mondiale, deboli di carattere, carenti di volontà, con forte inclinazione
all’individualismo inconcludente e prativo, all’indisciplina, alla incapacità
di rimanere saldi nei momenti di crisi e di difficoltà. Il PNF si presentò alla
prova della Guerra Europea, lì dove si dovevano decidere i destini del futuro,
vuoto e morto. Un Partito che era tutto apparenza, in gigante dai piedi
d’argilla, ma che non era in grado di affrontare le grandi prove. I famosi
reggimenti d’acciaio, la Gioventù Italiana del Littorio forgiata dal maglio
della rivoluzione fascista, non esisteva; le piazze erano piene, ma di
scheletri, di pupazzi in divisa, corpi senza cuore. Quando il popolo italiano
seppe che l’Italia non entrava in guerra nel settembre 1939, tirò un sospiro di
sollievo e ringraziò la buona stella. Quando il 10 giugno 1940 seppe che la
guerra era iniziata, si raccomandò al buon stellone d’Italia e sperò che
Mussolini avesse visto giusto. Ma ben presto si vide che una Nazione che doveva
essere rigenerata dalla rivoluzione fascista, non lo era. Già la campagna delle
Alpi occidentali mostrò tutti i limiti e le manchevolezze e da qui partì quella
serie di sconfitte, incapacità di operare, di essere sconfitti con dignità, di
non riuscire a condurre una operazione vittoriosa, che segno 39 mesi di guerra.
Giunsero ben presto le sconfitte in Africa settentrionale, in A.O.I e la
disastrosa Campagna di Grecia, che chiarì in modo inequivocabile che l’Italia
non era quella che appariva. Non facciamo altro che ricordare delle sconfitte:
El Alamain, Nikolajevka, tutto ammantando di frasi retoriche: “mancò la
fortuna, non il valore” si scrisse nel momento migliore delle nostre
fortune in Africa settentrionale. Questo va bene per loro, per i Bersaglieri.
Per l’Italia, occorre aggiungere che oltre alla fortuna mancarono tante altre
cose, prima la benzina, poi i mezzi, poi l’equipaggiamento adeguato, e, in
genere, tutta la logistica necessaria a
condurre una guerra mondiale, poi l’azione di comando, poi la strategia
operativa, poi la strategia. Il Fascismo portò l’Italia, mese dopo mese, dal
1940 al 1943 alla distruzione e le conseguenze di questo disastro si
ripercuoteranno per generazioni.
Il
Fascismo cadde e nei 45 giorni seguenti in cui il nostro vertice Politico
doveva gestire la nostra uscita dalla guerra contribuì con errori, alcuni
davvero madornali, in sequenza , uno dopo l’altro fino alla suprema follia
della gestione dell’armistizio e la
conseguente gestione della crisi armistiziale. Il popolo italiano di fronte a
tanto disastro, quando lo stesso concetto di Unità Nazionale fu messa in
discussione, si trovò costretto a scegliere. E la genesi dei fronti della Guerra di Liberazione.
I fronti, che nel nostro approccio individuati sono i seguenti:
- Quello dell'Italia libera, ove gli
Alleati tengono il fronte e permettono al Governo del Re d'Italia di esercitare
le sue prerogative, seppure con limitazioni anche naturali per esigenze
belliche. Il Governo del Re è il Governo legittimo d'Italia che gli Alleati,
compresa l'URSS., riconoscono.
- Quello dell'Italia occupata dai tedeschi.
Qui il fronte è clandestino e la lotta politica è condotta dal C.L.N., composti
questi dai risorti partiti antifascisti. E' il grande movimento partigiano dei
nord Italia.
- Quello della resistenza dei militari
italiani all'estero. E' un fronte questo non conosciuto, dimenticato,
caduto presto nell'oblio. E' la lotta dei nostri soldati che si sono inseriti
nelle formazioni partigiane locali
per condurre la lotta ai tedeschi (Jugoslavia, Grecia, Albania).
- Quello della Resistenza degli Internati
Militari Italiani, che opposero un deciso
rifiuto di aderire alla R.S.I., di fatto delegittimandola.
- Quello della Prigionia Militare Italiana
della seconda guerra mondiale.
Se vediamo il singolo militare, il singolo
cittadino atto alle armi vediamo che alla guerra parteciparono per varie vie,
spesso seguendo scelte le più disparate: chi come rifiuto di consegnarsi ai
tedeschi; chi, catturato, finì nei campi
di concentramento in Germania e in Polonia; chi entrò nelle file partigiane e prese le armi; chi
rientrò in Italia del Sud e nella stragrande maggioranza entrò nelle file dell'Esercito dei Re; chi visse, senza
cedere, sui monti in Italia e all'Estero per
non consegnarsi ai tedeschi e non collaborare, chi nei campi di Prigionia
degli ex-Nemici, ora alleati, accettò di collaborare in nome del contributo che
l'Italia doveva dare per un domani migliore.
L'approccio adottato permette di poter
sviluppare le ricerche in queste cinque direzioni al fine di vedere quanti e
quali italiani portarono, come dice Luciano Bolis il loro "granello di
sabbia", oltre a quella che vide coinvolti quelli che rimasero fedeli alla
vecchia Alleanza che ha permesso di riportare alla luce tanti episodi ormai
avvolti nel buio, ma deve essere ulteriormente integrato. Vediamo più da vicino
questi fronti.
Il Primo Fronte: L'Italia del Sud. Qui ricomincia a
funzionare il vecchio stato, ma accanto si sivluppa la dialettica dei partiti.
Partecipano alla guerra prima il I Raggruppamento Motorizzato, poi il C.I.L.,
poi i Gruppi di Combattimento. Sono, in nuce, i soldati del futuro esercito
italiano, che operano secondo le regole classiche della guerra. E' indubbio che
combatto contro i tedeschi, anche se il rapporto con gli Alleati è sempre di
sudditanza. Con la liberazione di Roma e l'avanzata nell'Italia centrale la lotta al nazifascismo non è disgiunta da
una appassionata discussione sul futuro politico dell'Italia e sulle
prospettive di vero rinnovamento democratico. Le forze partigiane e dei partiti
antifascisti coesistono, oltre che con l'organizzazione militare del Regno,
anche con la Chiesa Cattolica, fattori entrambi che condizionano in senso
moderato l'attivita antifascista.
Il Secondo Fronte: L'Italia del Nord. Al momento
dell'Armitizio, l'Italia fu tagliata in due. Al nord i tedeschi impongono la
Repubblica Sociale. Qui si ha la forma più compiuta di resistenza. Si hanno le
formazioni partigiane organizzate dai partiti antifascisti in montagna, mentre
nelle pianura e nelle città si organizzano i GAPe le SAP. Oltre a ciò la
popolazione civile partecipa alla guerra collaborando con il movimento
aprtigiano in mille forme, e subendo terribili e inumane rappresaglie; inoltre
gli operai con i loro scioperi e la loro resistenza passiva contribuiscono a
rallentare lo sforzo bellico dell'occupamnte e a minare anche la propria
sicurezza. Si ha il coinvolgimento di ampi strati della popolazione nella
guerra al nazifasismo, che si integra con il particolare prfilo dlele bande in
montagna, che non sono solo gruppi di combattenti ma anche luoghi di dibattito
e di formazione politica.
