Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea 1796 -1960

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Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944

Il Corpo Italiano di Liberazione ed Ancona. Il tempo delle oche verdi e del lardo rosso. 1944
Società Editrice Nuova Cultura, Roma 2014, 350 pagine euro 25. Per ordini: ordini@nuovacultora.it. Per informazioni:cervinocause@libero.it oppure cliccare sulla foto

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lunedì 30 gennaio 2012

Il Movimento di renitenza alla Leva nel Regno del Sud 1943-1944

Non si parte!”
Il 23 novembre 1944 viene pubblicato sui quotidiani l’annuncio del bando di “Presentazione alle armi “ per i giovani delle classi dal 1914 al primo scaglione di quella del 1924, rispondente all’esigenza di completare l’organico delle forze impegnate sul campo e che avrebbe dovuto trovare realizzazione a cominciare dal Lazio e dalla Campania per concludersi in Sicilia.

Con tale provvedimento sarebbero stati chiamati a servire nell’esercito del Re, sia quanti si erano sbandati dopo l’annuncio dell’armistizio, sia quanti, fino ad allora, non avevano prestato servizio, come nel caso degli universitari fino ai 26 anni, che il regime aveva esonerato dal servizio militare. Il rinvio venne confermato ancora solo per gli studenti di medicina, farmacia e veterinaria.

Analogamente sarebbero ora stati chiamati alle armi anche i cittadini di razza ebraica, per i quali però l’esonero dal servizio militare, stabilito dal regime in conseguenza delle leggi razziali, era stato abrogato già nel marzo del 1944.

Si trattava in sostanza di continuare nell’azione di ricostituzione dell’esercito, intrapresa dal governo subito dopo il trasferimento a Brindisi, e che si era resa necessaria in seguito allo sbandamento dei soldati seguito all’armistizio.

In Sicilia, però, la reazione al provvedimento in questione non si fece attendere e, sui muri di ogni centro dell’isola, presero a comparire scritte di aperta disapprovazione per lo stesso, cui presto si accompagnò la diffusione di manifesti che sollecitavano a non rispondere al richiamo e nei quali si sottolineava il bisogno, che la Sicilia stessa aveva, di giovani di cui servirsi per ricostruire quanto era andato distrutto e per rifondare su valori nuovi e diversi lo spirito della sua popolazione martoriata dal recente conflitto. Era dunque impensabile, in una situazione del genere, che questi accettassero di buon grado di andare in guerra.

Alla necessità dello Stato di tenere fede agli impegni contratti con gli Alleati, con la quale pure si voleva giustificare il richiamo alle armi, si rispondeva che comunque la nostra era una nazione vinta e che quegli stessi Alleati che ci avrebbero potuto aiutare a ricostruirla non avrebbero certo potuto dimenticare facilmente le tante perdite che avevano subito nella guerra combattuta, fino ad allora, sul nostro territorio.

Considerazione amara e polemica dalla quale pare trasparire una non totale fiducia a proposito del reale atteggiamento che gli Alleati potevano adottare nei nostri confronti.

Di diverso tono le ragioni di coloro che ritenevano che le condizioni poste con l’armistizio dell’8 settembre fossero tanto indegne da non poter trovare ulteriori legittimazione nella presentazioni alle armi, considerando, invece, come unica condizione valida perché si tornasse a combattere, il riconoscere l’Italia come un vero e proprio paese alleato.

Non mancarono poi appelli di chiara matrice politica.

Nel considerare quanto accadde tra il 1944 ed il 1945 in Sicilia non si può infatti sorvolare sul ruolo svolto in proposito dai fascisti che, nel malcontento popolare, speravano di trovare terreno fertile per il progetto di una loro riorganizzazione, ora che il duce, libero e a capo della RSI sostenuta dai tedeschi, aveva ripreso fiato ed annunciava potersi ancora, riequilibrare, prima, la situazione bellica e poi modificarla di nuovo a tutto vantaggio dell’Asse, il che avrebbe dovuto avere conseguenze facilmente intuibili sulle sorti politiche italiane.