Il Terzo Fronte: L'Internamento.Nei mesi di
settembre ed ottobre l'Esercito tedesco fa prigionieri ed interna in Germania
oltre 600.000 militari italiani, dando origine al fenomeno dell'Internamento
Militare Italiano nella seconda guerra mondiale. Questi militari non hanno lo
statu di prigionieri, ma di internati, ovvero nella scala del mondo
concentrazionario tedesco, sono sullo stesso livello dei prigioneri sovietici (
La URSS non aveva firmato la convenzione di Ginevra del 1929) e poco al di
sorpra deli ebrei. Ovvero il loro trattamento era durissimo. In queste
circostanze per uscire da sueto inferomo ci si sarebbe aspettato una adesione
plebiscitaria alle proposte di collaborazione sia dei Nazisti sia degli
espopenti della R.S.I. Invece la quasi totalità degli Internati oppose il
rifiuto ad una qualsiasi forma di collaborazione, subendone le più terribili
conseguenze. Fu un fronte di resistenza passivo, ma determinato, che nella
realtà dei fatti deligittimo sul piano interno ma anche agli occhi dei
germanici la Repubblica Sociale. Infatti una desione in massa degli Internati
ai fascisti di Salò avrebbe permesso alla R.S.I. di avvalorare le tesi della
propaganda, che era l'unica rappresentate della vera Italia. In realtà questa
non adesione, in sistema con la lotta partigiana, isolò Mussolini relegandolo a
semplice rappresentate di se stesso e dei suoi accoliti.
Il
Quarto Fronte: La Resistenza dei Militari Italiani all'Estero
Se nel nord italia si
sviluppò il movimento partigianoattraverso bande armate, all'estero, i militari
italiani sopresi dall'armistizio dlel'8 sottembre e sottrattisi alla cattura
tedesca si opposero ai tedeschi in armi, inizialmente, poi dando vita, in
armonia con i movimenti di resistenza locali a vere e proprie formazioni
armate. Per la resistenza di formazioni organiche sono noti i fatti di Lero e
di Cefalonia. Meno noti tanti altri fatti in cui unità militari italiane
organiche resistettero ai tedeschi fino al limite della capacità operativa. Un
esmepio per tutte: La Divisione "Peruigia", stanziata nel sud
dell'Albania tenne in armi il porto di
Santi Quaranta fino al 3 ottobre 1943, in attesa di un aiuto da parte italiana
ed alleata. Una divisione di oltre 10.000 uomini, che dominava un area abbatanza vasta e che avrebbe potuto dare un
forte aiuto ad un intervento alleato dall'altra parte dell'Adriatico. 10.000
militari italiani che rimasero compatti per tre settimane oltr el'armistizio,
in armi e che pagaraono duramente questa loro resistenza. Infatti tutti gli
Ufficiali della Perugia furono fucilati, e gli uomini iternati in Polonia.
Per le unità che passarono in montagnae si
unirono ai movimenti partigiani locali, noti sono gli avvenimento della
divisione "Venezia" e "Taurinenze", che diedero vita alla
Divisione Partigiana Garibaldi; meno note le vicende della divisione
"Firenze" ed "Arezzo" in Albania e delle diviosioni
italiane stanziate in Grecia. Militari Italiani diedero vita alla divisione
"Italia" in Jugoslavia. Oltre che nei Balcani, militari italiani
parteciparono ai fronti di resistenza locali. Così in Corsica, ove oltre 700
militari caddero per la liberazione di Aiaccio, cosi nella Provenza, in centro
Europa la presenza di militari italiani è certa.
Il Quinto Fronte: La Prigionia. Vi
erano, al momento dell’Armistizio, circa 600.000 prigionieri nelle mani delle
Nazioni Unite. Soldati per lo più caduti nelle mani del nemico a seguito
dell’offensiva in Nord Africa (1940-’41) alla resa in Tunisia ed al tracollo
del luglio agosto 1943 in Sicilia. Per lo più, tranne i 10-12.000 soldati in
mano all’URSS, erano in mano anglo-americana. Questi soldati, questi italiani
all’annuncio dell’Armistizio dovettero, come tutti, fare delle scelte. La
stragrande maggioranza scelse di cooperare con gli ex-nemici, contribuendo
anche loro a costruire un futuro migliore. Una aliquota molto bassa non volle
cooperare, non solo perché fedeli alla vecchia alleanza, ma per variegate
motivazioni. Ad esempio a Hereford (USA) vie erano circa 4.000 italiani che gli
americani consideravano "sout court" fascisti. In realtà, fra questi
non cooperatori vi erano sì fascisti, ed anche prigionieri delle Forze della
R.S.I., ma anche monarchici, liberali, moderati, repubblicani, socialisti, comunisti
o laici in senso stretto che avevano fatto una scelta personale.I prigionieri
in mano agli Angloamericani furono organizzati in ISU, Italiana Service Units,
compagnie di 150 uomini addetti ad un aprticolare lavoro. Il loro contributo si
esplicò negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con l'impegno nei grandi arsenali
o nelle basi, oppure in Nord Africa e quindi in Italia, parte integrante della
organizzazione logistica alleata. Anche loro, con il loro lavoro, portarono il
contributo alla vittoria finale. Soprattutto i prigionieri che operarono in
Italia nel campo delle comunicazioni, dei trasporti e del genio, confluirono
poi nelle unità del nuovo esercito italiano, gestendo il materiale di guerra
americano
Ovvero, anche il prigioniero che, in un contesto
particolare, combatte.
A tutti i fronti si accede perchè volontari.
Si hanno diverse figure giuridiche, che già descriviamo, come il partigiano, il
patriota, il prigioniero, l'internato, l'ostaggio, il deportato, tutte figure
che si delineano a seconda del fronte con cui si combatte. Un fronte che rimane
unitario, nella volontà ferma di sconfiggere il nazifascismo. E in nome di
questa unità, ricordiamo in questa data unitaria chi, pur nella diversità di
grado ma non di natura, diede il suo contributo, il suo granello di sabbia, su
fronti diversi, affinchè si realizzasse una Italia migliore.
Questo il quadro generale di ricerca che si
propone, in una visione storico-scientifica unitaria, al fine di consegnare
alle nuove generazioni un approfondimento, oltre che una conoscenza, di fatti
che generarono gli anni della vicenda repubblicana la cui matrice non si può
non conoscere se si vogliono affrontare i problemi che abbiamo di fronte.
La crisi armistiziale rappresenta un momento
fondamentale della storia dello Stato Unitario Italiano. Si è parlato di “morte
della patria”, con i significati più svariati. Più che di “morte della patria”,
perché altrimenti non sapremo come definire che cosa è successo ed è avvenuto
in questi ultimi sessanta anni nella Penisola italiana, che non può essere
considerata come semplice espressione geografica. Più che “morte della patria”
il 25 luglio e la crisi armistiziali, quella calda estate del 19143, è la morte
della “patria fascista”, e tutto quello che significava. Gli stessi uomini che
andarono a dare vita alla repubblica Sociale Italiana, erano consci che il
passato non poteva nemmeno essere revocato. Oltre a voler dare vita a qualcosa
di nuovo, con la frase e la volontà “del ritorno alle origini” ed alla
persecuzione e punizione dei “traditori”, tutta la loro azione era volta a
creare e vivere cose nuove.
Dall’altra parte della barricata continuò a
vivere una certa idea dello Stato, che cercò di superare la parentesi fascista,
nel suo conservatorismo di primo novecento, su cui si innestarono, volenti o
nolenti, forze prima emarginate e ora in gradi di rifiorire in virtù della
crisi in essere. Dalla combinazione di questo miscuglio tra vecchio e nuovo,
uno alla ricerca del passato, l’altra alla ricerca di un futuro migliore, , nel
crogiolo della guerra di Liberazione nasce e si rinvigorisce un Secondo
Risorgimento d’Italia. Un secondo Risorgimento d’Italia in cui ogni Italiano è
chiamato a fare la sua scelta. In questa prospettiva, che da uno sguardo
unitario alla Guerra di Liberazione, occorre mettere in evidenza il rapporto
tra Resistenza e Forze Armate, un approccio che è trasversale a quello che noi
abbiamo adottato e che merita un approfondimento, soprattutto per comprendere
il “dopo” della Guerra di Liberazione“.
In
tutti i fronti sono presenti i Militari, ovvero coloro che, o in servizio
permanente effettivo o di complemento, avevano spesse esperienze di guerra e di
combattimento. Ma nella Guerra di Liberazione vi è la partecipazione, proprio
perché si è tutti volontari, di non militari, di “civili” di “borghesi” di
“popolo”, che, organizzati dai rinascenti partiti politici, combatterono contro
l’occupante in nome di una Italia migliore. Questa loro partecipazione viene
comunemente intesa come “Resistenza” o
come “movimento partigiano. Esiste quindi un rapporto tra queste due componenti
che meritano un ulteriore approfondimento. Lo proponiamo riportando un
intervento di Giorgio Rochat in merito, dal coerenti titolo “Forze armate e Resistenza”[2]
“Dovendo
riassumere l’atteggiamento della guerra partigiana verso le Forze Armate, il
termine migliore è la diffidenza. Le ragioni sono ovvie: l’appoggio dato dai
militari al regime fascista, le sconfitte, il crollo dell’8 Settembre. Gioca
anche una rivalità latente: le bande partigiane si considerano generalmente
come l’esercito della nuova Italia, che deve sostituire quello sconfitto e
compromesso col fascismo. Però non c’è soltanto diffidenza da parte della
Resistenza, l’antifascismo liberal-democratico condanna la guerra fascista, non
le Forze armate, che preferisce ricordare come strumento dello Stato liberale
nella prima guerra mondiale; e l’atteggiamento più drastico della base
socialista e comunista viene corretto dalle mediazioni di Togliatti. Ci sono
poi formazioni “autonome” che rivendicano esplicitamente la continuità con la
monarchia e l’esercito: non pochi ufficiali scelgono di fare il partigiano come
continuazione del loro servizio in condizioni nuove. Né bisogna dimenticare che
tutte le bande hanno un disperato bisogno di tecnici esperti, quindi arruolano
volentieri ufficiali, a rischio di qualche delusione, perché se non pochi
ufficiali effettivi rivelano doti di eccezionali capibanda, altri non riescono
ad inserirsi in un ambiente così diverso, in cui gradi vanno guadagnati sul
campo. Dopo il 1945 il mondo partigiano si spacca, una parte accetta la guerra
fredda, l’anticomunismo e la Nato, la maggioranza contesta duramente la
politica della Nato e la riorganizzazione dell’esercito volta a fronteggiare
rivolte popolari ed improbabili rivoluzioni. Poi negli anni settanta anche
l’Anpi socialcomunista, nella scia della revisione della politica delle sinistre,
ricupera una posizione di disponibilità e poi interesse verso le Forze armate,
rivalutandone il ruolo nazionale e la partecipazione alla lotta contro il
nazifascismo.
Da
parte delle Forze armate si trova una diffidenza ancora più marcata verso la
Resistenza, che ha diverse componenti. Una ragione di fondo è l’incapacità
comune a tutte le forze armate regolari di comprendere e apprezzare una guerra
partigiana, così diversa per valori e metodi, quindi minimizzata nei risultati
e rifiutata come esperienza anche quando è finito il suo ruolo potenzialmente
alternativo[3].
Si aggiungeva la reazione di insofferenza dei militari verso l’esaltazione dei
partigiani che uscivano vittoriosi dal conflitto, mentre le Forze armate erano
state battute e contestate. La guerra fredda e poi l’inserimento della Nato,
che offrivano alle Forze armate una nuova legittimazione e obiettivi
riconosciuti, sancirono il rifiuto della guerra partigiana, identificata (e
spesso criminalizzata) come sostanzialmente comunista, quasi un’anticipazione
dell’insurrezione filosovietica prevista dalla Nato. Si noti che la guerra
partigiana viene rifiutata in blocco, l’unica attenzione rivolta ala sa
componente anticomunista riguarda l’arruolamento di non pochi reduci delle
formazioni monarchiche e democristiane nelle strutture di Gladio e simili[4].
Bisogna
ricordare un passaggio fondamentale. Al momento della riorganizzazione delle
Forze armate la selezione degli ufficiali da mantenere in servizio fu condotta
secondo logiche interne, ma non politiche. Ossia non vennero considerati
discriminanti le scelte del 1943-1945, che avevano portato non pochi ufficiali
a rifiutare le stellette e il giuramento di fedeltà per continuare la guerra
nazifascista. La gran parte degli ufficiali che avevano militato nella
Repubblica sociale[5]
vennero riammessi in servizio; furono congedati soltanto i gradi più alti e
quelli che si erano macchiati di crimini particolarmente gravi[6].
La rinuncia ad una selezione politica era di fatto obbligata in un contesto
nazionale in cui la condanna del regime fascista non si accompagnava a un
riesame delle responsabilità istituzionali e personali, tanto che l’epurazione
si risolse in una farsa. Per le Forze armate, che tenevano in alto conto il
concetto di onore e il giuramento di fedeltà, la rinuncia era più grave e non
poteva non comportare la rimozione di un biennio irrisolto. È significativa la
decisione di insabbiare tutti i procedimenti aperti dai tribunali militari
contro i crimini di guerra commessi dalle truppe tedesche in Italia, presa
dalla procura generale militare, in flagrante violazione della legge (con il
consenso del governo), per liquidare le polemiche del dopoguerra[7].
Rimozione
del passato è un termine troppo forte. Come le altre grandi istituzioni (dalla
scuola alla magistratura, su un altro piano anche gli industriali e la chiesa
cattolica), le Forze armate potevano con qualche disinvoltura dimenticare le
compromissioni con il regime fascista e le guerre coloniali; non potevano però
rinnegare la guerra combattuta dal 1940 al 1943 con tanti morti e sacrifici[8].
Ne abbiamo una riprova nella produzione degli Uffici storici militari, che non
affronta il tema dei rapporti tra Forze armate e regime, ha dimenticato a lungo
le guerre coloniali e l’intervento in Spagna e invece annovera una buona serie
di monografie sulle campagne 1940-1943, tranne le occupazioni balcaniche[9].
È assai indicativa la lunga rimozione della cacciata degli ufficiali ebrei dopo
il 1938, una profonda lesione della tradizionale parità riconosciuta a tutte le
confessioni religiose dalle Forze armate, imposta dalla dittatura e certamente
sofferta, ma pure dimenticata per la riluttanza ad entrare nel campo dei
rapporti tra militari e fascismo[10].
Torniamo
ai difficili rapporti tra Forze armate e Resistenza per rilevare che essi
ebbero come conseguenza indiretta uno scarso interesse verso quella che oggi
viene definita la Resistenza militare, ossia i diversi contributi delle Forze
armate alla guerra contro tedeschi e fascisti: i combattimenti successivi all’8
Settembre, le formazioni passate a combattere insieme ai partigiani jugoslavi
ed albanesi, l’ostinato rifiuto che la forte maggioranza dei prigionieri fatti
dai tedeschi all’8 Settembre oppose alle pressione per un’adesione alla Rsi, la
parte dei militari nella guerra partigiana. Contributi molto diversi, che si
possono riassumere in una cifra: 90.000 militari caduti tra l’8 Settembre 1943
e il 1945 sui 225.000 italiani morti per causa bellica[11].
Anche in questo caso non si può parlare di una rimozione totale, ma di
un’attenzione scarsa e discontinua da parte del Paese e delle stesse Forze
armate. I combattimenti successivi all’8 Settembre sono spesso ricordati, ma
per avere una ricostruzione complessiva documentata abbiamo dovuto aspettare
l’eccellente volume del 1990 dello storico tedesco Gerhard Schreiber[12].
Ai caduti nell’isola di Cefalonia è stato eretto un bel monumento, ma il primo
libro serio sulle loro vicende è uscito nel 1993[13].