Come vedremo in seguito, un sicuro ruolo in ciò accadde in Sicilia in questo periodo, fu ricoperto anche dal separatismo, che non mancò di approfittare del malcontento popolare che il richiamo alle armi aveva suscitato per trovare ulteriori adesioni alla sua linea politica. Non bisogna però sottacere il fatto che lo stesso movimento di renitenza alla leva, così come nel fascismo clandestino – che rappresentava un valido sostegno alla loro scelta di renitenza- trovò anche nel separatismo un forte alleato nella conduzione della sua opposizione al governo. Pertanto pur non escludendolo, non possiamo comunque parlare a priori di un orientamento politico – in senso separatista o fascista- alla base della scelta maturate da quanti decisero di non rispondere al bando di richiamo.

Possiamo invece ritenere più realistica l’ipotesi – anche in considerazione, specie con riferimento al separatismo, della modesta estrazione sociale della gran parte dei richiamati – che l’adesione all’uno o all’altro progetto politico, vista la loro comune posizione nei confronti del governo che aveva disposto il richiamo, fosse prima di tutto funzionale alla ricerca di un sostegno alla loro scelta di non rispondere al bando di presentazione alle armi.

Per diverso tempo, la contestazione originata dal bando di richiamo mantenne un carattere non violento ma, in seguito, degenerò in atti che di pacifico avevano ben poco. Così il 14 dicembre la popolazione insorge a Catania, in risposta all’uccisione di un giovane dimostrante, colpito dai militari.

Il “ Tempo “ del 15 dicembre 1944 titola: “Manifestazioni di studenti contro il richiamo alle armi - Molti edifici pubblici tra i quali il Municipio, il Tribunale , e l’Ufficio Leva incendiati “.

L’insurrezione continua fino al giorno successivo, quando esercito e polizia riassumono finalmente il controllo della situazione.

Diversi quotidiani si occuparono di tale episodio sia ricostruendone la dinamica che commentandolo nel merito, seguendo, nel far ciò, una linea comune, ponendo cioè l’accento su quanto importante fosse, in quel momento, preoccuparsi della ricostruzione civile, materiale e spirituale del paese, cui bisognava che tutti contribuissero senza lasciarsi andare a gesti istintivi ed incontrollati.

Il punto sui disordini cittadini viene fatto anche in un articolo de “L’Unità” – sempre del 15 dicembre – in un trafiletto del quale si riporta un comunicato diramato dall’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio che “(…) deplora il tentativo di sabotare la guerra liberatrice, tanto più esecrabile ove si consideri che nel resto d’Italia l’arruolamento procede regolarmente e che nelle regioni ancora occupate i patrioti offrono spontaneamente il loro contributo di sangue e di martirio nell’impari lotta contro il nemico (…)” e che si conclude con un appello alla “(…) generosa popolazione siciliana perché, raccolta nelle sue organizzazioni politiche e sindacali, collabori con le pubbliche autorità per mantenere nell’isola le nobili tradizioni di solidarietà nazionale (…)”.

Nello stesso periodo violenti scontri si ebbero anche in altre zone dell’isola, nonostante l’Alto Commissario per la Sicilia - nel tentativo di prevenire ulteriori disordini - avesse disposto il divieto di riunione e di assembramento nei luoghi pubblici e presto la rivolta popolare si estese a ben cinque province dell’isola.

Uno dei luoghi più “caldi” fu certamente Ragusa, dove, dopo l’arrivo delle prime cartoline di richiamo, la popolazione venne chiamata ad una riunione e si procedette ad istituire un comitato che elaborasse un piano di azione.

Tra i motivi che spingevano i richiamati ragusani a non presentarsi alle armi era di non poco conto il fatto che molti di loro avevano in precedenza militato nelle fila degli armati della RSI - anzi Ragusa, per la resistenza opposta al governo, sembra essersi meritata la medaglia d’oro della Repubblica di Salò - e pertanto, ora, ritenevano di non poter rispondere ad un provvedimento che, inevitabilmente, li avrebbe messi contro coloro al fianco dei quali avevano in precedenza combattuto.

Tuttavia ci riserviamo di assumere con il beneficio del dubbio l’assunto della loro supposta fedeltà a Mussolini e al governo di Salò.

Anche in questo caso l’esito era scontato, grazie all’intervento immediato ed efficace delle forze di polizia. La città fu riconsegnata all’ordine e si avviò subito il rastrellamento dei quartieri nei quali aveva avuto origine la sommossa. L’operazione si concluse con l’arresto di molti dei protagonisti dei moti e con il loro invio al confino nell’isola di Ustica, che poterono abbandonare solo nel luglio 1946 in seguito all’amnistia disposta dalla Repubblica.