I militari che nel Settembre 1943 passarono con la guerriglia jugoslava ed
albanese, affrontando perdite e privazioni durissime, furono accolti con aperta
diffidenza al loro rimpatrio nel 1944 perché avevano collaborato con i
partigiani comunisti; i loro reparti vennero sciolti e dimenticati. La
rimozione più difficile da capire riguarda la resistenza dei circa 650.000
militari catturati dai tedeschi dopo l’8 Settembre. Sottoposti a fortissime
pressioni perché continuassero la guerra di Hitler e Mussolini, in forte
maggioranza rifiutarono di cedere con una straordinaria prova di fedeltà,
pagata con 40.000 morti di fame e lavoro forzato. Tuttavia vennero praticamente
dimenticati dalle Forze armate, che non hanno avuto parte diretta nel ritorno
di interesse per le loro vicende nell’ultimo quindicennio[14].
Maggiore fortuna hanno avuto le unità regolari inquadrate nelle armate alleate
per la campagna d’Italia: i gruppi di combattimento furono trasformati nelle prime
divisioni del nuovo esercito, le loro vicende sono abbastanza note e studiate,
anche se manca tuttora un’opera complessiva sulle Forze armate regolari nel
1943-1945.
A
partire dagli anni settanta la ricerca storico-militare ha conosciuto un forte sviluppo
negli ambienti civili e nelle università. Anche l’apporto dei militari è venuto
crescendo, pur con limiti strutturali che vale la pena ricordare. Il più
importante è che, con la seconda guerra mondiale, la storia militare ha perso
il posto fondamentale che aveva nella cultura professionale e anche morale
delle Forze armate: un tempo gli ufficiali si formavano studiando le grandi
campagne da Federico di Prussia a Moltke, oggi si occupano di sociologia, studi
strategici e altre novità di origine americana ma solo marginalmente di storia.
Un cambiamento che ha cause difficili da contestare, che però ha portato gli
Stati Maggiori a sottovalutare il ruolo che la storia continua ad avere sia
nella cultura degli ufficiali (la tradizione è un elemento forte di identità e
coesione, ma deve essere coltivata), sia nell’immagine interna ed esterna delle
Forze armate. Di conseguenza gli Uffici storici delle Forze armate continuano
ad avere scarse attenzioni e pochi mezzi (un confronto con quanto avviene in
Francia o in Germania è umiliante); hanno aperto i loro archivi[15]
e potenziato la loro produzione, ma non hanno le risorse per porsi come polo di
organizzazione della ricerca storico-militare nazionale, né per sviluppare
organicamente la collaborazione con gli studiosi civili. L’esempio più chiaro
viene dalla strozzatura editoriale: vincolati da regolamenti superati, gli
Uffici storici pubblicano opere quasi sempre pregevoli, spesso di grande
importanza, ma non riescono ad organizzarne la diffusione e la vendita
all’esterno.
Ci
dilunghiamo su questi particolari perché valgono a spiegare le difficoltà che
incontra il rilancio divenuto ineludibile degli studi sui rapporti tra Forze
armate e Resistenza, che superino la tradizione apolitica ed elusiva finora
dominante. Da questo punto di vista l’unica novità dei sei convegni su L’Italia in guerra, organizzati
annualmente dal 1990 dalla Commissione italiana di storia militare[16],
è il rovesciamento del rifiuto tradizionale degli ambienti militari a parlare
delle unità della Rsi, qui trattate sullo stesso piano delle Forze armate
nazionali e con più attenzione della Resistenza militare e partigiana[17].
A mezzo secolo di distanza dal conflitto mondiale, ci si poteva aspettare da
incontri così ufficiali qualcosa di più come organizzazione complessiva del
discorso sul conflitto, analisi della sconfitta italiana, ricerca di nuove
fonti, soprattutto un revisionismo autentico, capace di rimettere in questione
giudizi, chiusure e pregiudizi che risalgono alla guerra fredda.
Il
più organico tentativo di rilancio storiografico della Resistenza militare (un
termine che si è imposto in questi anni) nasce da un’ impresa individuale. Nel
gennaio 1989 il generale Ilio Muraca (che aveva combattuto in Jugoslavia nel
1943-1944 come giovane tenente dei bersaglieri) ottenne dal ministro della
Difesa Zanone la costituzione di una Commissione per lo studio della Resistenza
militare all’estero, dotata di mezzi finanziari adeguati e di una piena
autonomia anche rispetto agli Uffici storici[18].
La prima preoccupazione di Muraca[19]
fu di promuovere una vasta raccolta di documentazione con la fotocopiatura a
tappeto degli archivi italiani e stranieri, un’iniziativa più che meritoria e
tuttavia condotta con dimensioni e criteri non mai precisati, sembra di capire
ripartendo da zero, prescindendo dagli enti specializzati e dalle raccolte
documentarie già disponibili[20].
Questa massa di documenti presumibilmente sterminata fu messa a disposizione
degli autori cui veniva affidata la stesura autonoma dei singoli volumi. Ne
diamo l’elenco, precisando che sono tutti pubblicati in Roma presso le Edizioni
Rivista militare: Mimmo Franzinelli, I
cappellani militari italiani nella Resistenza all’estero, 1993; Luciano
Nisticò, I medici militari italiani nella
Resistenza all’estero, 1944; Luciano Viazzi, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Montenegro,
Sangiaccato, Bocche di Cattaro, 1994; Pasquale Juso, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Isole dell’Egeo,
1994; Luciano Viazzi e Leo Taddia, La
Resistenza dei militari italiani all’estero. La divisione Garibaldi in Montenegro,
Sangiaccato, Bosnia-Erzegovina; Selene Barba, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Francia e Corsica,
1995; Giovanni Giraudi, La Resistenza dei
militari italiani all’estero. Grecia continentale e Isole dello Ionio;
Agostino Bistarelli, La Resistenza dei
militari italiani all’estero. Jugoslavia centro-settentrionale, 1996;
Massimo Coltrinari, La Resistenza dei
militari italiani all’estero. Albania, 1999.
In
sostanza due volumi dedicati a medici e cappellani, uno per la Corsica e la
Francia, sei per le regioni balcaniche dove la Resistenza militare coinvolse il
maggior numero di truppe con esiti complessi e diversi. Manca la Resistenza dei
militari prigionieri in Germania per la defezione tardiva dello studioso che
doveva occuparsene; una lacuna grave nel quadro dell’opera, ma in certo senso
sopportabile perché, come abbiamo già detto, queste vicende sono ormai
relativamente note e studiate. La caratteristica più evidente di questi nove
volumi è la mancanza di omogeneità tra gli autori (su cui non sono fornite
notizie), i criteri di impostazione e la scientificità del lavoro, il livello
dei risultati[21].
I due volumi su medici e cappellani sono troppo dispersivi, si fermano alla cronaca
anedottica[22].
Il volume di Giraudi (che non cita mai le fonti utilizzate, peraltro assai
lacunose, e manca dell’indice dei nomi) non esce dall’agiografia tradizionale.
Anche Viazzi non cita mai le fonti; la sua ricostruzione è ampia ed ordinata,
ma poco attenta al contesto
balcanico.
I volumi di tre giovani studiosi, Barba, Bistarelli e Iuso, sono invece del
tutto soddisfacenti per impianto, fonti, chiarezza.
Il
volume migliore (anche se tropo lungo per l’inserimento di molti documenti e
testimonianze, peraltro di grande interesse) è il volume del colonnello
Coltrinari, frutto di un decennio di ricerche sulla documentazione archivistica
raccolta dalla Commissione e molto ampliata nei contatti personali con i
protagonisti e le famiglie, grazie anche agli studi precedenti dell’autore
sulla guerra e la prigionia. Le vicende dei militari italiani in Albania dall’8
Settembre alla fine del conflitto (e per alcuni anche dopo) sono forse le meno
note di tutta la Resistenza militare, anche per la successiva chiusura dei
rapporti con il regime comunista albanese; Coltrinari le ricostruisce con
pazienza nei loro molteplici aspetti e nei difficili rapporti con
collaborazionisti e partigiani, con una comprensione delle diverse situazioni
che non esclude giudizi precisi ed equilibrati[23].
A
Coltrinari si deve anche la definizione del quadro generale che ispira l’opera
del generale Muraca: la Resistenza come lotta dei popoli europei contro il
nazifascismo e come reazione morale al fallimento del regime fascista e al
collasso dell’8 Settembre, articolata su quattro fronti: l’Italia liberata
dagli Alleati con il concorso delle Forze armate, la Resistenza partigiana
nell’Italia occupata, la Resistenza militare all’estero dopo l’8 Settembre, la
Resistenza nei campi di prigionia tedeschi. Un quadro che ci sembra accettabile
perché rivendica il fondo comune di queste vicende senza trascurarne le
peculiarità.
Il
risultato dell’opera promossa dal generale Muraca è certamente positivo
(malgrado le lacune accennate) come capacità di revisione e ricupero della
Resistenza militare all’estero, che viene raccontata e documentata nelle sue
complesse vicende, rivendicata senza eccessivi trionfalismi e con un sufficiente
inquadramento. L’opera ha però un grave limite di fondo, la rinuncia ad
assicurarle una diffusione anche ridotta: i volumi sono pesanti (in tutti i
sensi), costosi (l’acquisto della serie completa richiede oltre 500.000 lire) e
non facilmente reperibili. Ben poco è stato fatto per assicurare loro un minimo
di pubblicità, né una larga distribuzione in omaggio ad enti e studiosi
interessati, né una serie di presentazioni, dibattiti e recensioni, comunque
non facili[24].
La dura conseguenza è che quest’opera non servirà molto a una migliore
conoscenza della Resistenza militare all’estero perché non potrà raggiungere
che ambienti limitati[25].
Un volume di ricerca storica originale non può certo avere il successo di
pubblico degli articoli che Mario Pirani ha dedicato ai fatti di Cefalonia su
“La Repubblica” nello scorso inverno; ma una grande istituzione come quella
militare può trovare strumenti di divulgazione adeguati, se lo ritiene necessario.
Ritorniamo al problema di fondo: la difficoltà per le Forze armate di stabilire
un rapporto migliore con la storia contemporanea, anche quando ne avvertono
l’importanza in termini di identità e prestigio.
Una
riprova viene dal recente volume I
militari nella guerra partigiana in Italia 1943-1945, curato per l’Ufficio
storico dell’esercito da Alfonso Bartolini, dirigente dell’Anpi, e dal
colonnello Alfredo Terrone[26].
Il progetto del volume risale a Filippo Frassati[27],
che intendeva partire dalla ricognizione sistematica delle carte delle
commissioni per il riconoscimento dei brevetti di partigiano nel 1945, oggi
disponibili, per documentare la partecipazione dei militari alla guerra
partigiana. Un progetto di grosso impegno, la schedatura informatica delle
domande presentate in Piemonte (quasi 50.000 per i soli partigiani
combattenti), ha richiesto agli Istituti piemontesi per la storia della
Resistenza anni di lavoro, che hanno portato nel 1995 alla costituzione di una
banca dati su Partigianato piemontese e
società civile[28].
La scomparsa di Frassati e l’enorme lavoro necessario per estendere la ricerca
a tutto il territorio nazionale[29]
hanno portato ad un ridimensionamento del progetto affidato a Bartolini e
Terrone, che ha assunto una dimensione per così dire artigianale. La ricerca
sulla partecipazione di militari alla lotta armata nel territorio nazionale è
stata infatti condotta a partire dagli studi esistenti (peraltro non elencati),
con una sommaria ricostruzione della Resistenza provincia per provincia, in cui
viene evidenziata la presenza di militari di ogni arma, grado e condizione. Gli
autori hanno cura di sottolineare che le loro ricerche non hanno pretese di
completezza, vogliono soltanto ricordare quanto numerosi fossero i militari tra
i partigiani. Il volume è corredato dall’elenco dei militari decorati per la
parte avuta nella Resistenza di medaglia d’oro (oltre 300), d’argento (oltre
700, elenco incompleto come i seguenti), di bronzo (poco meno di 700), di croce
di guerra (poco meno di 500). E da un indice dei nomi citati, oltre 5.000 se
abbiamo contato bene.
Il
volume richiede alcune considerazioni. In primo luogo la presenza di militari
nella guerra partigiana è straordinariamente più ampia di quella riportata,
basti conoscere la storia di una sola valle per poter indicarne decine e decine
di altri. Se gli autori avessero consultato gli Istituti territoriali per la
storia della Resistenza e le loro ricerche sulla composizione delle bande e sui
caduti, avrebbero potuto decuplicare le citazioni senza fatica. Tuttavia i
5.000 nomi raccolti sono già sufficienti perché nella sua premessa al volume
Alberto Santoni scriva che “i risultati comunque raggiunti appaiono a dir poco
sconvolgenti”; il numero dei militari che parteciparono alla lotta armata
“supera ogni immaginazione, tanto che viene spontaneo chiedersi per quale
motivo (se ne esiste uno ragionevole) il Ministero della Difesa abbia
trascurato fino ad oggi di valorizzare tali dati”[30].
La
realtà è ben diversa. Il servizio militare era obbligatorio: se si escludono i
riformati per ragioni fisiche, gli anziani, i giovanissimi e gli ebrei espulsi
dalle Forze armate nel 1938, tutti gli altri italiani maschi sono
classificabili come militari, sia che all’8 Settembre fossero alle armi, in
licenza, in congedo o in prigionia. Quindi i militari presenti nella Resistenza
non sono i 5.000 elencati nel volume, ma la grande maggioranza dei partigiani,
diciamo 150.000 su 200.000 partigiani – attenzione, sono cifre orientative che
diamo soltanto come ordine di grandezza, non avendo elementi per una stima di
qualche precisione. Ciò naturalmente se si tiene conto dello status giuridico dei singoli, non del
loro effettivo servizio; ma è il criterio seguito nel volume in esame, che
tiene conto del grado, ma non distingue tra militari in servizio ed in congedo,
tra ufficiali effettivi e di complemento. E quindi annovera tra i militari
piemontesi decorati di medaglia d’oro il generale Perotti e il tenente
effettivo Serafino, ma anche l’aviere Dante Di Nanni, gappista comunista, e il
sergente Tancredi Galimberti, leader del Partito d’azione, che con l’esercito
avevano poco a che fare.
Cercare
di quantificare con qualche precisione la parte delle Forze armate nella guerra
partigiana (e nei suoi caduti) non è possibile. Non si può tenere conto
soltanto degli ufficiali e sottufficiali in servizio permanente, perché sarebbe
riduttivo; né tentare di identificare quanti accettarono la guerra partigiana
in quanto militari, come continuazione del loro servizio nelle Forze armate,
perché ci vorrebbero indagini caso per caso (a prescindere dal fatto che la
scelta ha spesso più motivazioni). Classificare come militari tutti e soltanto
i milioni di uomini che erano alle armi all’8 Settembre è un criterio troppo
vago e generico, le loro vicende sono troppo diverse e disperse. Un elemento
molto interessante per ricordare la complessità della situazione è la forte
presenza di alpini nelle formazioni partigiane (e dei loro miti e valori,
compreso il cappello alpino così diffuso), che è dovuto in primo luogo al fatto
che la guerra partigiana si sviluppò in buona parte nelle regioni alpine, ma si
spiega anche con il reclutamento territoriale ed il radicamento locale che avevano
sia alpini che partigiani.