A dicembre anche Palermo insorse.

La sommossa palermitana aveva, però, avuto un drammatico precedente nella strage del 19 ottobre 1944, quando i soldati – pure in seguito ad una aggressione di cui vennero fatti oggetto – spararono sulla folla che manifestava contro il carovita in contemporanea con lo sciopero degli impiegati comunali.

Due mesi dopo, il 15 dicembre 1944, appunto, studenti universitari manifestarono contro il richiamo alle armi, contestazione che venne subito negativamente giudicata e dal C.L.N. e dalla locale sezione del Movimento Giovanile Comunista.



Il ruolo del separatismo



Tra i separatisti c’erano delle componenti il cui primario intento era quello di non consentire lo sviluppo ulteriore dei partiti impegnati nella guerra che si facevano portatori di istanze popolari e che così grande consenso erano già riusciti a conseguire tra le masse.

Nel movimento separatista – che sembra, però, fosse riuscito a trovare sostenitori anche fra gli studenti, militavano infatti per lo più elementi della grande borghesia agraria, la cui preoccupazione principale era la difesa del diritto di proprietà il che, evidentemente, li rendeva “nemici naturali“ del partito comunista che tanta parte ricopriva nella guerra di liberazione - e che in Sicilia era il più grande partito di massa - lasciando così supporre che , una volta che il governo dell’Italia liberata fosse riuscito ad estendere la sua giurisdizione sul resto del paese, questo si sarebbe visto riconosciuto il contributo a ciò fornito con “ricompense “ di natura politica.

Col nuovo Alto Commissario per la Sicilia, Aldisio - che sostituiva l’ex Prefetto di Palermo, Francesco Musotto, che della stessa carica era stato in precedenza investito su decisione degli Alleati e che si distingueva dal primo per le sue simpatie socialiste - era giunta al potere la Democrazia Cristiana il che si ritenne potesse aprire delle strade ad un’azione anticomunista svolta dall’interno delle istituzioni.

Ma in tal modo, offrendo ai grandi proprietari una garanzia al mantenimento del proprio status economico - il che aveva una valenza politica rilevantissima, dato che permetteva di incanalare e di controllare le tendenze eversive che questi, con la loro presenza nel movimento separatista, sembravano sostenere - si rendeva possibile adottare, ora, anche nei confronti del separatismo una politica di opposizione più decisa e severa rispetto a quanto non si fosse potuto fare con Musotto il quale - per ovvie ragioni politiche - non poteva che mostrarsi disponibile ad una azione cauta e di compromesso.

Sul tema del separatismo interviene in quei giorni la “Voce Repubblicana“ che nel precisare come “(...) il nome stesso del movimento separatista è un errore, tanto più grave perchè per molti è un equivoco (...)“, ridimensiona - o almeno tenta di farlo - il carattere di estremismo per cui il movimento si era distinto.

L’autore dell’articolo in proposito sostiene che il sentimento diffuso nell’isola è quello repubblicano, non volendo più la Sicilia sentire parlare di Savoia e di monarchia, che le ricordano una gestione accentratrice e “coloniale “, un regime ed una guerra che le ha portato solo lutti.

Era da questa istituzione, deludente e poco responsabile, che ci si doveva allontanare e non dall’Italia.

E’ certo, comunque, che il Governo dell’Italia liberata prese atto dell’insofferenza che cresceva nell’isola a riguardo e dell’esigenza, che andava facendosi sempre più sentita, di affidarne l’amministrazione non più ad autorità a tale scopo inviate in Sicilia in rappresentanza dello Stato centrale ma a personale del luogo che, della propria terra, conoscesse tutte le ricchezze, i problemi e le potenzialità.

Per quanto riguarda nello specifico il movimento separatista propriamente inteso, è certo che i suoi membri agirono da protagonisti nelle vicende contestuali al richiamo alle armi, traendo dalle sollevazioni popolari un vigore tale da portarli a sostenere che lì a poco - queste le voci che circolavano – si potesse giungere a proclamare l’indipendenza dell’isola.





Le repubbliche del 1944 – 45. La Repubblica di Comiso e quella di Piana degli Albanesi.