In
sostanza, una partecipazione diretta e indiretta delle Forze armate alla guerra
partigiana è incontestabile (uomini, valori, esperienze), ma non può essere
quantificata né analizzata. Si può parlare di un rapporto triangolare tra Forze
armate, guerra partigiana ed il Paese, la società italiana: la guerra
partigiana appartiene anche alle Forze armate perché le due realtà sono in modi
diversi espressione dello stesso Paese, pur avendo anche legami (e
conflittualità) diretti. Il volume di Bartolini e Terrone serve a ricordare
questi legami, non a dimostrarli (non ce n’è bisogno) né a quantificarli (non è
possibile). È positivo che l’ufficio storico si sia posto il problema, seppure
in termini così inadeguati che devono far riflettere; in ogni caso non sono
soltanto i militari ad essere in ritardo, visto che Bartolini è un autorevole
dirigente dell’Anpi. Il problema di fondo per le forze armate rimane quello già
accennato: la necessità di un recupero della loro storia, non in chiave di
isolamento, ma nel quadro della storia nazionale, cui appartengono la
Resistenza partigiana e la Resistenza militare. Giorgio Rochat.”
Il lavoro che qui presentiamo, che è un
segmento di un lavoro già iniziato nel 1989 come già detto nella Nota
introduttiva, vuole conoscere ancora di più nei particolari uno dei tanti
episodi, che si risolse in uno dei tanti disastri, uno dei tanti, a cui
andarono incontro unità delle nostre Forze Armate. Le vicende della Divisione
“Perugia” merita una attenzione in più
nel quadro degli avvenimenti post- armistiziali in terra albanese, oltre che
per i motivi che abbiamo descritto, anche per uno, che forse è il più
importante: fu la Divisione Italiana in
territorio non nazionale, in contatto con il Comando Supremo a Brindisi, che
rimase in armi fino al 3 ottobre 1943, ovvero circa quattro settimane dopo
l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943; essa era in grado, se
opportunamente sostenuta o dall’Italia da parte del nostro Comando Supremo,
oppure dagli Alleati, di garantire una testa di ponte oltre Adriatico, che
sicuramente avrebbe aperto interessanti prospettive non solo tattiche ma anche
strategiche, prima fra tutte quella di attirare maggiori forze tedesche che
sarebbero state sottratte da altri fronti. Ma
queste possibilità strategiche non furono colte perché erano oltre la volontà di noi Italiani, sconfitti
ed arresesi. Dipendeva tutto da Americani e Britannici. Ma al loro interno
prevalse la linea strategica statunitense, che oscurò quella britannica con la
conseguenza che non furono prese iniziative di nessun ordine fuori dal
territorio italiano in favore degli italiani nei Balcani. Non prendere
iniziative offensive strategiche poteva essere compreso, ma rimaneva la
possibilità di mettere in essere una operazione di recupero dei nostri soldati,
con navi ed uomini italiani ed appoggio aereo alleato. I mezzi vi erano, come i
reduci testimoniano. Rimaneva quindi il
dovere morale di non abbandonare a loro stessi questi uomini che in armi non
erano scappati, dimostra che l’assunto che all’annuncio dell’armistizio le
Forze Armate si “liquefarono”, in quel “tutti a casa” di cinematografica
memoria, che sarebbe ora di rimuovere dalla nostra storia recente.
Oltre a questo dato importante, il nostro contributo
è volto a fare un parallelo con le vicende svoltesi a Cefalonia e Corfù nello
stesso torno di tempo, e si può dire che
la “Perugia”, vi influirono in modo indiretto ove gli avvenimenti
tattici sono strettamente legati con quelli che si svolsero sulle due isole.[31]
Presentiamo nel
prosieguo una ricostruzione concisa delle vicende dalla divisione “perugia”
dall’8 settembre al 3 ottobre 1943, indi le attività di ricostruzione
documentaria svolta da coloro che, reduci e sopravvissuti a quelle vicende,
vollero conoscere l’evolversi degli eventi che coinvolsero coloro che non sono
tornati. Questo ultimo aspetto lo abbiamo articolato in segmenti temporali,
pubblicando documenti e carteggio che, da una parte ricostruiscono ed integrano
quanto già presentato ed elaborato, dall’altra sono a dimostrare la volontà di
ricerca e di documentazione svolta in questi sessant’anni.
Alcune
osservazioni sui punti più controversi della vicenda della “Perugia” integrano
quanto sopra. Il quadro che si presenta non è esaustivo, anche per ragione di
spazio e sicuramente sarà necessario ipotizzare in questa collana un ulteriore
volume da dedicare alla “Perugia”, in cui inserire il materiale disponibile,
primo fra tutti la “Relazione Coraglia” e il “Documento Dore”, di interesse
estremo.[32]
[1]Il
26 luglio 1943 il Maresciallo Badoglio comunica che la M.V.S.N. “fa parte
integrante delle Forze Armate della nazione e con esse collabora, come sempre,
in piena comunità di opere e di intenti per la difesa della Patria”. A
comandarla è nominato il generale Quirino Armellini, il quale il 31 luglio
dispone, tra l’altro, l’abolizione del ruolo della G.I.L. (Gioventù Italiana
del Littorio) e le dimissioni d’autorità degli ufficiali della Milizia cui il
grado è stato conferito per sole benemerenze politiche: Il 30 luglio i
Ministeri militari dispongono il richiamo alle armi dei segretari federali, dei
vice-federali, dei fiduciari di fabbrica e degli squadristi dipendenti delle
organizzazioni del P.N.F.
Il
P.N.F. è tutta la sua incastellatura vengono smantellati con tre R.D.L. del il
2 agosto 1943. e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 180 del 5 agosto 1943.
Il 605 scioglie la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il 706 sopprime il
Gran Consiglio del fascismo, il 704 è quello che riguarda più propriamente, con
l’elencazione minuta della destinazione degli averi, dei compiti e dei
dipendenti di ogni ente o organizzazione del Partito. Sono soppressi anche il
calendario fascista, l’aggettivo “fascista” applicato a enti, istituti e azione
e la dizione “Duce del fascismo” Capo del Governo” contenuta nelle leggi nei
regi decreti ed in altri provvedimenti. Resta in piedi solo L’Opera Nazionale
Dopolavoro. Cfr.Rcciotti L., Il partito
Nazionale Fascista. Come era organizzato e come funzionava il partito che mise
l’Italia in camicia nera, Milano, Rizzoli 1985.
[2]Rochat
G., Forze Armate e Resistenza, in
Italia contemporanea”, settembre-dicembre 2000, n. 220-221., pag.
523-531.
[3]Non
è un problema soltanto italiano, si veda la difficoltà dei comandi
angloamericani di riconoscere i risultati dei loro stessi servizi speciali
incaricati della promozione della guerriglia oppure la liquidazione della
Resistenza francese come forza militare; un esercito regolare può esaltare la
guerra partigiana soltanto quando nasce da essa, come nel caso jugoslavo, ma
tende ugualmente a organizzarsi secondo le regole generali dell’istituzione
militare, non secondo le esperienze irripetibili della guerriglia.
[4]Le
generalizzazioni sono pericolose, non tutti gli ufficiali in servizio avevano
rifiutato la Resistenza. Per esempio, Ferruccio Parri mantenne stretti legami
con molti ufficiali che avevano fatto il partigiano, da cui ricavava
informazioni sugli indirizzi e gli umori delle Forze armate, nonché un concreto
aiuto per le sue denunce delle mene del generale De Lorenzo e di altri
aspiranti “golpisti”.
[5]Non
esiste una stima attendibile degli ufficiali che aderirono alla Rsi perché
mancano archivi e ricerche che permettano di distinguere tra ufficiali
effettivi, di complemento e in congedo, nonché calcolare quanti continuarono
realmente la guerra nazifascista, quanti si limitarono a un’adesione passiva e
quanti furono considerati aderenti a loro insaputa, come gli ufficiali in
congedo che continuarono le loro attività civili senza accettare né rifiutare
esplicitamente la Rsi.
[6]Secondo
notizie attendibili, ma bisognose di conferma, l’esercito riammise la gran
parte degli ufficiali della Rsi, ma poi bloccò le loro carriere prima della
promozione a generale. L’aeronautica non li discriminò affatto, al punto da
avere in seguito un capo di Stato Maggiore che aveva aderito alla Rsi. La
marina li congedò tutti senza clamore, probabilmente perché avevano rotto la
coesione tradizionale del suo piccolo corpo ufficiali; e perché non poteva
perdonare la fucilazione degli ammiragli Mascherpa e Campioni. Una verifica è
possibile soltanto per i casi più noti, non per la grande maggioranza, a causa
dell’indisponibilità dei fascicoli personali e del fatto che i congedamenti
avvenivano di regola nella forma di dimissioni. Nel dopoguerra lasciarono il
servizio anche i pochi ufficiali diventati comunisti o considerati tali, ma
quelli che erano stati partigiani non furono discriminati, come dimostra
l’ascesa ai vertici dei generali Andrea Viglione ed Enzo Marchesi.
[7]Questi
procedimenti, aperti su sollecitazione e con il concorso delle autorità
angloamericane, alla fine del 1945 vennero riuniti per un coordinamento a Roma
presso la Procura generale militare (che aveva compiti di vigilanza sulla
giustizia militare, senza poter interferire nei processi). Tutti quelli che
avevano una certa consistenza, circa 700, non vennero restituiti alle procure
militari che li avevano aperti e nel 1960 vennero definitivamente insabbiati
con una “archiviazione provvisoria” che era una flagrante violazione di legge,
commessa proprio dal vertice (di nomina governativa) della giustizia militare.
Gli incartamenti sono stati “riscoperti” nel 1994 e rinviati alle procure
competenti per processi ormai simbolici. I fatti hanno trovato eco sulla
stampa, rinviamo alla rivista “Storia e memoria” dell’Istituto ligure per la
Storia della Resistenza, 1998 [recte 1999], n. 2, che riporta la relazione in
materia del consiglio della magistratura militare del 23 marzo 1999 con un
inquadramento di Raimondo Ricci. Inoltre si veda Franco Giustolisi, Gli scheletri dell’armadio, “Micromega”,
2000, n.1
[8]Tanto
più che dinnanzi a questa guerra imbarazzante la nuova classe politica ne
delegava di fatto il ricordo e la celebrazione alle Forze armate. La memoria
collettiva di questa guerra è comunque discontinua, forte per le operazioni in
Africa settentrionale, in Russia e sui mari, molto debole per gli altri teatri.
Cfr. Giorgio Rochat, La guerra di Grecia,
in Mario Isenghi (a cura di), I luoghi
della memoria, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1997.
[9]Un
bilancio troppo sommario, ma in questa sede non abbiamo lo spazio per
articolarlo. Va almeno ricordato che il lungo silenzio sulla guerra di Spagna
era dovuto ad un veto politico, caduto (se siamo bene informati) alla metà
degli anni ottanta, dopo di che sono apparse documentate monografie in materia
dei tre uffici storici. Sulle guerre coloniali sono usciti nell’ultimo decennio
contributi interessanti, ma ancora episodici. La perdurante mancanza di studi
organici sulle occupazioni balcaniche ha certamente attenuanti nella
complessità delle vicende e nel ritardo generale degli studi italiani in
materia, ma soprattutto dipende dalla durezza delle repressione antipartigiana
condotta dalle truppe italiane.
[10]Abbiamo
già segnalato il volume che pone fine a questa lunga rimozione: Alberto
Rovighi, I militari di origine ebraica
nel primo secolo di vita dello Stato Italiano, Roma, Ussme, 1999.
[11]Cfr.
Giorgio Rochat, Una ricerca impossibile.
Le perdite italiane nella seconda guerra mondiale, “Italia contemporanea”,
1995, n. 201 (ristampato in G. Rochat, Ufficiali
e soldati. L’esercito italiano dalla prima alla seconda guerra mondiale,
Udine, Gaspari, 2000). Questo totale comprende i militari caduti nei
combattimenti dell’8 Settembre (20.000), nella prigionia tedesca (55.000),
nelle guerre balcaniche (10.000) e nelle unità regolari della campagna d’Italia
(3.000). Non comprende i militari caduti nella guerra partigiana (non
calcolabili come diremo appresso), quelli morti come prigionieri degli Alleati
(da 5 a 10.000), i morti senza divisa, non separabili dai civili, nelle
deportazioni politiche e razziali, nelle rappresaglie nazifasciste e sotto i
bombardamenti alleati; non comprende infine i caduti della Rsi che avevano
rifiutato le stellette. Le cifre sono approssimative e in parte discutibili.
[12]Rinviamo
alla tempestiva traduzione curata dall’Ufficio storico dell’esercito: Gerhard
Schreiber, I militari italiani internati
nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, Roma, Ussme, 1992
(la prima parte del volume è dedicata ai combattimenti successivi
all’armistizio; ivi la cifra di 13.400 militari prigionieri dei tedeschi morti
in mare nel trasferimento dalle isole greche alla terraferma, da aggiungere ai
circa 40.000 morti nella prigionia in Germania). Il volume di Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel
settembre-ottobre 1943, Roma, Ussme, 1975, aveva fornito una ricostruzione
incompleta e insoddisfacente, anche perché condotta sulle fonti italiane mai
lacunose.
[13]Ci
sia perdonata l’immodestia, si tratta del volume da noi curato con Marcello
Venturi, La divisione Acqui a Cefalonia.
Settembre 1943, Milano, Mursia, 1993. Vale la pena di ricordare che nel
1956, quando la giustizia militare tentò di mettere sotto processo gli
ufficiali tedeschi responsabili del massacro di 6.500 soldati italiani a
Cefalonia, incontrò il veto del ministro degli Esteri Martino: il processo
avrebbe disturbato la difficile ricostruzione dell’esercito tedesco necessario
alla Nato. Cfr. F. Giustolisi, Gli
scheletri nell’armadio, cit., che riporta due lettere del ministro Gaetano
Martino del 19 ottobre 1956 e 23 gennaio 1957, che ebbero la piena approvazione
del ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani.
[14]Il
convegno organizzato dall’Anei di Firenze nel 1985 ha segnato l’inizio di una
forte ripresa della memorialistica e degli studi sulla prigionia in Germania,
anche grazie ad una buona serie di convegni. L’opera maggiore è quella già
citata di G. Schreiber, I militari
italiani internati, contornata però da una bella e varia produzione.
[15]Gli
archivi dei tre Uffici storici sono aperti senza limitazioni fino al 1945, ma
in condizioni non sempre felici per orari, locali, inventari, personale
specializzato.
[16]Si
veda L’Italia in guerra. Il primo anno
1940, a cura di Romain Rainero e Antonello Biagini, Roma, Commissione
italiana di storia militare, 1991, atti del convegno del 1990 della Commissione
italiana di storia militare. Nonché i convegni dedicati ai successivi anni del
conflitto e i relativi atti con buon numero di relazioni di livello quanto mai
vario, senza un quadro complessivo che vada oltre una tradizionale difesa
dell’operato delle Forze armate e un agnosticismo politico datato che esclude
revisioni in profondità.
[17]Ben
vengano gli studi sulla Rsi, a patto che non eludano la sua dimensione
politica, dalla continuazione della guerra nazifascista al rifiuto delle
stellette. In realtà gli studi più seri sulle truppe e milizie Rsi sono venuti
da studiosi antifascisti, da L’esercito
di Salò di Giampaolo Pansa (Milano, Istituto nazionale per la storia del
movimento di liberazione in Italia, 1968, con ristampe presso Mondadori) e La repubblica di Mussolini di Giorgio
Bocca (Roma-Bari, Laterza, 1977) fino ai recenti La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Milano,
Garzanti, 1999) e Le brigate nere di
Dianella Gagliani (Torino, Bollati Boringheri, 1999).