Così a Comiso, dove sembrava che i tempi fossero ormai maturi perchè si potesse realizzare il progetto - preparato già da tempo - dell’on. La Rosa che aveva cercato e trovato l’appoggio dei separatisti del luogo per far partire, non appena ci fosse stato il richiamo alle armi, una rivolta che si sarebbe poi dovuta estendere al resto della Sicilia.

E così nel dicembre del 1944, gli studenti del paese, ricevuta la cartolina di richiamo, iniziarono una protesta nella quale subito coinvolsero il resto della popolazione che prese a guardare ad essi come a dei “benemeriti “.

Vennero organizzati comizi e dimostrazioni in cui i giovani intervenivano facendosi portatori del sentimento di delusione che tanti aveva assalito al momento dell’annuncio, da parte del Governo, del cambiamento di fronte. Ed ora finalmente, anche per quanti ritenevano che i morti amaramente pianti, la fame e gli stenti giustificassero la protesta molto più di qualunque scelta politica, era arrivato il tempo di ergersi contro chi a quelle durissime condizioni di vita li voleva ulteriormente costringere, piuttosto che agire concretamente per porvi rimedio.

Fu anzi addirittura necessario che gli studenti, ritenendo che non fosse ancora il momento giusto, placassero gli animi di tutti quelli che, esasperati, avrebbero voluto subito ricorrere alla forza.

Niente fu lasciato al caso. Si procedette a rifornire gli uomini di tutte le armi che fu possibile rastrellare, venne istituito un “ Comitato del Popolo” che dichiarò decaduta l’autorità dello Stato e costituita, di contro, la Repubblica di Comiso alla quale sembra che Mussolini avrebbe conferito la medaglia d’argento della RSI.

Per diversi giorni i comisani riuscirono a respingere tutti i tentativi fatti dai militari di riconquistare le loro posizioni e ripristinare l’ordine pubblico nel paese. Tutto questo sarebbe costato ai ribelli morti e feriti ma ciò non li fece desistere dall’intento di impedire il rientro nella città di un Governo che essi non riconoscevano più, tanto più che si sperava, in un repentino intervento delle forze del Nord .

Arrivò tuttavia il momento della resa. La prospettiva di vedere il paese raso al suolo, come era stato minacciato, costrinse i comisani a considerare più oculatamente il da farsi. Venne costituito pertanto un comitato parlamentare che avrebbe dovuto giungere ad un “armistizio”.

Non fu tuttavia possibile realizzare tale proposito ponendo la controparte, come unica condizione alla rinuncia a rappresaglia nei confronti della popolazione, l’accettazione della resa incondizionata.

Nel pomeriggio del 10 gennaio le forze governative rientrarono a Comiso, senza peraltro che agli abitanti venisse risparmiata - come pure era stato promesso - una violenta persecuzione che portò in carcere la gran parte di quanti avevano partecipato ai moti e costrinse molti giovani a presentarsi alle armi.La Repubblica Popolare di Piana degli Albanesi

Anche a Piana degli Albanesi, il 31 dicembre del 1944, era stata proclamata la “Repubblica Popolare”, che restò in piedi fino alla fine di febbraio del 1945 quando, con l’arrivo in forza dei militari, l’ordine pubblico venne ristabilito e la repubblica soppressa.



Le conseguenze della mancata risposta al richiamo e i problemi posti nel

caso di presentazione alle armi.



Questa dunque la situazione in Sicilia fra il 1944 ed il 1945.

Ma l’ondata di contestazione al provvedimento di richiamo investì tutte le zone della penisola che da esso furono interessate e, di ciò, dovettero prendere atto le autorità competenti investite del compito di presiedere alla presentazione alle armi.

Nei rapporti inviati dalle Regie Prefetture al governo si documenta con precisione questo stato di cose sottolineando anche che la mancata risposta all’appello ben si comprendeva, visto che ciò avrebbe significato, per le popolazioni che ne sarebbero state interessate, andare incontro ad ulteriori sacrifici.

E’ da sottolineare però che la resistenza opposta al richiamo alle armi poteva finire col danneggiare l’immagine dell’Italia, agli occhi degli Alleati.

La mancata affluenza di grandissima parte dei richiamati rappresentava, comunque, un enorme perdita per l’esercito, in termini di potenziale, tanto che il Ministero della Guerra si vide costretto, ai primi di gennaio del 1945, a ripresentare il bando, stabilire nuovi termini per la presentazione, promettendo che non si sarebbe dato corso ad alcun procedimento penale per quanti non avevano ancora risposto al richiamo purchè, ovviamente, decidessero di farlo allora.