[18]La
Commissione, presieduta da Muraca, era composta da undici rappresentanti delle
associazioni partigiane e reducistiche e dai capi dei tre Uffici storici. Di
fatto, Muraca poté operare in assoluta indipendenza, senza dipendere dagli
Uffici storici né ricorrere a studiosi qualificati; purtroppo non ha mai
fornito notizie sull’organizzazione e l’attività della Commissione né sui suoi
collaboratori. La pubblicazione dei volumi fu affidata alla “Rivista militare”
e non all’Ufficio storico delle esercito, certamente per sostenere l’autonomia
di Muraca (confermata dai ministri succeduti a Zanone).
[19]Le
critiche che muoviamo all’opera nulla tolgono alla riconoscenza che dobbiamo al
generale Muraca per questa sua battaglia personale e meritoria, condotta con
indomabile energia e un’ardente passione per la rivendicazione delle scelte e
delle traversie di soldati ed ufficiali che non vollero arrendersi, ma seppero
continuare a combattere dalla parte giusta in condizioni durissime.
[20]Ricordo
il giovane soldato che passò diversi giorni a fotocopiare interi fondi
dell’archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di
liberazione, senza che gli addetti potessero guidarlo in una ricerca di cui non
conosceva il senso, ma solo i termini quantitativi. Manca un elenco dei criteri
seguiti in questa raccolta di materiali, degli archivi visionati e dei fondi
fotocopiati, che pure sarebbe indispensabile per valutare l’ampiezza e la
qualità della documentazione raccolta. Le fotocopie riunite sono state in un
secondo tempo passare all’Ufficio storico dell’esercito, non sappiamo in quali
condizioni di inventariazione e consultabilità.
[21]La
mancanza di un’efficiente redazione centrale si avverte nella varietà dei
caratteri tipografici (in un paio di volumi, le note sono di faticosa lettura),
nella diversa completezza delle bibliografie e degli indici dei nomi citati,
nella discontinuità degli apparati cartografici, spesso insufficienti. Ogni
volume va per conto suo. Belle le fotografie, che però sono spesso casuali e
senza indicazioni sulle circostanze in cui furono scattate. Eccessiva la
lunghezza della maggior parte dei volumi, stesi senza problemi di costo:
l’opera conta quasi 6.000 pagine complessive.
[22]Per
i cappellani, è più utile ed interessante (pur nella forzata brevità delle
notizie specifiche) il volume generale di Mimmo Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani
militari nella seconda guerra mondiale, Paese (Treviso), Pagus, 1991
(purtroppo introvabile per la chiusura della piccola casa editrice).
[23]Coltrinari
è l’unico autore della collana che illustra in modo articolato le sue fonti,
non partendo da una descrizione degli archivi, ma fornendo l’elenco (e la
collocazione) dei documenti utilizzati e poi della memorialistica e della
documentazione privata raccolta.
[24]Nel
1999 sono state tenute alcune presentazioni dell’opera presso le Scuole
militari. Quella di Torino, cui ho assistito, si è risolta in una conferenza
rivolta ad un largo pubblico comandato, affatto ignorante in materia. Non pochi
dei giovani ufficiali che assistevano avevano un reale interesse per queste
vicende, ma per la loro impreparazione di base non erano in grado di
approfittare davvero della conferenza, che pure cercava di essere “didattica”.
I volumi presentati erano esposti al pubblico, ma con così scarse illusioni
sulla possibilità di vendita che non era previsto un forte sconto per
l’acquisto immediato. Malgrado ogni buona volontà, l’incontro si è risolto in
un’occasione perduta.
[25]Dopo
di che non ci resta che sperare che le copie invendute dell’opera siano
distribuite gratuitamente alle grandi biblioteche e agli enti di ricerca
specialistica, come gli Istituti per la storia della Resistenza. Finora l’opera
non è stata inviata neppure agli studiosi specializzati. Ringrazio la “Rivista
militare”, che me ne ha fatto cortese omaggio quando ho chiesto di acquistarla.
[26]A.
Bartolini, A. Terrone (a cura di), I
militari nella guerra partigiana in Italia 1943-1945, Roma, Ussme, 1998.
Bartolini è il direttore del quindicinale dell’Anpi “Patria Indipendente”
nonché autore del volume Storia della
Resistenza italiana all’estero, Padova, 1965. Terrone ha prestato servizio
per 22 anni presso l’Ufficio storico dell’esercito, congedandosi come
colonnello.
[27]Filippo
Frassati, nato nel 1920, era stato ufficiale di complemento nei Balcani,
comandante partigiano in val d’Ossola, ufficiale effettivo nel dopoguerra, poi
dirigente e storico anticomunista, infine professore di Storia militare presso
l’università di Pisa fino alla morte nel 1991.
[28]Questa
è la maggior ricerca sul partigianato. Ne esistono altre di ambito provinciale,
come quelle sui caduti negli anni di guerra nel Cuneese e nel Friuli.
[29]Le
carte delle commissioni di riconoscimento inoltre non rispondono che
parzialmente alle esigenze dell’Ufficio storico, perché riguardano i partigiani
che nel 1945 chiesero il riconoscimento (quindi mancano i caduti) e registrano
la condizione e il grado militare soltanto quando viene dichiarato
dall’interessato. Offrono comunque una gran mole di dati sulla partecipazione
dei militari alla guerra partigiana, come risulta dalla citata banca dati
piemontese.
[30]Santoni
firma la premessa al volume come successore di Frassati sulla cattedra di
Storia militare di Pisa, ma non dimostra di conoscere le fonti, né gli studi
sul 1943-1945, né gli Istituti per la storia della Resistenza e si limita a
ricordare “le varie pubblicazioni rievocative sulla Resistenza, che sovente hanno
solo finalità politiche e agiografiche”. Anche il colonnello Riccardo
Treppiccione, capo dell’Ufficio storico dell’esercito, nella presentazione del
volume giudica “sorprendente” la documentazione della massiccia presenza di
militari nella lotta armata.
[31]Questa
relazione si basa principalmente sul volume “La resistenza dei militari
Italiani all’Estero- Albania”, edito nel quadro della attività di Co.Re.Mit.E.
Questa Commissione si era data il
compito, nel 1989, di far conoscere le
vicende della resistenza dei soldati Italiani all’estero, a quell’epoca
praticamente scivolate nell’oblio generale. Lo sforzo di far conoscere queste
vicende continua ancora, nel quadro degli approfondimenti delle vicende
post-armsitiziali e della Guerra di Liberazione in generale.
[32]Il
testo trascritto della relazione si trova su www.internamentoereticolati.blogspot.com
con post inserito nella ultima decade di giugno 2017 e ripreso da www.valoremilitare cesvam.blogspot.com (
post nella terza settima di giugno” come “liason” tra le attività promosse dal
Comune di Pistoia ed il Centro Studi sul Valore
Militare dell’Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti decorati al
Valor Militare. Il 2 febbraio 2017 all’Istituto Gramsci di Roma ha avuto luogo
un Convegno sulla presenza dei militari italiani in Albania 1943-1945,
organizzato in collaborazione con l’Ambasciata d’Albania presso la repubblica
Italiana, con la partecipazione anche di studiosi albanesi, i cui contributi si
integrano con le attività svolte a Pistoia. Il prossimo febbraio 2018 si terrà
un ulteriore convegno che tratterà le Operazioni del 1944 fino alla liberazione
di Tirana. Questo convegno sarà preceduto, a novembre, da un incontro a
Pistoia, organizzato dalla locale Federazione Provinciale del Nastro Azzurro,
che si occuperà dei risvolti politico-economici e soprattutto dei rapporti con
i Partiti Comunisti italiano, Jugoslavo, Sovietico e Albanese in rapporto della presenza dei soldati
italiani sia combattenti che non. Notizie in merito:
centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org