La nuova chiamata del gennaio 1945 riguardò anche il secondo scaglione della classe 1924 ed il primo di quella 1925 - ultima classe utile per la leva- nel tentativo di rimediare alla scarsa affluenza in precedenza registrata.

Ma ancora una volta non si ottennero i risultati sperati tanto che, nel febbraio dello stesso anno c’era chi auspicava, per porre finalmente riparo a questa situazione, il ricorso a soluzioni drastiche che avrebbero dovuto colpire direttamente la massa dei richiamati distogliendoli dal proposito, eventualmente maturato, di opporre resistenza al provvedimento prospettando loro, come conseguenze di tale malaugurata decisione, la cancellazione dalle liste politiche o l’eliminazione dagli studi.

C’erano però anche problemi di altro genere da affrontare, che riguardavano quanti, invece, ai bandi di richiamo decidevano di rispondere, presentandosi così ai distretti.

Da alcuni telegrammi, inviati nel febbraio 1945 alle autorità competenti dall’Alto Commissario Aldisio, si desume che il trattamento ad essi riservato nei campi di raccolta non era certo tale da confermarli nella scelta fatta né, tantomeno, tale da poter incentivare altri richiamati a partire, in tal modo ponendo, evidentemente, nel nulla gli sforzi operati dalle autorità civili e militari in questa direzione.

Non mancavano infatti notizie di diserzioni nei campi di raccolta dei richiamati, nei quali si viveva in pessime condizioni..

Era naturale, dunque, che Aldisio avvertisse la necessità di informare chi di dovere su quanto stava accadendo, chiedendo un intervento immediato perché si provvedesse ad occuparsi in maniera adeguata dei richiamati.

Conclusioni

Il quadro che emerge dall’analisi delle vicende registratesi in Sicilia tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, non sembra essere minimamente rispondente all’idea, che generalmente si è abituati a condividere, di un movimento resistenziale che ha visto impegnati sul fronte della lotta contro il nazifascismo tutte le forze “vive e sane” del nostro paese e a cui sarebbe stato dato un sostanziale apporto dalle masse popolari, spontaneamente impegnatesi nella lotta contro il tedesco invasore e nell’estirpazione della “mala pianta” del fascismo.

L’Italia dell’ultimo anno di guerra fu, invece, anche il Paese dei renitenti alla leva, delle donne pronte a sfidare le autorità per impedire la partenza per il fronte dei loro figli e dei loro compagni, di quanti vivevano la frustrazione conseguente alle misere condizioni di vita cui erano costretti, di quanti si mantennero estranei all’attivismo politico, perché ormai convinti dell’inutilità di continuare a riporre fiducia in coloro che si proponevano per l’amministrazione della cosa pubblica, ogni volta promettendo risposta alle istanze più urgenti dell’isola che restavano però sistematicamente irrisolte, di quanti, invece, alla vita politica parteciparono in prima persona, tentando però la via delle Repubbliche popolari in polemica – e a volte violenta – replica all’immobilismo delle autorità competenti.

Tutto ciò a riprova dell’esistenza di una situazione diversa da quella largamente propagandata e che però, non per questo, sembra essere meno attendibile pur essendo meno eroica e meno adatta alla costruzione del mito della partecipazione di massa per la rinascita del Paese alla vita democratica.

Le motivazioni con cui si giustificava la renitenza alla leva erano principalmente di carattere pratico, mentre ruolo minore sembrano aver avuto quelle di carattere essenzialmente politico ed ideologico. In tali condizioni non sembra possibile considerare disonorevole la decisione di anteporre le preoccupazioni quotidiane, gli affetti e gli interessi personali al dovere di continuare a combattere. Quella in cui fino ad allora ci si era impegnati era stata una guerra che aveva arrecato solo lutti e miserie, e sul prosieguo della quale non si era autorizzati a nutrire speranze di positivi esiti.

La volontà di proporre, come alternativa alla continuazione della guerra stessa, l’impegno per la ricostruzione civile ed economica della propria terra era lì a testimoniare il dinamismo e non l’inerzia, la determinazione e non la mancanza di volontà di quanti ritenevano fosse giunta l’ora di offrirle, finalmente, nuove opportunità.